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21 gennaio 2017 - 40 anni senza Sandro Penna

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"ERETICO & CORSARO"



21 gennaio 2017 - 40 anni senza Sandro Penna


L'editore FaLvision in occasione del quarantennale della scomparsa del poeta Sandro Penna, morto a Roma il 21 gennaio 1977, organizza la presentazione della sua pubblicazione



di Carlo Picca.


Durante la serata, che sarà ospitata, a partire dalle ore 19, dalla Libreria Odusia in Rutigliano-Bari, saranno lette poesie di Sandro Penna attraverso un reading aperto a tutti coloro che vorranno parteciparvi e che possono prenotare il loro intervento scrivendo a questa pagina.

La serata sara' condotta da Massimo Bruni. Intervento critico sul poeta a cura della docente e Poetessa Lucia Diomede, e letture scelte a cura dell'attrice Antonella Cautero.

Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi 

Sabato dalle ore 19:00 alle ore 21:00

Via Turi, 5, 70018 Rutigliano



Carlo Picca, pugliese, si è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Bari. Dopo esperienze in campo scolastico come insegnante, ed editoriale come consulente letterario, attività che ancora svolge per alcuni autori ed editori, nel 2011 ha deciso di aprire una libreria a Rutigliano (Ba), che conduce con passione organizzando eventi letterari ed artistici rivolti al pubblico di ogni età, fra cui laboratori didattici, letture animate, incontri con Autori. Dal 2011 è iscritto come pubblicista all’Ordine dei Giornalisti di Puglia ed ha collaborato per quattro anni, come caporedattore, con il network pugliese La Voce del Paese. Attualmente
scrive articoli per alcuni magazine nazionali che si occupano di cultura e ha da poco pubblicato, per FaLvision Editore, un saggio critico sperimentale sul Poeta italiano 
Sandro Penna.

Ha deciso di intraprendere l’esperienza di blogger su Libreriamo intendendo proporre spunti di riflessioni sul mondo dei libri e dell’editoria, nonché recensioni e consigli per la lettura.



Il libro "106/110. Sandro Penna" di Carlo Picca, puoi acquistarlo QUI

L'evento organizzato per il 21 gennaio, lo troviQUI, su facebook.

Per leggere il saggio di Pier Paolo Pasolini - Come leggere Sandro Penna -QUI.


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Pier Paolo Pasolini - La vita - Pasolini in Friuli

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Pier Paolo Pasolini
La vita
.
Pasolini in Friuli
.di Massimiliano Valente




Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate di cui ha dissipato il patrimonio sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. I due sposi si trasferiscono in seguito a Bologna.
"Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unità d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio
nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma". (1) 
A Bologna la famiglia Pasolini resta poco: si trasferiscono a Parma, Conegliano, Belluno, Sacile, Idria, Cremona, ancora Bologna ed altre città del nord. 
"Hanno fatto di me un nomade. Passavo da un accampamento all'altro, non avevo un focolare stabile". 
Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. 
Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. 
Pier Paolo vive con la madre un rapporto di simbiosi, mentre si accentuano i contrasti col padre. 
"Tutte le sere aspettavo con terrore l'ora della cena sapendo che sarebbero venute le scenate [...] In me c'era una iniziale rimozione della madre che mi ha procurato una nevrosi infantile. Questa nevrosi mi aveva fatto diventare inquieto, di un'inquietudine che metteva in discussione in ogni momento il mio essere al mondo. [...] Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciori agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l'occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. E' da quel momento simbolico che ho cominciato a non amare più mio padre." (2) 
Riferendosi alla madre: 
"Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia madre era come Socrate per me. Aveva e ha una visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell'eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. Io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica". (3) 
Con il fratello Guido vive un rapporto di amicizia. Il fratello minore vive in una sorta di venerazione per il maggiore: bravo nello studio e nei giochi con gli altri ragazzi. Questa ammirazione accompagnerà Guido fino al giorno della sua morte. 
I primi anni di scuola sono compiuti tra innumerevoli trasferimenti che, comunque, non intaccano il rendimento scolastico di Pier Paolo. Frequenta la scuola elementare con un anno d'anticipo. Nel 1928 è l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico. 
Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio che frequenta a Conegliano. 
Di quegli anni il passo noto come Teta veleta, che Pasolini più tardi spiegherà in questo modo: 
"Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavano l'essere grande in quel gesto di giovanetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. 
Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l'intenerimento, l'accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell'irraggiungibile, del carnale - un senso per cui non è stato ancora inventato un nome. Io lo inventai allora e fu "teta veleta". Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo "teta veleta", qualcosa come un solletico, una seduzione, un'umiliazione". (4) 
Lo stesso Pasolini preciserà: 
"La mia infanzia finisce a 13 anni. Come tutti: tredici anni è la vecchiaia dell'infanzia, momento perciò di grande saggezza. Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l'estate del '34. Finiva un periodo della mia vita, concludevo un'esperienza ed ero pronto a cominciarne un'altra. Questi giorni che hanno preceduto l'estate del '34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita". (5)
Pier Paolo conclude gli studi liceali e a 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Negli anni del liceo crea, insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini (di cui Guido Pasolini prenderà a prestito il nome per la sua militanza partigiana nella Osoppo), Fabio Mauri, ad un gruppo letterario per la discussione di poesie. Collabora a "Il Setaccio", il periodico della Gil bolognese. In questo periodo Pasolini scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa poi alla redazione di  una rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con cui ha creato la Academiuta di lenga furlana. Il dialetto rappresenta una sorta di opposizione al potere fascista: 
"Il fascismo non tollerava i dialetti, segni / dell'irrazionale unita' di questo paese dove sono nato / inammisibili e spudorate realta' nel cuore dei nazionalisti /" (6) 
L'uso del dialetto rappresenta anche un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle masse sottosviluppate. 
Mentre la sinistra predilige infatti, l'uso della lingua italiana, e se si eccettuano alcuni sporadici casi del giacobinismo, l'uso dialettale è stata una prerogativa clericale, Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento in senso dialettale della cultura. 
Il ritorno a Casarsa rappresenta, negli anni dell'università, il ritorno ad un luogo felice per Pasolini. Scrive a Silvana Ottieri in una lettera dell'aprile 1947: 
"Che si fosse di sabato Santo era un particolare che mi lasciava freddo. Tu avessi visto i colori dell'orizzonte e della campagna! Quando il treno si fermò a Sacile, in un silenzio fittissimo, da ultima Tule, ho sentito di nuovo le campane. Là, dietro alla stazione di Sacile si spiegava verso la campagna una strada che non so se ho percorso durante l'infanzia o se ho sognato..."

Note:

(1) P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1983. 
(2) Intervista a Dacia Maraini in "Vogue", maggio 1971. 
(3) Ibidem
(4) Pier Paolo Pasolini, in Nico Naldini, Cronistoria.
(5) Pier Paolo Pasolini, in AA.VV., Pasolini, una vita futura, Ass. Fondo Pasolini, Garzanti, Milano 1985. 
(6) Pier Paolo Pasolini, Il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in "Nuovi Argomenti" nn. 67-68, Roma, luglio-dicembre 1980.
 




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Pier Paolo Pasolini - La vita - La seconda guerra mondiale. La morte del fratello Guido. Pasolini dal 1945 al 1949

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Pier Paolo Pasolini
La vita
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La seconda guerra mondiale.
La morte del fratello Guido.
Pasolini dal 1945 al 1949
di Massimiliano Valente

La seconda guerra mondiale rappresenta per Pasolini un periodo estremamente difficile. Il suo stato d'animo si intuisce anche dal tenore delle sue lettere:
"Quanto a salute non c'è male, anzi bene. Quanto a morale, anche, quando tutto è calmo, cioè raramente. Del resto, molta paura. Paura di lasciarci la pelle, capisci, Rico? E non soltanto la mia, ma quella degli altri. Siamo tutti così esposti al destino; poveri uomini nudi". (7)
"Non so se ci rivedremo, tutto puzza di morte, di fine, di fucilazione.... Tutto puzza di spari, tutto fa nausea, se si pensa che su questa terra cacano quei tali. Vorrei sputare sopra la terra, questa cretina, che continua a mettere fuori erbucce verdi e fiori gialli e celesti, e gemme sugli alberi..." (8)
Pasolini viene arruolato a Livorno nel 1943. All'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa.  La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versutta, piccolissima frazione di Casarsa, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio.
Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni è la morte del fratello Guido. Guido non accetta di rimanere nascosto a Versutta, e decide di intraprendere la lotta partigiana. Pier Paolo accompagna Guido alla stazione, dopo aver preso un biglietto per Bologna, in modo da sviare i sospetti. Guido da Spilimbergo raggiunge Pielungo aggregandosi alla divisione partigiana Osoppo. Assume il nome di battaglia di Ermes, il nome di Parini, uno degli amici di Pier Paolo disperso nella campagna di Russia. 
Tra i vari gruppi della resistenza antifascista friulana nascono conflitti intestini. I comunisti delle brigate garibaldine premono per un'annessione del Friuli alla Jugoslavia titoista, mentre la brigata Osoppo si fa paladina della italianità del Friuli. Guido scrive in proposito a Pier Paolo, perché si impegni, con suoi articoli, a difendere le posizioni della Osoppo. 

Nel febbraio del 1945 Guido viene massacrato, insieme al comando della divisione Osoppo. I fatti avvengono nelle malghe di Porzus: un centinaio di garibaldini si avvicinano fingendosi sbandati, catturano quelli della Osoppo e li passano per le armi. Guido, seppure ferito, riesce a fuggire e viene ospitato da una contadina. Viene trovato dai garibaldini, trascinato fuori e massacrato. La famiglia Pasolini saprà della morte e delle circostanze solo a conflitto terminato. Scrive Pasolini:
"Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzus, percorso da mio fratello in quel giorno tremendo, e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza di cielo. E la persona di Guido è così viva".
Così Pasolini racconterà su "Vie nuove", periodico comunista, del 15 settembre 1971, rispondendo a un lettore che chiedeva chiarimenti sulla morte di Guido:
"La cosa si racconta in due parole: mia madre, mio fratello ed io eravamo sfollati da Bologna in Friuli, a Casarsa. Mio fratello continuava i suoi studi a Pordenone: faceva il liceo scientifico, aveva diciannove anni. Egli è subito entrato nella Resistenza. Io, poco più grande di lui, l'avevo convinto all'antifascismo più acceso, con la passione dei catecumeni, perché anch'io, ragazzo, ero soltanto da due anni venuto alla conoscenza che il mondo in cui ero cresciuto senza nessuna prospettiva era un mondo ridicolo e assurdo. Degli amici comunisti di Pordenone (io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale, con tendenza al partito d'azione) hanno portato con sé Guido ad una lotta attiva. Dopo pochi mesi egli è partito per la montagna, dove si combatteva. Un editto di Graziani, che lo chiamava alle armi, era stata la causa occasionale della sua partenza, la scusa davanti a mia madre. L'ho accompagnato al treno, con la sua valigietta, dov'era nascosta la rivoltella dentro un libro di poesie. Ci siamo abbracciati: era l'ultima volta che lo vedevo.
Sulle montagne, tra il Friuli e la Yugoslavia, Guido combatté a lungo, valorosamente, per alcuni mesi: egli si era arruolato nella divisione Osoppo, che operava nella zona della Venezia Giulia insieme alla divisione Garibaldi. Furono giorni terribili: mia madre sentiva che Guido non sarebbe tornato più. Cento volte egli avrebbe potuto cadere combattendo contro i fascisti e i tedeschi: perché era un ragazzo di una generosità che non ammetteva nessuna debolezza, nessun compromesso. Invece era destinato a morire in un modo più tragico ancora.
Lei sa che la Venezia Giulia è al confine tra l'Italia e la Yugoslavia: cosi', in quel periodo, la Yugoslavia tendeva ad annettersi l'intero territorio e non soltanto quello che, in realtà, le spettava. Mio fratello, pur iscritto al partito d'azione, pur intimamente socialista (è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco), non poteva accettare che un territorio italiano, com'è il Friuli, potesse essere mira del nazionalismo yugoslavo. Si oppose, e lottò. Negli ultimi mesi, nei monti della Venezia Giulia la situazione era disperata, perché ognuno tra due fuochi. Come lei sa, la Resistenza yugoslava, ancor più che quella italiana, era comunista: sicché Guido venne a trovarsi come nemici gli uomini di Tito, tra i quali c'erano anche degli italiani, naturalmente le cui idee politiche egli in quel momento sostanzialmente condivideva, ma di cui non poteva condividere la politica immediata, nazionalistica.
Egli morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare: avrebbe potuto anche salvarsi, quel giorno: è morto per correre in aiuto del suo comandante e dei suoi compagni. Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l'operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nella cose, dentro la loro segreta e inalienabile verita'". (9) 

Pasolini metterà in versi nel Corus in morte di Guido, che appariranno nello Stroligut dell'agosto 1945:
La livertat, l'Itaia
e quissa diu cual distin disperat
a ti volevin
dopu tant vivut e patit
ta quistu silensiu
Cuant qe i traditours ta li Baitis
a bagnavin di sanc zenerous la neif,
"Sçampa - a ti an dita - no sta torna' lassu'"
I ti podevis salvati, 
ma tu
i no ti às lassat bessòi
i tu cumpains a muri'.
"Sçampa, torna indavour"
I te podevis salvati
ma tu
i ti soso tornat lassu',
çaminant.
To mari, to pari, to fradi
lontans
cun dut il to passat e la to vita infinida,
in qel di' a no savevin
qe alc di pi' grant di lour
al ti clamava
cu'l to cour innosent
La morte di Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la madre diviene ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in Kenia:
"Egli finì così a Casarsa, in una specie di nuova prigionia: e cominciò la sua agonia lunga una dozzina di anni". (10) 
Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana (introduzione e commenti)" e si stabilisce poi definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine.
In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 dà la propria adesione al Pci, iniziando una collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Pasolini da giovane nella casa di Casarsa - pasolini_11.JPG - b/n da 13KbLe circostanze della morte del fratello Guido rappresentano sicuramente una difficoltà da superare per l'adesione al Pci. Pasolini comunque ha sempre evitato strumentalizzazioni di quella faccenda, gli sembrava di infangare la memoria di Guido. Pier Paolo dovrà giustificare quell'adesione anche verso la madre e il padre, il quale incolpava la moglie di aver permesso che Guido frequentasse degli sbandati. 
L'adesione al Pci rappresenta per il giovane poeta un atto di profondo coraggio: intendeva con ciò sacrificare il profondo dolore inferto a sé e alla propria famiglia a un ideale sociale da condividere in pieno con quello stesso Pc friulano che aveva ispirato politicamente gli assassini del fratello. 
Pasolini diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito, e soprattutto dagli intellettuali comunisti friulani. Questi ultimi scrivono soggetti politici servendosi della lingua del Novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulta inammisibile: in Pasolini molti comunisti vedono un sospetto di disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un'eccessiva attenzione per la cultura borghese.
In questi anni Pasolini conosce il pittore Zigaina, cui rimarrà legato per tutto il resto della sua vita da una profonda amicizia. 
Questo periodo, il periodo della militanza comunista, è l'unico in cui Pasolini si sia impegnato attivamente nella lotta politica. Di questi anni i manifesti murali disegnati e scritti da Pier Paolo Pasolini; scritti di denuncia contro il costituito potere democristiano.
Il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l'inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la vita di Pasolini. 
Anni dopo, in una lettera inviata a Silvana Ottieri da Roma dove aveva stabilito la propria residenza Pasolini dirà, tra l'altro: "Su di me c'è il segno di Rimbaud, o di Campana o anche di Wilde, ch'io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no". 
Pasolini viene accusato di essersi appartato il 30 settembre 1949 nella frazione di Ramuscello con due o tre ragazzi. I genitori dei ragazzi non sporgono denuncia ma i Carabinieri di Cordovado venuti a sapere delle voci che girano in paese indagano sul fatto. E' un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la Dc, siamo in piena guerra fredda e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un bersaglio molto vulnerabile. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra che dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949, Pasolini viene espulso dal Pci. Ecco quanto riportato da "l'Unità" del 29 ottobre:
"ESPULSO DAL PCI IL POETA PASOLINI
La federazione del Pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l'espulsione dal partito del Dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese". 

Autoritratto di Pasolini del 1947 - pasolini_12 - b/n  da 10kbPasolini si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avrà una vasta eco. Davanti ai carabinieri cerca di giustificare quei fatti, intrinsecamente confermando le accuse, come una esperienza eccezionale, una sorta di sbandamento intellettuale: questo non fa che peggiorare la sua posizione: è espulso dal Pci, perde il posto di insegnante, si incrina momentaneamente il rapporto con la madre, è la disfatta. Pasolini decide di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato; insieme alla madre si trasferisce a Roma, è l'inizio di una nuova vita per Pier Paolo. Scriverà in seguito:
"Fuggii con mia madre e una valigia e un po' di gioie che risultarono false, / su un treno lento come un merci, / per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. / Andavamo verso Roma. / Andavamo dunque, abbandonato mio padre / accanto a una stufetta di poveri, / col suo vecchio pastrano militare / e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee. / Ho vissuto quella / pagina di romanzo, l'unica della mia vita: / per il resto, / son vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso". (11)
 

Note:

(7) Lettera al pittore De Rocco, autunno '44
(8) P.P.P. Lettere agli amici, a cura di Luciano Serra, Milano 1976, lett. IX passim. 
(9) Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Dialoghi 1960-1965, a cura di Giancarlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1996.
(10) Il profilo autobiografico in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia, 1960.
(11) Pier Paolo Pasolini, il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in "Nuovi Argomenti" n. 67-68, Roma, luglio dicembre 1980.




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Pier Paolo Pasolini - La vita - Le borgate romane. Esperienze letterarie. Il cinema. Quel tragico 2 novembre 1975

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Pier Paolo Pasolini
La vita
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Le borgate romane. Esperienze letterarie. Il cinema.
Quel tragico 2 novembre 1975
di Massimiliano Valente .


I primi anni romani sono difficilissimi per Pasolini, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale quella delle borgate romane. Sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine. Una situazione drammatica che meglio si evince dalle stesse parole di Pasolini: 
"Era un periodo tremendo della mia vita. Giunto a Roma dalla lontana campagna friulana: disoccupato per molti anni; ignorato da tutti; divorato dal terrore interno di non essere come la vita voleva; occupato a lavorare accanitamente a studi pesanti e complicati; incapace di scrivere se non ripetendomi in un mondo ch'era cambiato. Non vorrei mai rinascere per non rivivere quei due o tre anni". (12) 
"Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da Piazza Costaguti saremmo andati a abitare a Ponte Mammolo; già nel '50 avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l'aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittori Clemente trovai un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino, a venticinuque mila lire al mese". (13) 
Scrive Pasolini in quegli anni a Silvana Ottieri: 
"Una cosa che non capisco, e che non rientra nei calcoli, nel conto tra me e chi mi punisce, è il destino di mia madre. Non te ne scriverò a lungo, perché ho già le lacrime agli occhi. Ha trovato lavoro presso una famigliola (marito e moglie con un bambinello di due anni): e con un eroismo e una semplicità che non ti so dire, ha accettato la sua nuova vita. 
Vado a trovarla ogni giorno e le porto a spasso il bambino, per aiutarla un po': lei fa di tutto per mostrarsi contenta e leggera: ieri era il giorno del mio compleanno, e tu sapessi come si è comportata...". (14) 

Il padre è malato, e dopo i fatti di Casarsa si sono accentuati i contrasti con il figlio: 
"Due anni di lavoro accanito, di pura lotta: e mio padre sempre là, in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morenti". (15)
Pasolini piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, per pudore, cerca da solo di trovarsi un lavoro. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà; fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali. 
Finalmente, grazie al poeta in lingua abruzzese Vittori Clemente trova lavoro come insegnante in una scuola di Ciampino. 
Sono gli anni in cui Pasolini trasferisce la mitizzazione delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita: nasce il mito del sottoproletariato romano. 
"Sono due o tre anni che vivo in un mondo dal sapore "diverso": corpo estraneo  e quindi definito di questo mondo, mi ci adatto con prese di coscienza molto lente. Tra ibsnesiano e pascoliniano (per intenderci...) sono qui in una vita tutta muscoli, rovesciata come un guanto, che si spiega sempre come una di queste canzoni che una volta detestavo, assolutamente nuda di sentimentalismi, in organismi umani così sensuali da essere quasi meccanici; dove non si conosce nessuno degli attegiamenti cristiani, il perdono, la mansuetudine ecc... e l'egoismo prende forme lecite, virili [...] Nel mondo settentrionale dove io sono vissuto, c'era sempre, o almeno mi pareva, nel rapporto tra individuo e individuo, l'ombra di una pieta' che prendeva forme di timidezza, di rispetto, di angoscia, di trasporto affettuoso ecc.: per vincolarsi in un rapporto di amore bastava un gesto, una parola. Prevalendo l'interesse verso l'intimo, verso la bontà o la cattiveria che è dentro di noi, non era un equilibrio che si cercava tra persona e persona, ma uno slancio reciproco. Qui tra questa gente ben più succube dell'irrazionale, della passione, il rapporto è sempre invece ben definito, si basa su fatti più concreti: dalla forza muscolare alla posizione sociale". (16)
Pasolini prepara le antologie sulla poesia dialettale; collabora a "Paragone", una rivista di Anna Banti e Roberto Longhi. Proprio su "Paragone" pubblica la prima versione del primo capitolo di Ragazzi di vita.
Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. 
Nel 1954 Pasolini abbandona l'insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio (un quartiere piccolo-borghese di Roma). Pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù.
Nel 1955 viene pubblicato da Garzanti il romanzo Ragazzi di vita, che ha un vasto successo, sia di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale del Pci è in gran parte negativo. Il libro viene definito intriso di "gusto morboso, dello sporco, dell'abietto, dello scomposto, del torbido".
La Presidenza del Consiglio (nella persona dell'allora ministro degli Interni, Tambroni) promuove un'azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il processo dà luogo all'assoluzione perché "il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno tolto dalle librerie, viene dissequestrato. 
Pasolini diventa uno dei bersagli preferiti dai giornali di cronaca nera: viene accusato di reati al limite del grottesco: favoreggiamento per rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar limitrofo a un distributore di benzina a San Felice Circeo. 
Nel 1957 Pasolini, insieme a Sergio Citti, collabora al film di Fellini, Le notti di Cabiria, stendendone i dialoghi nella parlata romanesca. Firma le sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel film Il gobbo del 1960. 
In quegli anni Pasolini collabora alla rivista "Officina" accanto a Leonetti, Roversi, Fortini, Romanò, Scalia. Nel 1957 pubblica le raccolte di poesie Le ceneri di Gramsci da Garzanti e l'anno successivo, il 1958, da Longanesi, L'usignolo della Chiesa cattolica. Nel 1960 Garzanti pubblica la raccolta di saggi Passione e ideologia", e nel 1961 un altro volume di versi La religione del mio tempo
Nel 1961 Pasolini realizza il suo primo film da regista e soggettista, Accattone. Il film viene vietato ai minori di diciotto anni e suscita non poche polemiche alla XXII Mostra del cinema di Venezia. Del 1962 è  Mamma Roma. Nel 1963 l'episodio La ricotta diretto da Pasolini e inserito nel film RoGoPaG, viene sequestrato e Pasolini è imputato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. Nel '64 dirige Il Vangelo secondo Matteo; nel '65 Uccellacci e Uccellini; nel '67 Edipo re; nel '68 Teorema; nel '69 Porcile; nel '70 Medea; tra il '70 e il '74 la triologia della vita, ovvero Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte; il suo ultimo film è Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975. 
Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all'estero: nel 1961 è, con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (dove girerà un importante documentario dal titolo Sopralluoghi in Palestina). 
Nel 1966, in occasione della presentazione di Accattone e Mamma Roma al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane molto colpito da quel paese e soprattutto da New York. Confesserà a Oriana Fallaci: 
"Non mi era mai successo di innamorarmi così di un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare, per non ammazzarmi. Sì, l'Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti". (17)
Nel 1968 Pasolini è di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania  realizzerà il documentario Appunti per un'Orestiade africana.
Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume Empirismo eretico
Negli anni della contestazione studentesca Pasolini assume una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Seppure accetta e appoggia le motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene che questi siano antropologicamente dei borghesi, e in quanto tali destinati a fallire nel loro tentativo rivoluzionario. 
Nel 1968 Pasolini ritira dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo  Teorema e accetta di partecipare alla XXIX Mostra del cinema di Venezia solo dopo che, come gli è stato garantito, non ci saranno votazioni e premiazioni. Pasolini è tra i maggiori sostenitori dell'Associazione Autori Cinematografici che si batte per ottenere l'autogestione della mostra. Il 4 settembre il film Teorema viene proiettato per la critica in un clima arroventato. Pasolini interviene alla proiezione del film per ribadire che il film è presente alla Mostra solo per volontà del produttore, ma in quanto autore prega i critici di abbandonare la sala. Ciò non avviene. Il regista si rifiuta allora di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, e invita i giornalisti nel giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale. 
Nel 1972 Pasolini decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di loro, tra cui Bonfanti e Fofi, firma il documentario 12 dicembre, sulla strage di piazza Fontana a Milano. 
Nel 1973 comincia la sua collaborazione al "Corriere della Sera", con interventi critici sui problemi del paese.
Nel 1970 Pasolini acquista quel che resta di un castello medievale nei pressi di Viterbo. Lo ristruttura e qui comincia la stesura della sua opera che resterà incompiuta, Petrolio.
Nel 1975, presso Garzanti, pubblica la raccolta di interventi critici Scritti corsari, e ripropone le poesia friulana con il titolo di La nuova gioventù.
La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. E' Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini.
"Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l'altro nascosto dal corpo.
. .
I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segni dei pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un'orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato". (18) 

Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio. Racconta di aver incontrato Pasolini presso la Stazione Termini, e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere; lì, secondo la versione di Pelosi, Pasolini avrebbe tentato un approccio sessuale e vistosi respinto avrebbe reagito violentemente;  questo avrebbe scatenato la reazione del ragazzo.Il processo che segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si ipotizza da diverse parti il concorso di altri nell'omicidio. Non vi sarà mai chiarezza su questo punto. Pino Pelosi viene condannato, unico colpevole, per la morte di Pasolini.
Pasolini è sepolto a Casarsa, nel suo mai dimenticato Friuli.
"E' dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell'ambito appunto di una Semiologia generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci". (19)

Note:

(12) Pier Paolo Pasolini, Il treno di Casarsa, in "FMR", n. 28, novembre 1984, Franco Maria Ricci, Milano.
(13) "Profilo autobiografico" in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960.
(14) "Lettera a Silvana Ottieri" in AA. VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977.
(15) "Profilo autobiografico" in Ritratti su misura di scrittori italiani, cit. 
(16) "Lettera a Silvana Ottieri", cit.
(17) Oriana Fallaci, Lettera a Pier Paolo Pasolini, in "Europeo", 14 novembre 1975. 
(18) Dalla "Perizia compiuta sul cadavere di Pasolini", "Corriere della Sera" del 2 novembre 1977.
(19) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano.



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La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco - Prefazione

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"ERETICO & CORSARO"




La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco 

 DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI 
DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA 
XXVI CICLO (2010-2013) 






                TUTOR:                                                ADDOTTORANDA:
      
PROF.SSA     SIMONA COSTA                             FRANCESCA TOMASSINI



INDICE


PREFAZIONE


CAPITOLO PRIMO


1.1 Primi esperimenti teatrali (1938-1950)
1.2 Roma, Gramsci e i nuovi teatri (1950 – 1965)
1.3 La rivoluzione non è più che un sentimento. La crisi delle ideologie e il superamento del modello gramsciano
1.4 Il Manifesto per un nuovo teatro 
1.5 La lingua di poesia come strumento di protesta 

CAPITOLO SECONDO


2.1 Orgia 
2.2 Pilade
2.3 Affabulazione
2.4. Calderón
2.5 Porcile
2.6 Bestia da stile

CAPITOLO TERZO


3.1 La tradizione e la Grecia 
3.2 Edipo, Cronos, Medea, Oreste, Pilade 
3.3 Il linguaggio cinematografico e teatrale nella trattazione del mito

CAPITOLO QUARTO


4.1 Nel teatro italiano novecentesco
4.1.1 Il modello rifiutato: il teatro in versi di Gabriele d’Annunzio
4.1.2 Per un altro teatro in versi: la drammaturgia di Mario Luzi
4.1.3 Non c’era un gesto, uno sguardo che fosse in più. Eduardo De Filippo, Giovanni Testori, Carmelo Bene
4.1.4 Tra polemica e drammaturgia: Pasolini, Sanguineti e il Gruppo’63
4.2 Il grande teatro europeo novecentesco
4.2.1 Il teatro in versi anglosassone: William Butler Yeats e Thomas Stern  Eliot
4.2.2 Il Teatro Tedesco: Il Maestro Bertolt Brecht e il teatro documentario   di Peter Weiss 
4.3 Un marxista in America: la controcultura statunitense, il Living Theatre e la  Beat generation 

BIBLIOGRAFIA

FILMOGRAFIA


PREFAZIONE


Un lettore quando si approccia ad un testo è solito domandarsi come andrà a finire la storia narrata, dove lo condurrà e quali sono i messaggi che l’autore intende proporre attraverso le sue parole. Contro questa ingenua pretesa si colloca l’opera pasoliniana che la magmatica bibliografia critica, nel corso dei decenni, ha aggettivato come: contradditoria, provocatoria, sterminata, lungimirante, veggente, straordinaria, apocalittica, controversa, barbara, brutale, sofferta, ecc. Ma la poliedricità insita nel poeta, nel regista, nel drammaturgo e nel saggista Pier Paolo Pasolini ha sempre impedito, nonostante l’esplosione di interesse e i numerosi studi relativi alle sue opere, una lettura univoca e unilaterale di una parabola artistica tesa a mantenere lo studioso (ma anche il semplice lettore) in una costante tensione critica e in una curiosità intellettuale mai sopita.

   Negli anni immediatamente successivi all’omicidio si è verificata una vera e propria profusione di convegni, dibattiti, articoli e pubblicazioni sul cosiddetto scandalo Pasolini, sul personaggio, sull’omosessuale scandaloso, sulle ombre di un delitto atroce che ha spezzato la vita e il pensiero di un uomo tanto contestato in vita quanto mitizzato dopo la sua morte.
  
   L’opera di un intellettuale stava sfumando dietro una mitografia del personaggio, obbediente alle richieste pubblicitarie dell’editoria di mercato ma a partire dagli anni Ottanta, in particolare con le monografie di Guido Santato e Rinaldo Rinaldi, si è riportata al centro del dibattito culturale la lettura critica dell’opera pasoliniana, in modo da evitare, una volta per tutte, l’equivoco biograficomediatico che l’aveva offuscato.

   L’attenzione nei confronti dell’opera del poeta friulano non si è arrestata: anzi, nel corso dei decenni abbiamo assistito ad un sempre rinnovato interesse che ha riguardato tutte le aree della poliedrica ed inesausta attività artistica di Pasolini. Basti pensare alla problematica pubblicazione di Petrolio nel 1992 e all’ampia e articolata edizione per i Meridiani Mondadori di Tutte le opere di Pasolini, in dieci volumi, per la cura di Walter Siti: testi e studi in grado di avviare nuove aperture interpretative dell’officina pasoliniana.

   Nel corso di questi quattro decenni l’immagine dell’autore friulano e della sua opera è mutata notevolmente, in quanto la critica ha cominciato a dare spazio anche ad alcuni aspetti della sua produzione troppo spesso lasciati in ombra, come la sua sperimentazione teatrale. 
  
   Il mio lavoro consiste anzitutto nella valorizzazione dell’esperienza drammaturgica di Pasolini, non più considerata quale attività secondaria e accessoria del suo itinerario, ma indagata nei suoi caratteri di originalità all’interno del panorama italiano, allargando anche il quadro al contesto internazionale. 

   Persuasa e affascinata dall’importanza ascritta dallo stesso autore alla sua opera teatrale, ho avviato la mia ricerca sin dagli scritti teatrali giovanili, per mettere in luce la continuità non solo dell’interesse ma anche della riflessione drammaturgica nell’intero percorso pasoliniano, come dimostrazione che la drammaturgia è sempre stata oggetto di grande interesse e di studio per il poeta friulano. 

   Intraprendendo poi un’attenta analisi del corpus delle sei tragedie del 1966 (Orgia, Affabulazione, Pilade, Calderòn e Bestia da stile), indagate nel loro interscambio tra antico e moderno, è stato possibile individuare proprio nella dialettica fra recupero delle fonti classiche e volontà avanguardistica la cifra innovativa del teatro di Pasolini. Nasce di qui il tentativo di intraprendere un’originale riprospettazione in chiave moderna dei grandi miti, lungo una sperimentazione che conduce anche alla contaminazione tra parola drammaturgica e visione cinematografica, nella feconda dialettica che si instaura nell’attività pasoliniana tra cinema e teatro. Il fervore con cui Pasolini si dedica al teatro in questi anni è da interpretarsi come una conseguenza del periodo di crisi, dovuta all’esaurirsi dell’impegno ideologico e civile che aveva animato tutto il decennio precedente e ai continui attacchi ricevuti da destra e da sinistra, da conservatori e progressisti, sia in ambito artistico sia in quello umano.

   L’esperienza poetica di Pasolini risente profondamente di questa crisi tanto da lasciar spazio alle sperimentazioni cinematografiche, alla produzione saggistica e alla stesura, mai portata a termine, delle tragedie.

   Nella mia indagine resta comunque centrale il versante teatrale, di cui, nel quarto capitolo (cuore pulsante della ricerca), si ricostruisce un quadro di riferimenti nazionali ma soprattutto internazionali che intendono aprire prospettive del tutto nuove ed originali sull’ottica drammaturgica di Pasolini e la sua capacità di dialogo con il panorama contemporaneo. Particolare attenzione è stata dedicata alla tradizione del teatro novecentesco in versi, ad iniziare dal nostro d’Annunzio, per procedere con il teatro in versi di Mario Luzi e arrivare ad analizzare esperienze drammaturgiche come quelle di W. B. Yeats, T. S. Eliot e Peter Weiss: l’azzardata scommessa teatrale di Pasolini ha infatti in questo filone uno dei suoi più rilevanti punti di riferimento, Ma la tesi porta in luce anche la capillare volontà di fruizione da parte di Pasolini di quanto di più nuovo e innovativo si muove nel panorama drammaturgico internazionale: dal riconoscimento del magistero brechtiano alle suggestioni della rivoluzione operata dal Living Theatre fino al fascino emanato dal gruppo della Beat Generation e, in particolare, da Allen Ginsberg. Il tutto senza dimenticare le esperienze nazionali, affrontate,  in positivo o in negativo, da Eduardo De Filippo, Carmelo Bene e Giovanni Testori (considerati gli esperimenti drammaturgici di più felice riuscita nel teatro moderno) fino alla polemica letteraria (e non solo) con il Gruppo 63, in particolare con Edoardo Sanguineti.

   Il mio lavoro si è quindi concentrato su un versante della produzione pasoliniana di solito accantonato e poco valutato, cercando di indagare a fondo oltre il panorama critico oggi a disposizione su tale argomento, nel tentativo di approdare a risultati originali e persuasivi. La tesi ha dunque l’obiettivo di far emergere un nuovo volto di Pasolini, finora misconosciuto, quello del drammaturgo impegnato in una difficile scommessa, sostanziata da un recupero delle tematiche mitiche e classiche ma al contempo proiettata in un’azzardata proposta di innovazione novecentesca, del tutto al passo con le contemporanee sperimentazioni a livello internazionale. 

   La molteplicità di connessioni riscontrate e analizzate garantiscono il dato, sostanzialmente acquisito, dell’assunzione, ancora non del tutto proclamata e riconosciuta dalla critica, di Pasolini come punto di riferimento per le innovazione teatrali più significative dagli anni Settanta ad oggi.

   La prima difficoltà riscontrata è stata quella di muoversi nella amplissima produzione saggistica relativa all’opera di Pasolini, per cui occorre fare i conti con tutta una tradizione critica, anche remota,  fino ad arrivare al più recente ripensamento che è tutt’ora in corso della figura di Pasolini, da considerare, prima di tutto, come umanista poliedrico. Nonostante l’intento della mia tesi fosse di concentrarsi sulla poco esplorata attività teatrale, risulta impossibile scindere i diversi ambiti di indagine esplorati dall’autore, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, momento in cui l’esperienza cinematografica e la parola teatrale si contaminano a vicenda, tanto che Edipo re (1967), Teorema (1968), Orgia (196668), Porcile (1969), Affabulazione (1966-69), Medea (1970), possono essere considerate le tappe principali di questo percorso che coincide con la crisi del modello gramsciano e con il momento di congedarsi dal modello marxista per accostarsi a nuovi metodi conoscitivi. In realtà, Pasolini non abbandonerà mai definitivamente Gramsci come punto di riferimento ma si trova ora a doversi confrontare con un universo culturale in pieno cambiamento verso cui intende opporsi. Vive quindi un momento di spasmodica ricerca d’alternative artistiche e conoscitive per poter affrontare l’egemonia della cultura di massa. 
L’esigenza di esprimersi attraverso il teatro in versi, così provocatoriamente inattuale, diventa quindi impellente all’interno di questo globale quadro di contestazione culturale.   

   Il mio studio mi ha portato a considerare il teatro, tanto intrigante e complesso, quanto poco esplorato e sottovalutato, come un tassello fondamentale dell’intera parabola artistica di Pasolini, tenendo sempre presente che l’esperienza dell’antitesi costituisce la matrice strutturale della sua intera opera. Si intende quindi fissare alcune differenti coordinate su cui appare opportuno collocare l’esperienza drammaturgica pasoliniana  

   Nell’anno che precede il quarantesimo anniversario della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, ancora è possibile avvertire la passione e l’ideologia che infiammò l’anima di un poeta che diede scandalo.



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Pasolini - Primi esperimenti teatrali (1938-1950) - Di FRANCESCA TOMASSINI

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La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco 

 DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI 
DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA 
XXVI CICLO (2010-2013) 






                TUTOR:                                                ADDOTTORANDA:
      
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INDICE


PREFAZIONE



CAPITOLO PRIMO


1.1 Primi esperimenti teatrali (1938-1950)
1.2 Roma, Gramsci e i nuovi teatri (1950 – 1965)
1.3 La rivoluzione non è più che un sentimento. La crisi delle ideologie e il superamento del modello gramsciano
1.4 Il Manifesto per un nuovo teatro 
1.5 La lingua di poesia come strumento di protesta 

CAPITOLO SECONDO


2.1 Orgia 
2.2 Pilade
2.3 Affabulazione
2.4. Calderón
2.5 Porcile
2.6 Bestia da stile

CAPITOLO TERZO


3.1 La tradizione e la Grecia 
3.2 Edipo, Cronos, Medea, Oreste, Pilade 
3.3 Il linguaggio cinematografico e teatrale nella trattazione del mito

CAPITOLO QUARTO


4.1 Nel teatro italiano novecentesco
4.1.1 Il modello rifiutato: il teatro in versi di Gabriele d’Annunzio
4.1.2 Per un altro teatro in versi: la drammaturgia di Mario Luzi
4.1.3 Non c’era un gesto, uno sguardo che fosse in più. Eduardo De Filippo, Giovanni Testori, Carmelo Bene
4.1.4 Tra polemica e drammaturgia: Pasolini, Sanguineti e il Gruppo’63
4.2 Il grande teatro europeo novecentesco
4.2.1 Il teatro in versi anglosassone: William Butler Yeats e Thomas Stern  Eliot
4.2.2 Il Teatro Tedesco: Il Maestro Bertolt Brecht e il teatro documentario   di Peter Weiss 
4.3 Un marxista in America: la controcultura statunitense, il Living Theatre e la  Beat generation 

BIBLIOGRAFIA

FILMOGRAFIA




CAPITOLO PRIMO 




1.1  PRIMI ESPERIMENTI TEATRALI (1938-1950) 







 Negli ultimi anni abbiamo assistito alla fioritura di studi critici relativi all'attività del Pasolini drammaturgo, grazie ai quali si è forse riusciti, una volta per tutte, a leggere l’esperienza teatrale pasoliniana non più come un capriccio mal riuscito di un intellettuale a tutto tondo o come una parentesi poco incisiva di un autore che è sempre stato valutato e apprezzato soprattutto come poeta, regista e critico corsaro. Eppure il teatro appartiene a Pasolini sin dai tempi dell’adolescenza bolognese, rimane vivo nelle riflessioni teoriche e linguistiche degli anni Quaranta a Casarsa e in tutti gli anni della maturazione artistica e personale vissuta a Roma, per poi culminare con la complessa elaborazione del corpus delle sei tragedie su cui ci soffermeremo più avanti in questo lavoro.
  
   L’intera avventura drammaturgica pasoliniana va considerata all’interno della sua opera omnia per poterla valutare in relazione alle realtà italiane e europee, per capire come essa sia stata un’esperienza tutt’altro che isolata e marginale ma come sia invece il risultato di una lunga ed elaborata riflessione che ha portato alla formazione di una notevole competenza teatrale.
  
   In questo primo capitolo intendo concentrarmi sulla ricchezza stilistica, tematica e linguistica degli esperimenti teatrali pasoliniani(1) antecedenti alle sei tragedie e alla stesura del Manifesto per il nuovo teatro (1968), che rimane comunque l’unico scritto teorico relativo all’esperienza drammaturgica: non trattare queste opere renderebbe impossibile collocare i successivi drammi in una corretta prospettiva.

   Il primo dramma concepito da un inesperto e sedicenne Pier Paolo è La sua gloria, abbozzato nel 1938 a Bologna, opera in cui «la cornice geografica, antropologica, linguistica, sentimentale di Casarsa e del Friuli degli anni Quaranta rappresenta l’humus fertile per una creatività che si impianta su una vocazione davvero precoce».(2

   Il motivo che lo spinge a scrivere il suo primo dramma è la partecipazione ad un concorso letterario dei Ludi Juveniles, promosso dal fascismo sul modello dei più noti Littoriali, riservati agli studenti universitari. Al concorso vengono accettati diverse tipologie di scritti: drammi, poesie, novelle, articoli sportivi o economico - politici, pitture e sculture, tutte forme artistiche finalizzate ad illustrare un episodio del Risorgimento. 
  
   Studente del primo liceo all’Istituto Classico “L. Galvani” di Bologna, Pasolini si3) Il dramma, ambientato nei primi dell’Ottocento, ha come protagonista Guido Solera, giovane poeta carbonaro, accusato dall’Impero austriaco di ribellione e per questo condannato a morte per essere poi graziato ma costretto trascorrere vent’anni al carcere Spielberg. Per il personaggio di Guido, Pasolini si rifà alla vicenda storica di Antonio Solera (1786-1848), avvocato arrestato nel 1820 e condannato in un primo momento alla pena di morte e poi a vent’anni di carcere duro dal tribunale di Venezia.(4) La trama si articola in tre atti: il primo aspetto che ci viene presentato di Guido, nell’atto che apre il dramma, è il suo sentito immedesimarsi con la figura del poeta: la sua passione è tutta per la poesia, ma ancora non arde in lui quello spirito patriottico che si infiammerà con l’arrivo dell’amico di famiglia Carlo Geni, che lo coinvolge nella causa carbonara. A questo punto entra in scena anche la madre del protagonista, che vive un amore profondo e soffocante nei confronti del figlio: il rapporto stretto, a tratti morboso che lega i due, rappresenta una dei temi predominanti dell’intero dramma (anche in questo è possibile rintracciare un accenno a Susanna Colussi, madre di Pier Paolo).
aggiudica la vittoria grazie al testo La sua gloria.(
   Nel secondo atto, composto da una sola scena, assistiamo all’arresto di Guido da parte degli Austriaci, sotto gli occhi dell’angosciata madre.  

   Il terzo atto è invece ambientato a Venezia, precisamente a Piazza San Marco, dove Guido viene trascinato dai gendarmi e condannato a morte, mentre la madre, in preda alla disperazione, chiede la grazia del figlio, Guido riesce a scorgerla tra la folla e le chiede di pregare per lui. Troviamo infine il protagonista rinchiuso in una cella dello Spielberg mentre ripensa alla sua infanzia, all’amore della madre e al dilagare dei moti risorgimentali per i quali ha speso il suo silente ma non inutile sacrificio:  

GUIDO 

E’ differente il mio sacrificio  
forse più squallido, forse più misero;  
ma non fecondo per la nostra Patria!  
Sì, sì certo se essi non sapessero che dei loro fratelli languono  
e si consumano in queste celle lontane,  
meno fervido sarebbe il loro entusiasmo!(5)

   Con queste battute il protagonista si appropria della sua intima e personale gloria che dà il titolo all’intero dramma. 
  
    L’esordio pubblico di Pasolini è quindi sotto il segno del teatro, fin dall’inizio concepito come teatro delle confessioni nascoste che poi svilupperà nelle tragedie: la sua vocazione teatrale «nasce dal bisogno di mettere a nudo le proprie intime confessioni sul palcoscenico della condivisione pubblica ma anche del ludibrio pubblico. Se la poesia, infatti, è monologo univoco dei propri pensieri e sentimenti, il teatro si presenta come messa in scena, quasi esorcismo, di quel monologo interiore ma riletto nel suo conflitto con l’esterno».(6)

   Come primo dramma colpisce per la compiutezza della trama (con spunti autobiografici), per la resa formale riuscita, ma soprattutto per la presenza di due elementi che si riveleranno peculiari in tutta la vita, sia privata che intellettuale, del Pasolini più maturo: la figura materna fortemente presente e l’impegno civile che lo porta ad aderire a un movimento rivoluzionario, anche se destinato a rimanere soffocato dentro una prigione. Sono queste le passioni che agitano l’animo del protagonista Guido, evidente alter ego di Pier Paolo, poeta che crede nella causa patriottica, agitato da sentimenti forti e dalla vocazione poetica e che finisce martire del suo stesso sogno rivoluzionario. La scena iniziale, di leopardiana memoria, vede Guido solo e tormentato, chiuso nella sua camera, mentre osserva la luna e avverte la difficoltà di riuscire a comunicare come vorrebbe e cioè liricamente. Attraverso Guido, Pierpaolo racconta i febbrili anni di studi giovanili che rappresentano il suo personale cantiere creativo adolescenziale da cui attingerà e su cui lavorerà per tutta la vita. Nella tragedia Bestia da stile (1966-1974), sua autobiografia dichiarata, che analizzeremo a fondo più avanti, il protagonista Jan/Pier Paolo altro non è che un’evoluzione del prototipo pasoliniano rappresentato da Guido: Jan (anche questo ripreso da un personaggio storico realmente esistito: Jan Palach, studente ceco, che si diede fuoco per opporsi all’invasione russa degli anni Sessanta e divenne il simbolo della protesta) è un poeta tormentato, impegnato nella guerra partigiana e in cerca di fama letteraria, costantemente scisso tra la ricerca della gloria civile e quella poetica. 

   Anche l’esordio letterario pasoliniano rappresenta quindi un esercizio di
scrittura e di sperimentazione linguistica: nell’episodio ambientato a Venezia l’autore non rinuncia a introdurre nel testo alcune battute in veneto, a conferma di come il suo interesse per i dialetti e la cura riservata alla scelte linguistiche nel teatro (come nella poesia o nella narrativa) facciano parte, da sempre, della struttura dell’opera pasoliniana. 

   Dal punto di vista tematico, constateremo come le sei tragedie ruotino tutte intorno al rapporto schiacciante tra Potere e singolo individuo, dicotomia su cui Pasolini comincia a riflettere già ne La sua gloria: Solera lotta contro un’occupazione, contro l’oppressione che potrebbe anche richiamare la dittatura fascista, a cui risponde la riluttanza, tutta pasoliniana, rispetto all’egemonia esercitata dal Potere. Ma forse questa potrebbe essere una lettura forzata dato che, come abbiamo visto, il dramma fu concepito per partecipare ad un concorso indetto dal regime. 

   Possiamo dunque affermare che La sua gloria assume un rilevanza notevole sia per la costruzione del protagonista Solera, indicato proprio come «prototipo di un personaggio»(7 )pasoliniano sia perché permette di siglare il primo vero esordio letterario di Pasolini sotto il segno del teatro e non sotto quello poetico con la ben più nota pubblicazione della raccolta Poesie a Casarsa del 1942.

   E’ proprio nello stesso anno dell’esordio poetico che Pasolini elabora il suo secondo tentativo teatrale, misurandosi per la prima volta con la materia tragica greca, cimentandosi in una personale riscrittura dell’Edipo all’alba. La tragedia pasoliniana conta cinque atti; oltre al coro, i personaggi sono Edipo, Ismene, Antigone e Menadi. Il documento, rimasto inedito nella sua versione integrale,(8) rappresenta un testo autonomo, che indubbiamente si rifà al mito edipico, stravolgendolo e rielaborandolo. La trama racconta l’alba del giorno dopo: Edipo ha appena scoperto la sua colpa, il suicidio di Giocasta si è avverato e a Tebe vige un immutabile clima di morte. Nel secondo atto Edipo riflette sulla tragicità della vita e profetizza di sopravvivere ai suoi figli. La tragedia però comincia a profilarsi nel quarto atto con l’arrivo di Ismene che svela come sia nato in lei il desiderio amoroso ed erotico nei confronti del fratello Eteocle: tutto è avvenuto in seguito ad un sogno rivelatore che ha lasciato dentro di lei una sensazione di orrore e di passione. Per questa sua colpa, Ismene chiede di essere uccisa; sarà lo stesso padre ad infliggerle la morte. Nel quinto e ultimo atto si accende una diatriba tra il Coro e le Menadi sul diritto di sepoltura di Ismene: peccatrice per i Tebani, innocente per le Menadi che decideranno di rapirla e portarla in cielo. La tragedia si chiude con la partenza di Antigone e del cieco Edipo da Tebe.

   Già dalla trama, anche se riassunta brevemente, è possibile riconoscere alcune delle tematiche che ritroveremo frequentemente nelle tragedie degli anni Sessanta. Primo fra tutto il tema del sogno che già qui è sogno rivelatore di desideri incestuosi e impossibili da concepire razionalmente. In Pasolini l’idea del sogno nasce da sempre come tramite tra la razionalità e l’inconscio, un inconscio in cui si annidano e si nascondono passioni orribili ma in grado di vincere la volontà umana: succede a Ismene che, dopo aver scoperto e svelato la sua passione segreta, chiede e ottiene la morte per questa colpa e più avanti vedremo come, anche in Affabulazione e in Calderón, i protagonisti, risvegliandosi dai propri sogni rivelatori, non saranno più in grado di riconoscere come propria la realtà che li circonda e alla fine saranno vinti e schiacciati dalla verità che il sogno ha portato con sé. 

   Come farà in Pilade, opera scritta come fosse una sorta di quarto capitolo dell’Orestea eschilea in cui Pasolini sceglie come protagonista il fedele amico di Oreste, Pilade, che nella trilogia greca rimaneva più che marginale, anche nell’Edipo all’alba l’autore decide di raccontare la passione amorosa ed erotica vissuta da Ismene, la meno nota tra le figlie di Edipo, passione che inoltre non ha altre attestazioni nel mito classico. C’è sicuramente in Pasolini la propensione ad attingere al mito greco senza però compiere un’azione di riscrittura ma piuttosto la volontà di servirsi della materia come punto di partenza più ad atto su cui costruire poi la sua tragedia. 

   Nel caso di Edipo all’alba, è stato già notato come l’opera pasoliniana possa forse essere ricollegata all’Oedipe (1931) di André Gide, opera letta probabilmente da Pier Paolo che cita lo scrittore francese tra gli autori letti.(9) E’ molto probabile che Pasolini sia stato influenzato dall’opera francese e ancor di più è ipotizzabile che abbia deciso di cimentarsi su un testo che trattasse proprio il mito edipico dopo aver assistito, nel giugno del 1941, quindi pochi mesi prima la scrittura dell’Edipo all’alba, alla messa in scena dell’Edipo re curata da Enrico Fulchignoni.(10)

    Nell’opera di Gide è Polinice a provare una passione incestuosa nei confronti 11)
di sua sorella Antigone mentre l’altro fratello Eteocle confessa, con brutale sincerità, di voler possedere sessualmente sua sorella Ismene. Il motivo tutto greco delle colpe dei padri che ricadono sui figli, tematica su cui Pasolini continuerà la sua riflessione anche negli scritti più maturi, emerge in questa tragedia in cui la colpa impossibile da espiare da Edipo, peccatore in quanto marito e amante di sua madre Giocasta, si moltiplica attraverso la passione incestuosa provata dalla figlia, che genera in lei un senso di colpa (di origine cristiana e non greca) tanto da indurla a chiedere la morte come punizione. In questa richiesta ritroviamo il tema del sacrificio cercato e ottenuto, che caratterizzerà alcuni dei personaggi pasoliniani: Ismene sarà l’ulteriore vittima del destino già stabilito, rappresentato da Edipo, originariamente omicida del padre, poi sposo della madre e infine di nuovo omicida della figlia. Ecco quindi il ribaltamento pasoliniano del mito edipico: sono i padri ad uccidere i figli (altro elemento che ritroveremo in Affabulazione). Con questa struttura circolare si compie e si conclude la prima tragedia di natura greca pasoliniana; «nel mito tragico, reinventato attraverso il pastiche, si sovrappongono una all’altra contaminazioni oppositorie tipicamente pasoliniane (paganesimo e cristianesimo, sacro e profano, puro e impuro); il sacrificio tragico diviene sacrificio rituale e religioso (eppure al contempo sacrilegio).[…]Il mito è per Pasolini una figura di pensiero in cui si addensa ed enfatizza la tragedia della condizione umana».(

   Il 1944 è l’anno del terzo e forse primo significativo tentativo teatrale pasoliniana con l’opera I Turcs tal Friul, scritta in dialetto friulano, in quella parentesi della storia mondiale e personale che Pier Paolo trascorre a Casarsa, durante la guerra, l’invasione nazista e l’esperienza partigiana del fratello Guido. 

   Pier Paolo chiude il manoscritto del dramma, pubblicato postumo nel 1976,(12) con una nota, anch’essa in friulano, che indica i tempi di composizione: 

I ai scrit i Turcs dal 14-15 al 22 di maj – il vinçedoi, dì trist, apena disnat. I mi soi sintut pierdutcoma mai, besoul, ta li Agussis.
I ai lavorat cuatris oris e miesa e dal «coru dai Turcs» scrit stamatina, i au finit il miracul. Sensa quistu dì, Maj al è stat un mies assai biel. Mars, Avril, Maj meis beas; grant equilibri, lus, perfetiòn ta la conosensa di me; (esistensia sempri ta la pica di me stes). Ringratiàn il Signour Amen. 
                        spetant Rosari(13) 
                                     22 di maj, sera,  

   Nel 1944 Pier Paolo ha 22 anni, si è trasferito da circa un anno a Casarsa, luogo materno, meta di spensierate vacanze estive, che a causa della guerra diventa invece fissa dimora. Qui ha modo di avvicinarsi e di innamorarsi del dialetto friulano, lingua scelta per il suo esordio poetico con Poesia a Casarsa.(14) Pier Paolo comincia ad apprende questo idioma piano piano, ascoltando i parlanti e il loro dialetto vivo per poi catturare la potenza orale della parlata, composta non solo di semplici suoni musicali ma anche di espressività, di parole vere e di tonalità, elementi che la rendono perfetta per stendere un’opera teatrale. La scelta di scrivere in friulano va inquadrata in un più ampio e ambizioso progetto pasoliniano che intende riscattare, o meglio, ergere questo dialetto a lingua riconosciuta, almeno fra le lingue neo latine minori come, ad esempio, il catalano o il provenzale: «una sfida aperta alle norme linguistiche acclarate accademicamente, nel nome di una filologia sentimentale dove le ragioni soggettive del campanilismo affettivo si irrorano di considerazioni e analisi ereticamente geniali, e in qualche modo inattaccabili anche sotto il profilo linguistico».(15) Il teatro diventa quindi un tassello fondamentale all’interno di questo coraggioso tentativo di far emergere il friulano come lingua e il Friuli come Piccola Patria. Per questo con I turcs Pasolini decide di scrivere un tradizionale dramma delle origini che richiami il ruolo assunto dalla tragedia greca nel mondo classico e il valore nazionalistico del progetto culturale, sociale e politico proprio del teatro irlandese dei primi del Novecento (torneremo più avanti sul rapporto tra l’esperienza drammaturgica pasoliniana e quella dell’irlandese W.B. Yeats). 

 16 )
 I Turcs tal friul è un atto unico, in prosa, ambientato nella Casarsa del 1499. La narrazione si apre in una sera qualunque, quando al villaggio, un messaggero giunge per annunciare l’imminente invasione dei turchi che hanno già attraversato l’Isonzo seminando morte e terrore. Protagonisti della scena sono i componenti della famiglia Colus: i fratelli Meni, Pauli, Nisuti e la madre Lussìa.(

   Inizialmente si dibatte sul da farsi per difendere i cittadini e il villaggio dagli invasori: Pauli, il fratello maggiore, è arreso al destino che li attende, Meni, il secondogenito, invece organizza una banda di resistenza, riuscendo a coinvolgere, alla fine, anche il fratello maggiore. La madre, Lussìa, prevede scoraggiata la tragedia che si avvererà: mandata di vedetta, la donna avvista il ritorno della squadra che porta con sé un cadavere ma non riconosce subito che si tratta di suo figlio Meni, morto sacrificandosi per il bene comune. Il dramma, infatti, si chiude con la ritirata dei turchi da Casarsa: il paese è miracolosamente in salvo e il sacrificio del giovane idealista si è consumato. 

   L’opera, considerata dallo stesso autore «la miglior cosa che io abbia mai scritto in friulano»(17), non verrà mai rappresentata né pubblicata in vita da Pasolini, nonostante la passione e l’amore che aveva investito nella stesura di questo dramma, contraddistinta da uno studio capillare di annali e cronache parrocchiali che potessero fornirgli informazioni preziose per poter raccontare una storia tutta  casarsese. Lo spunto è un fatto storico, l’invasione turca, rievocata anche da una lapide risalente al 1529, tutt’oggi presente nella chiesa di Casarsa, su cui si legge: Furono li turchi in Friuli, che gli suggerisce il titolo.
   La scelta di raccontare un fatto storico, o meglio un’invasione, è sicuramente legata alla volontà dell’autore di creare una sorta di parallelismo con l’invasione degli anni Quaranta, da parte dei tedeschi in Italia. Il dramma effettivamente si presenta come fosse «un’epica contadina, istintivamente cristiana: creaturalità naturale, elogio della solidarietà comunitaria. […] E’ dunque il voto, e la ricreazione di quella paura dello straniero, a diventar materia di teatro nella fantasia pasoliniana. A questo si unì la sintonia col presente. Come i turchi, i nazisti minacciavano, per razzie e deportazioni, le comunità friulane».(18)

   Oltre al riferimento storico e politico, è evidente, ancora una volta, lo spiccato autobiografismo insito nelle opere del giovane Pier Paolo: siamo nel maggio del 1944, la tragedia che colpirà la famiglia Pasolini non si è ancora compiuta(19) ma è facile individuare nel travagliato rapporto tra i fratelli Colus (ricordiamo anche che il cognome della madre Susanna era Colussi) il contrasto (e la tragedia) reale che si sviluppò tra i due fratelli Pasolini: la passione per la comunità, il disprezzo e la resistenza al nazismo e al fascismo, in Pier Paolo non si traducevano in un’azione armata(20) mentre in Guido la reazione all’ingiustizia e alla libertà negata fu decisa e violenta tanto da spendere la vita nella guerra di liberazione. Non si vuole leggere in queste pagine una sorta di tragica veggenza che troppo spesso viene associata a Pasolini, anche perché, aldilà dei forti elementi autobiografici (riscontrabili anche nella figura materna, personaggio ricalcato su Susanna, madre tanto, forse troppo, amata e già abbozzata ne La sua gloria) l’autore, con quest’opera voleva ardentemente vivificare una tradizione contadina, popolare, arcaica e incontaminata, propria del Friuli, oscurata da secoli di invasioni e soggezione. 

   Il Friuli, con i suoi contadini, le sue tradizioni e soprattutto la sua lingua diventa il centro dell’opera, che rientra nel più ampio piano pasoliniano di costruzione culturale, per la formazione di una scuola friulana di poesia. Particolare importanza assume quindi il dialetto, non ancora eletto a lingua(21): accostato dallo stesso autore al dialetto greco, il friulano viene descritto infatti come «una specie di dialetto greco o di volgare appena svincolato dal preromanzo con tutta l’innocenza dei primi testi in lingua».(22) L’accenno alla lingua greca individuata come la più adatta, soprattutto per la sua musicalità, per definire la fase aurorale del friulano, rappresenta il primo rintracciabile ed esplicito richiamo al mondo classico presente nei Turcs. L’universo greco, la sua cultura e il ruolo assunto dalla tragedia all’interno della polis è la forma di spettacolo a cui Pasolini decide di attingere per muovere i primi passi da drammaturgo, incarnandosi in un nuovo tragediografo greco che con la sua opera può dar voce ai diritti e alle rivendicazione della comunità a cui appartiene. 

   Stefano Casi ha riconosciuto la stretta parentela dei Turcs con il teatro greco in diversi elementi tecnici: 

in alcuni personaggi usati come messaggeri o come coro, nell’osservanza delle tre regole pseudoaristoteliche o nel meccanismo dell’agnizione. Ma centrale per comprendere la sostanziale ascendenza greca dell’opera è il fatto che venga scelto un momento storico della storia di Casarsa. […] In questo senso I Turcs tal Friul ha la possibilità di poter essere considerato un 2libro di rappresentazione epica contadina” quanta ne avrebbe un’opera come i Persiani  di Eschilo.(23)

   Nonostante già nel primo tentativo teatrale, con La sua gloria, Pasolini avesse toccato il tema dell’impegno civile per il poeta, I Turcs tal Friul diventa il primo vero dramma politico pasoliniano perché non si limita a parlare l’impegno patriottico del singolo protagonista, ma allarga l’orizzonte di analisi, trattando la questione dell’invasione turca che coinvolge tutta la comunità, assumendo così una risonanza profondamente sociale, tale da richiamare la portata politica propria delle tragedie greche nel mondo classico: la discussione sociale e politica viene raccontata e filtrata dalla questione familiare e privata attraverso lo scontro e il dibattitto tra i due fratelli Colus. 

   Con quest’atto unico si verifica una maturazione del Pasolini sperimentatore teatrale rispetto ai due drammi precedenti: l’autore, infatti, riesce a rappresentare sentimenti contemporanei trasportandoli in una struttura drammatica appartenente al mondo classico. Nonostante Pasolini sia ancora un drammaturgo acerbo, questa sarà la strada su cui proseguirà nel concepimento del corpus delle sei tragedie del 1966. Con questo dramma dialettale Pasolini gettò infatti le premesse per la futura fioritura drammaturgica, «ma esse sono ancora allo stato nascente e si fondano su circoscritti presupposti contestuali e linguistici, di cui dunque, pena azzardate forzature, è cauto non enfatizzare troppo il carattere di preludio già decisivo».(24)

   Per il suo quarto tentativo teatrale, Pasolini si mette alla prova con una favola drammatica, un testo per bambini, in otto scene, scritto tra la fine del 1944 e l’inizio del ‘45 e rimasto inedito,(25) dal titolo I fanciulli e gli elfi. Lo spettacolo debutta il 15 luglio 1945 nel teatro dell’Asilo di Casarsa, gli interpreti sono i giovani allievi dell’Academiuta, l’autore cura la regia e si ritaglia il ruolo dell’Orco. Le repliche vengono interrotte dall’arrivo della notizia della morte di Guido, per poi riprendere pochi giorni dopo. E’ lo stesso Pasolini a raccontare e a descrivere la genesi, le sensazioni e le emozioni prima del debutto: 

Fin dal Gennaio avevamo cominciato a fare le prove per recitare una favola drammatica I fanciulli e gli elfi che io avevo scritto appositamente, ripromettendomi di dare lo spettacolo a Castiglione non appena la guerra fosse finita. Quelle prove costituirono momenti di eccelsa gioia per i miei ragazzi, e credo che, da adulti, se le ricorderanno come una specie di emblema della loro infanzia. Nisiuti era uno degli Elfi, io stesso l’Orco. […]Dopo cinque o sei mesi, la favola era pronta (i ragazzi erano davvero straordinari); si era in Giugno, la guerra era cioè terminata, e il Teatrino dell’Asilo, a Castiglione, era incolume. Poiché oltre che l’attore, il regista e il produttore io dovetti fare anche il tecnico e l’operaio, non fu davvero un facile compito il mio, tanto più che lo spettacolo era completato da un coro di giovanotti di Castiglione, che, perfettamente istruiti da Dina, avrebbero dovuto cantare villotte friulane. Finalmente tutto fu pronto; lo spettacolo fu dato e i bambini furono felici per il successo; è del resto facile immaginare tutti i loro complessi di gioia. Ero stato io a truccarli, già truccato io stesso con un’enorme, incredibile pancia, una barba diabolica, e in testa un impagabile copricapo, scoperto chissà dove, che mi dava un’indovinata espressione tra feroce e idiota. Gli Elfi avevano il torace nudo e i fianchi avvolti da un’abbondante veste di rami di salice. Dina mi aiutava, ma per il suo carattere meticoloso mi era molte volte di impaccio: mi osservò, ad ogni modo, mentre dipingevo le labbra di Nisiutì...(26)

   Siamo negli stessi anni dei Turcs, gli anni della guerra, gli anni del nido casarsese, dello studio del dialetto friulano, del rapporto esclusivo con mamma Susanna, dell’assenza del padre impegnato sul fronte, della morte di Guido, della scoperta della sessualità da parte di Pier Paolo. Sono anni di formazione, di tentativi di vita e di scrittura, di esperimenti poetici, pedagogici e teatrali che molto spesso finiscono per combaciare. La voglia dell’autore di cambiare registro e di cimentarsi con tematiche e strutture poetiche diverse è dimostrato proprio da I fanciulli e gli elfi, testo con un chiaro e palese fine pedagogico. Ma vediamo brevemente l’intreccio della fiaba: tre piccoli elfi, cannibali, dispettosi e truffaldini, vivono nella loro capanna immersa nella selva, con il loro padre Orco. L’arrivo dei fanciulli, scappati da casa e inoltratisi nel bosco in cerca di avventure, sconvolgerà la vita dei tre elfi che, in un primo momento, decidono, insieme all’Orco, di catturare i giovani. Ma quando il padre si assenta, i prigionieri rivelano ai piccoli elfi l’esistenza e la possibilità di vivere in un mondo “buono”. 

   Inizia così la conversione dei cattivi attraverso il gioco. Gli Elfi gradualmente si lasciano sedurre, e infine decidono di liberare i fanciulli e di scappare via con loro. Ma intervengono due figure adulte a rendere drammatica la fiaba: lo zio dei ragazzi e l’Orco che iniziano un duello, che viene descritto dallo stesso autore e che inizialmente è 

tutto moine e proteste di buona volontà, indi diviene apertamente minaccioso, variando dal grottesco all’orrido. Ma quando l’Orco invoca l’aiuto di Tigri, Mostri, Sciacalli ecc. gli rispondono dalla selva canti di uccelli e di violini, quando egli reclama la Tenebra e la Tempesta, si fa intorno una limpidissima luce, e quando infine, ridotto alla disperazione e al ridicolo, si appella al suo coltellaccio, invece di questo trova nel suo sacco una pipa. I buoni e i convertiti se ne vanno cantando.(27)

   La struttura del dramma si presenta poco problematica e lineare, con l’ancestrale duello tra forze del bene e forze del male, in un clima fiabesco, magico, a tratti allegro e spensierato, elementi che rendono l’opera il primo vero tentativo pasoliniano di commedia dell’Academiuta. In questo testo si avverte tutta la carica romantica del giovane Pasolini degli anni friulani, umanista che crede fortemente nella forza educatrice della letteratura, della poesia, del teatro. I fanciulli e gli elfi testimoniano l’impegno e la dedizione con cui Pier Paolo si dedicava alla propria azione pedagogica a Casarsa, con l’istituzione di una scuola gratuita per giovanissimi allievi, attività che da lì a pochi anni, una volta lasciata la terra materna, si manifesterà anche nell’effettivo insegnamento nelle scuole romane.(28)

 29) Gli stralci del testo rinvenuto vedono protagonista il Ragazzo, che durante la notte riceve le visite prima del Diavolo e poi dell’Angelo (personaggio che avrebbe dovuto essere interpretato da una donna), con cui inizia a discorrere della morte e dell’anima. Compare anche il Morto e sulla questione della sua anima si accende il dibattitto tra l’Angelo e il Diavolo.(30) Lo scritto si chiude con il Ragazzo rimasto solo che decide di rimandare considerazioni e pensieri al mattino seguente.(31)




Gli anni friulani vedono il fiorire della vena drammaturgica pasoliniana, a dimostrazione e riprova di come il teatro costituisca un pezzo fondamentale del poliedrico puzzle che è la magmatica scrittura pasoliniana. Sempre in quello stesso 1945 infatti Pier Paolo scrive un altro atto unico La Morteana, titolo che richiama il ballo della morte. Il testo è scritto in friulano, fortunatamente rinvenuto di recente, dopo aver seriamente rischiato di finire nell’oblio. Il manoscritto inedito e conservato dal Centro Servizi e Spettacolo di Udine che ne  ha curato una drammatizzazione, riporta esclusivamente le battute del personaggio del Ragazzo, il che lascia pensare che si tratti di un copione per le prove. Sappiamo però che il testo non fu mai rappresentato. Con I Turcs tal Friul, I Fanciulli e gli Elfi e la Morteana, Pasolini aveva cercato, sia pure con tematiche e scelte drammaturgiche diverse, «di individuare un percorso teatrale popolare che ben si avvicinasse al contesto sociale in cui viveva negli anni della guerra. Non è un caso se ciascuno di questi testi fosse pensato espressamente per l’immediata rappresentazione col coinvolgimento del paese».(

   Con la mancata messa in scena de La Morteana si interrompe questo flusso teatrale che racchiude gli archetipi della formazione del Pasolini drammaturgo, un teatro caratterizzato di autobiografismo anche sul versante geografico. E’ probabile pensare che lo stravolgimento che la guerra aveva portato non solo in Italia e a Casarsa ma proprio nella vita personale di Pier Paolo, con l’atroce morte di Guido, trauma che Pasolini non riesce a metabolizzare e a tramutare in parole, in poesia o in un testo teatrale,(32) non gli consenta di rappresentare più drammi e testi che potessero raccontare la vita del paese materno, inteso come polis greca. Con La Morteana si arresta quel progetto culturale e sociale che aveva coinvolto Pasolini negli anni friulani tanto quasi da distrarlo dall’orrore della guerra (basta pensare che Pier Paolo parla del 1943 come di «uno degli anni più belli della sua vita»(33)): il dramma mai rappresentato sigla il definitivo abbandono dell’idealizzato tentativo drammaturgico friulano.

   Passano due anni, è il 1947, la guerra è finita, il mondo di Pier Paolo non è più lo stesso. Nelle sue scelte drammaturgiche assistiamo ad un vero e proprio cambio di rotta sia nello stile che nella materia drammatica che diventa sempre più introspettiva e personale. La biografia di questi anni è segnata dalla prima vera passione amorosa di Pasolini: si innamora del quindicenne Tonuti Spagnol, verso il quale matura un sentimento intenso e profondo per lui ma non riesce a vivere liberamente il desiderio erotico-sessuale, provando un forte senso di colpa. Comincia a lavorare sul dramma in tre atti dal titolo Il cappellano, che vede come protagonista un sacerdote logorato dal desiderio erotico, ecco come il teatro si configura come «spazio privilegiato di riflessione sui meccanismi che dalla coscienza dello scontro fra libertà dell’individuo e regole sociali portano all’uso della parola e, in questo caso, della comunicazione sociale. Il teatro diventa così il luogo estremo di denuncia dell’eresia, intesa come scollamento fra sé e i suoi condizionamenti sociali».(34) Tornerò dopo su quest’opera che è considerata l’avantesto del futuro e più maturo componimento che prenderà il titolo Nel 46! 

   Sempre nel 1947, agitato quindi da questi sentimenti erotico-amorosi, Pasolini scrive un atto unico in tredici scene, dal titolo La poesia o la gloria anch’esso inedito. Il protagonista è Paolo, un giovane poeta (proprio come Guido de La sua gloria) e tutto si svolge in era post-bellica: Antonio, il fratello del protagonista tornato dal fronte, non è più riuscito a reintegrarsi nella sua vita familiare e matrimoniale e passa le sue giornate ubriaco, lasciandosi andare brutalmente a un sentimento di nostalgia fascista, in uno stato continuo di ira e disapprovazione. Apprendiamo la sua storia attraverso il racconto che il protagonista fa al suo amico Mariano, in cui ripercorre i lutti e la devastazione che il conflitto ha comportato. Ma non appena rimane da solo, Paolo riceve la visita del Diavolo (scena ottava) che comincia a provocare il poeta, come se volesse far emergere il lato più oscuro della sua persona, i suoi peccati, mettendolo davanti alla «noiosa presenza dell’altro».(35) Nel frattempo Antonio scappa, lasciando la Madre in uno stato di angoscia e turbamento, mentre Paolo, corso a cercarlo, lo ritrova in un’osteria. L’atto unico si conclude con un finale mancato, in cui ascoltiamo il dialogo tra il protagonista e l’amico Mariano riguardo la reazione evasiva di Paolo davanti alla sua tragedia familiare. Tra gli altri personaggi figura anche Nives, la moglie di Antonio, rassegnata ai comportamenti violenti e al disprezzo che il marito ubriaco le palesa tutti i giorni. 

   La poesia o la gloria mette in scena il dramma di una famiglia sopravvissuta 36) I punti di contatto riscontrabili tra il testo e la biografia dell’autore rendono La poesia o la gloria un documento importante che testimonia il ruolo che la scrittura teatrale ebbe per Pasolini. Il teatro si conferma una sorta di confessionale, attraverso cui l’autore si confronta con l’intricata rete dei rapporti familiari e sociali, tanto più se si pensa che spesso i drammi giovanili non furono mai portati a termine e mai rappresentati, destinati a rimanere incompleti e con il rischio di non vedere mai la luce.
ma devastata dalla guerra. E’ la storia dei Pasolini e il personaggio di Antonio è ricalcato sulla figura del padre Carlo Alberto: è un militare, ha ricevuto anche una lui una medaglia d’argento al valore e in lui si avverte, seppur vagamente, una certa ingenua vicinanza al fascismo.(

   Nei primissimi anni del dopoguerra l’impegno civile comincia ad assumere un ruolo sempre più determinante nell’animo del poeta. Sempre nel 1947, finisce anche l’esperienza dell’Academiuta: era ormai sopita, terminata, spenta quella stagione di formazione, di studio, di condivisione in cui Pasolini aveva trovato rifugio mentre la guerra devastava l’Italia e l’Europa. Anche il mondo contadino, arcaico e incontaminato del Friuli, alla fine, aveva subito l’irruzione di nuovi eventi culturali, sociali e politici, e anche il giovane poeta che studiava la lingua friulana ora si ritrova a dover affrontare una drammatica situazione familiare e gli intimi turbamenti omoerotici che sconvolgono la sua coscienza di cattolico convinto. (37) L’umanista comincia a vestire i panni dell’intellettuale impegnato politicamente e matura la decisione di lasciare il Movimento popolare friulano(38) in cui militava, per iscriversi al Partito Comunista Italiano (1948), esattamente alla sezione di San Giovanni di Casarsa, che si contraddistingueva dalle altre per il suo carattere anticlericale e antidemocristiano. L’impegno politico assunto da Pier Paolo nel biennio 1948-49 lo rende un personaggio pubblico in Friuli: i suoi scritti, gli articoli, i comizi e dibattiti sono tutti dedicati alla politica, quella stessa politica che da lì a poco lo costringerà a lasciare il Friuli per fuggire durante la notte alla volta di Roma. 
 
 Il 15 ottobre 1949, viene segnalato ai carabinieri di Cordovado che Pier Paolo Pasolini da Casarsa, qualche giorno prima, aveva adescato minorenni a Ramuscello, frazione di San Vito al Tagliamento, durante la festa di Santa Sabina. I ragazzi presumibilmente adescati erano tre, tutti minorenni, non ci fu querela da parte dei genitori, ma la notizia si era diffusa e l’opinione pubblica aveva emesso la sentenza. Pasolini venne imputato dal pretore di San Vito al Tagliamento per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico. Si arrivò al proscioglimento della corruzione dei minori (1950) ma fu confermata la condanna per atti osceni in luogo pubblico. Il Tribunale di Pordenone assolverà infine Pasolini in Appello, nel 1952, per insufficienza di prove. 

   Ma nel 1949, a Casarsa, la condanna nei confronti di Pier Paolo fu severa: il 26 ottobre il comitato direttivo della Federazione comunista di Pordenone emanò l’ordine di espellere ufficialmente Pasolini dal Partito Comunista italiano per indegnità morale e politica. L’esclusione fu per Pier Paolo un trauma che lo gettò in uno stato confusionale, portandolo a maturare una certa rabbia per quell’universo a cui si era avvicinato e in cui credeva nonostante l’omicidio di Guido per mano degli stessi partigiani. In una lettera indirizzata a Ferdinando Mautino della Federazione di Udine, scritta subito dopo aver appreso la notizia della sua espulsione (la lettera porta il timbro postale del 31 ottobre ma è presumibile che sia stata scritta il 29, giorno in cui «L’Unità» pubblicava la notizia dell’espulsione ufficiale di Pier Paolo dal Partito) confessa tutto il suo rammarico e il suo sdegno: «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola […] Fino a stamattina mi sosteneva il pensiero di aver sacrificato la mia persona e la mia carriera alla fedeltà a un ideale; ora non ho più niente a cui appoggiarmi. Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre».(39)
 

   Da questo episodio comincia l’esperienza della diversità e della persecuzione che segnerà tutta la sua vita. Il materno Friuli d’un tratto lo respinge, lo allontana dalla vita pubblica e sociale, quella terra che lo aveva protetto e assecondato nei suoi primi esperimenti poetici e teatrali, in cui aveva piantato radici destinate a crescere, era ormai lontana, sconosciuta, arida. L’unica soluzione era la fuga verso Roma, la grande città, la caotica capitale materna e meretrice, in cui tutto si confonde e nessuno si ferma a guardarti: accompagnato dalla madre e lontano dal padre, Roma è la soluzione. Soltanto nell’ultimo anno di vita, un Pasolini ormai maturo dal punto di vista letterario, sessuale e poetico, tornerà a guardare al Friuli degli anni Quaranta, con i versi di La nuova gioventù (1974). 



Note:
                                               
 1 Nel volume P. P. Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, i curatori vi inseriscono ben sedici titoli (La sua gloria, Edipo all’alba, I turcs tal Friul, I fanciulli e gli elfi, La poesia o la gioia, Un pesciolino, Vivo e coscienza, Italie magique, Nel 46!, Progetto di uno spettacolo nello spettacolo e infine le sei tragedie) e, nella nota all’edizione, accennano anche ad alcuni canovacci abbozzati da Pasolini per le recite scolastiche dei suoi alunni, ma andati quasi del tutto perduti. Vi è inoltre un riferimento al testo dal titolo Contrasto tra il Carnevale e la Quaresima anch’esso smarrito. C’è anche il riferimento ad un altro testo friulano, La Morteana, di cui resta solo un copione di quelli distribuiti agli attori per imparare la loro singola parte, precisamente possediamo le battute del fantàt, che era probabilmente il protagonista ma non possediamo il resto del testo. 
2 S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Le ragioni di due convegni e di un libro, in Id., Pasolini e il teatro, Venezia, Marsilio, 2012, p. 6. 
3 Del dramma esistono due manoscritti: una prima stesura abbozzata, scritta a penna e matita su un block notes (che conserva anche altri tentativi di teatro tra cui un inizio di commedia senza titolo e l’abbozzo di una tragedia mai terminata, ambientata a Creta dal titolo Gli alati) è conservata al Fondo Pasolini dell’Archivio “A. Bonsai” – Gabinetto Viesseux a Firenze; mentre il testo definitivo con cui Pierpaolo partecipò al concorso è conservato tutt’oggi nel Fondo archivistico del Provveditorato agli studi – Serie n. 52 – ludi Juniles 1938, presso l’Archivio di Stato di Bologna. Il testo fu pubblicato postumo nel marzo 1996, a cura di Stefano Casi su numero 40 della rivista «Rendiconti». Cfr. P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 1115-1116. Il volume curato da Siti e De Laude non comprende però il testo per esteso ma si limita a riportare solo alcuni episodi dei tre atti. 
4 Pasolini stesso indica la fonte dal quale attinge per la storia di Solera: ne parla Silvio Pellico, che lo conobbe durante la reclusione allo Spielberg. Pellico però non rivela il nome di battesimo dell’avvocato, la scelta del nome di Guido da parte di Pasolini non è però casuale, infatti, si presuppone che il giovane Pier Paolo volle battezzare il suo primo protagonista con il nome del suo fratellino tredicenne; Pier Paolo attinge al suo quotidiano anche nella scelta del nome di un altro personaggio del dramma: Carlo Geni, che riprende quello del padre Carlo Alberto Pasolini. L’autore rimane abbastanza fedele nella ricostruzione del quadro storico (a Venezia viene pronunciata la sentenza, il carcere duro dello Spielberg, l’elenco di condannati) cucito intorno alla vicenda di Solera su cui costruisce liberamente un personaggio per molti aspetti lontano dalla realtà storica.  Cfr. S. Pellico, Le mie prigioni, Milano, Rizzoli, 1984. 
5 P. P. Pasolini, La mia gloria, «Rendiconti», 40, marzo 1996, ora in Id., Teatro, cit., pp. 3-18. 
6 S. Casi, Prima della tragedia, in Contributi per Pasolini, a cura di G. Savoca, Firenze, Olschki, 2002, p. 20. 
7 Cfr. D. Micheluz, Guido Solera, il prototipo di un personaggio, in Pasolini e il teatro, cit., pp. 11-18. 
8 In P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 19-38, sono riportate solo alcune scene. Il dramma è conservato in diversi frammenti manoscritti e dattiloscritti presso l’Archivio “A. Bonsanti” – Gabinetto Vieusseux a Firenze, nella cassette sotto la titolazione “Materiali a Casarsa”.  E’ stata pubblicata una versione più cospicua in lingua francese ma senza testo originale a fronte e senza soffermarsi sulle varianti. Cfr. P. P. Pasolini, Théatre 1938-1965, traduit de l’italien par C. Michel, H. Jouberten-Laurencin et L. Scandella, Les Solitarires In
9 Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005, p.37; G. Trevisan, Il teatro dell’io. Mito, sacro, tragico, su “Edipo all’alba”, in Pasolini e il teatro, cit., pp. 37-44. tempestifs, Besançon, 2005, pp. 54-99. 
10 Cfr. P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1988. 
11 G. Trevisan, Il teatro dell’io. Mito, sacro, tragico, su “Edipo all’alba”, cit., p. 42. 
12 P. P. Pasolini, I Turcs tal friul, a cura di L. Ciceri, in «Forum Julii», Udine, 1976. Questa edizione è stata poi ripresa con un’introduzione e una traduzione di Giancarlo Boccotti in «Quaderni», n. 7, Urbania, 1980 e poi ristampata con un nuovo saggio introduttivo di Andreina Nicoloso, per conto della Società Filologica Friulana, Ciceri, Udine, 1995 e infine oggi alcune scene del dramma sono riportate in P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 40-95. 
13 P.P.Pasolini, Teatro, cit. pp. 1120-1120. «Ho scritto i Turchi dal 14-15 al 22 di maggio – il ventidue, giorno triste, appena pranzato. Mi sono sentito perduto come mai prima, solo, alle Aguzze. Ho lavorato quattro ore e mezza e dal “coro dei Turchi” scritto stamattina sono arrivato a finire il miracolo. A parte questo giorno, Maggio è stato un mese assai bello. Marzo, Aprile, Maggio mesi beati; grande equilibrio, luce, perfezione nella conoscenza di me; (esistenza sempre al vertice di me stesso). Ringraziando il Signore Amen. 22 maggio, sera, aspettando Rosario».  
14 Il dialetto friulano usato da Pasolini nella sua prima raccolta poetica è però una lingua costruita a tavolino, è friulano generico, tradotto dall’italiano attraverso l’uso dei vocabolari. 
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 49.  
16 Sull’assenza totale della figura paterna nel dramma friulano, si veda A. Felice, Alla ricerca del padre perduto. Dinamiche di famiglia spezzata ne “I Turcs tal Friul”, in S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, cit., pp. 45-57.  
17 P.P.Pasolini, Lettere (1940 – 1954), a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. 213. 
18 E. Siciliano, Vita di Pasolini, Firenze, Giunti, 1995, p. 102. 
19 Guido Pasolini, fratello minore di Pier Paolo, partì da Casarsa, a soli diciannove anni, per unirsi ai partigiani azionisti della brigata Osoppo – Friuli. Il suo nome di battaglia fu Ermes. La madre Susanna accolse la decisione del suo secondo genito con coraggio. L’esperienza nella guerra di liberazione del giovane Guido finì probabilmente il 10 febbraio 1945, quando perse la vita nella cosiddetta “strage di Porzus”, ucciso dagli stessi partigiani comunisti che accusavano di tradimento la frangia partigiana di cui faceva parte Guido. Nello stesso eccidio furono trucidati in tutto diciassette partigiani. 
20 Il 1° settembre 1943, mentre era a Casarsa, Pier Paolo fu richiamato militare e dovette presentarsi a Pisa. Durante l’armistizio dell’8 settembre era ancora lì. I tedeschi bloccarono il reparto di cui Pasolini faceva parte che venne avviato a un treno per la deportazione in Germania. Pier Paolo riuscì a salvarsi gettandosi in un fosso, tornò a Casarsa terrorizzato e stravolto. Quest’episodio condensa tutta la sua esperienza di guerra. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 100; P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, in Poesie, Milano, Garzanti, 1970.
21 La questione del dialetto friulano sta talmente a cuore a Pasolini che il 18 febbraio 1945, fonderà, insieme al cugino Nico Naldini, a Versutta, paese vicino a Casarsa, la cosiddetta Academiuta di lenga furlana. All’interno di questa particolare accademia formata da giovani casarsesi amanti della poesia, trovano spazio anche traduzioni drammaturgiche e un’amatoriale compagnia teatrale che vede l’esordio assoluto di Pasolini alla regia teatrale. Qui siamo di fronte al convergere di due anime del poeta: la vocazione teatrale e quella pedagogica. 
22 P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 1, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 160. 
23 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 53.
24 A. Felice, Alla ricerca del padre perduto. Dinamiche di famiglia spezzata ne “I Turcs tal Friul”, in S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, cit., p. 48.
25 Oggi è possibile leggere una pubblicazione molto parziale del testo in P.P. Pasolini, Teatro, cit. pp. 98-106. In occasione dell’annuale convegno di studi pasoliniani, tenutosi a Casarsa della Delizia, 22-23 novembre 2013, è stato messo in scena per la prima volta lo spettacolo I fanciulli e gli elfi, regia di Ilaria Passeri, prodotto dal Gruppo Roccaltìa di Chia (Viterbo) e in collaborazione con Graziella Chiarcossi. 
26 P.P.Pasolini, Atti impuri, in Id., Amado mio, Milano, Garzanti, 1982, pp. 30-32. 
27 Ivi., p. 31. 
28 Casi ha inoltre individuato in quest’opera tracce delle grandi invenzioni teatrali dei testi per l’infanzia come L’uccellino azzurro di Maeterlinck, mentre il vero motore tematico è individuato nella poesia di Goethe Il Re degli Elfi. Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., pp. 61- 64. 
29 S. Casi, Prima della tragedia, cit., p. 25. 
30 Sappiamo che nel 1945 Pasolini era solito riflettere sul tema della morte: come testimonianza di queste sue riflessioni ci restano oggi un centinaio di fogli manoscritti con l’intestazione Saggi, suddivisi in Saggio sul pensiero della morte, Religione e Italia e Alcuni suggerimenti della campagna casarsese. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 109.  
31 Cfr. S. Casi, Prima della tragedia, cit., p. 27.  
32 Tra le carte postume sono stati rintracciati due scritti di Pier Paolo sulla morte del fratello, sicuramente redatti per essere letti, in cui si percepisce come abbia inciso fortemente sul poeta il dolore di questa perdita. Il primo fu concepito subito dopo la Liberazione, probabilmente per la prima cerimonia di commemorazione della strage di Porzus, mentre il secondo fu redatto circa due anni dopo, sempre per un evento commemorativo. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit. pp. 1819. 
33 P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, cit., p. 8. 
34 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit. p. 66. 
35 P.P.Pasolini, Teatro, cit. p. 121. 
36 Sul ritorno dal fronte del padre, Pier Paolo scriverà «Egli finì così a Casarsa, in una specie di nuova prigione: e cominciò la sua agonia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i miei primi libretti in friulano, seguì i miei primi piccoli successi critici, mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi guarisse, avrebbe probabilmente della sua malattia lo stesso ricordo che io ho di quegli anni». Cfr. E. F. Accrocca Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia, 1960, pp. 320-321. 
37 Nella primavera del 1948 Pasolini scrive un “romanzo incompiuto” dal titolo Amado mio in cui racconta la passione e l’amore che il protagonista Desiderio prova per il giovanissimo Benito, che in un primo momento si sottrae al suo amore per poi cedere e di nuovo negarsi. La passione tra i due sembra però rinascere durante la stagione estiva, sulle rive del Tagliamento tra feste, ubriacature, bagni nel fiume, corpi bagnati e passioni segrete. L’amore omosessuale sembra essere però caratterizzato da un’ineluttabile infelicità: un amore aspro e felice tra un uomo adulto e un fanciullo, una passione che rapisce un’innocenza, un sentimento macchiato. Questo scritto è da leggersi come una sorta di confessione, di dichiarazione sincera della carica emotiva ed erotica vissuta da Pasolini in quell’estate friulana. Cfr. P.P.Pasolini, Amado mio, cit. 
38 Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 144. «Questo Movimento si era lestamente tramutato, votata dal Parlamento l’autonomia regionale del Friuli il 27 giugno 1947, in una associazione di appoggio alla Democrazia cristiana, in una mano secolare, fra Udine e Pordenone, del partito che si avviava a vincere le elezione del 18 aprile». 
39 Cfr. L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1978, p. 45. 


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Pasolini: la mattanza perpetua e le verità monche dei fatti - di Simona Zecchi

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"ERETICO & CORSARO"


Pasolini: la mattanza perpetua e le verità monche dei fatti

di Simona Zecchi
(Giornalista d’inchiesta e autrice del libro Pasolini Massacro di un Poeta (Ponte alle Grazie 2015) che il lettore può andare a visionare per quegli elementi che qui appaiono nuovi ai più e per l’intera inedita ricostruzione)



E’ mattina presto sul campo brullo di sabbia e terra dell’Idroscalo di Ostia a 30 km da Roma. Ed è ancora buio. Un uomo a pochi metri da una baracca, posta insieme alle altre in fila disordinata, giace lì a terra, letteralmente in una pozza di sangue.
Qualcuno, sportosi dalla finestra del secondo piano di un palazzo a poche centinaia di metri dalla scena, lo scorge. L’uomo a terra ormai consegnato alla morte è circondato da una volante dei Carabinieri e da alcuni uomini adulti...


Questo dovrebbe essere da sempre l’incipit del racconto sulla notte di 41 anni fa, quando fra il 1° e il 2 novembre del 1975 si consuma il massacro di Pier Paolo Pasolini. Così infatti ha dichiarato Misha Besserdorf, il russo ormai naturalizzato americano, al giornalista Paolo Brogi lo scorso 2012, parlando proprio della presenza dei Carabinieri durante un orario imprecisato ma prossimo ai momenti successivi al fatto. Un testimone che la procura di Roma durante il corso delle indagini preliminari durate 5 anni, dal 2010 al 2015, ha ritenuto di non dover sentire.

Il racconto ufficiale da sempre mutuato attraverso le cronache e le numerose ricostruzioni giornalistiche e giudiziarie inizia però in modo diverso, e cioè alle 6.30 del 2 novembre 1975 quando, come è noto, la signora Maria Teresa Lollobrigida, un’abitante abusiva del posto, scoprirà il corpo dello scrittore che scambierà per un sacco  di immondizia. Intere,  cruciali ore sono state sottratte da quel momento in poi all’econonomia dei fatti che hanno preceduto e seguito la mattanza, lasciate  seppellire  per anni  nell’ammasso di storie  buone solo a fare di Pier Paolo Pasolini, non la vittima sacrificale di un massacro violento qual è stata, ma un “character assassination” (1), un caratterista un personaggetto del  gossip che volendo citare Giulio Andreotti nel lontano 1982 “se l’era cercata”.  Il cold case sull’assassinio di Pier Paolo Pasolini ha attraversato gli sprazzi e gli  spazi ancorché ampi di due secoli: 1975-2015. Quarant’anni non sono pochi, eppure il “caso” ogni volta non cessa di seminare innumerevoli interrogativi, anche quando le azioni giudiziarie o istruttorie che lo riguardano (come in quest’ultimo caso delle indagini preliminari che si sono chiuse con un’archiviazione nel maggio del 2015), sembrano avere il crisma del rigore. L’unico colpevole riconosciuto del massacro compiuto contro lo scrittore, regista, poeta, saggista e molto altro la notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975 è a oggi Giuseppe Pelosi, l’ex ragazzo di vita che all’età di 17 anni si inoltra in un abisso da cui poi non uscirà più. Lo fermano - riferisce il mantra ufficiale - all‘una di notte in contromano sulla Cristoforo Colombo, la lunga strada che separa il quartiere di Ostia dalla Capitale. Un'area che è parte integrante di Roma ma che per tante ragioni è sempre stata un mondo a sé stante. Il ragazzo - riporta sempre quel mantra - era alla guida di un’Alfa Romeo GT 2000 grigia metallizzata targata K69996, e all’inizio confessa solo il furto dell’auto. L’auto è quella dello scrittore e uno dei due carabinieri se ne accorgerà soltanto dopo averla tradotta presso il cortile della caserma del luogo, come indicato nei verbali. Ben oltre dunque l’orario del fermo.

Esistono intanto due rilevanti elementi che contraddicono questa versione ormai istituzionalizzata: la prima testimonianza a caldo di Ninetto Davoli, creazione cinematografica di Pasolini, che indica mezza ora dopo il fermo di Pelosi - l’1.30 - l’avviso da parte di un familiare del ritrovamento dell’Alfa Gt effettuato dalle forze dell‘ordine a quell‘ora (ritrovamento non furto) e riportata su diversi verbali; e la più recente testimonianza della cugina ed erede di Pasolini, Graziella Ghiarcossi (che sin dal 1976 ha deciso di non costituirsi più parte civile e di abbandonare la ricerca della verità giudiziaria su questa storia). In quella intervista, peculiare se si considera il taglio per nulla dedicato alla morte dello scrittore, la filologa ha ammesso a La Repubblica il 30 ottobre del 20l5, a distanza di 40 anni, che sì, Sergio Citti aveva ragione quando lo dichiarò nel 2005 durante le indagini difensive affidate all‘avvocato Guido Calvi: di notte la polizia (non i carabinieri) aveva bussato alla loro casa per avvertirli del  ritrovamento  dell’auto  presso la zona Tiburtina di Roma, a ben 38 km di distanza dall’idroscalo di Ostia. Nord e profondo Sud di Roma: due mondi in cui, pare, l‘auto dello scrittore avesse il dono dell’ubiquità. Il verbale del famoso furto d’auto (derubricato poi dall’accusa a Pelosi) e quello del ritrovamento, spariti entrambi dalla storiografia ufficiale. Il silenzio seguito alla sconvolgente conferma della Chiarcossi che riscrive la dinamica del solo arresto è stata a dir poco assordante.
Ma continuiamo a stare agganciati ai fatti. Pelosi  viene condotto intorno alle quattro del mattino presso l‘Istituto di osservazione per minorenni di Casal del Marmo, in periferia.

Quando collegano il furto dell’auto con l’omicidio, Pino “la rana” Pelosi (nomignolo di invenzione giornalistica del tempo per via dei suoi occhi sporgenti) confessa anche l’omicidio avvenuto, secondo quanto dichiara sin dall’inizio, per reazione a un tentativo di violenza sessuale, a suo danno, da parte di Pasolini.
Contemporaneamente all‘arresto di Pelosi evadono di prigione (per un brevissimo lasso di tempo perché poi ve ne faranno ritorno) da Casal del Marmo i due minorenni Giuseppe Mastini (oggi collaboratore di giustizia) e Mauro Giorgio. Entrambi frequentavano Pelosi presso il circolo creativo e sezione dell’Unione monarchica nazionale della zona Tiburtina. Non solo loro, anche altri due protagonisti che come Mastini (o come veniva chiamato in borgata Johnny lo Zingaro), entreranno e usciranno spesso dalla storia ufficiale e non, frequentano queste e altre bische; all‘occorrenza luoghi di comizi missini o di stampo  estremo fascista.

Il primo, Mastini, verrà sempre tirato in ballo dalle varie inchieste giornalistiche (talvolta anche in qualche indagine richiusa in fretta nel tempo) senza alcuna conferma netta. La fine del suo presunto coinvolgimento nel caso la sigilla però la procura di Roma nel 2013, quando attraverso atti della scientifica che diventeranno pubblici a chiusura indagini, si ”certifica", in modo un pò anomalo, che il famoso plantare trovato insieme a un maglione verde all’interno del veicolo di Pasolini, non appartenenti né allo scrittore né a Pelosi, non appartiene allo “Zingaro”. DNA dixit, lo stesso esame del DNA che a sua volta certificherà la non compatibilità fra le 5 impronte individuate sui reperti e i profili genetici emersi. Il secondo invece, a parte una interessante menzione  di un cronista dell’Europeo di allora che insieme a Oriana Fallaci condurrà la contro inchiesta parallela a quella giudiziaria e che individuerà la stretta comunanza di reati e di tecniche di aggressione con il Mastini, non vi entrerà mai. Una contro inchiesta questa che avrà valore anche nelle ultime indagini dei nuovi  investigatori, ma nell’archiviazione tutto ciò non non verrà riportato.

A partire dal maggio del 2005, Pelosi per la prima volta  comincia a parlare, di un’altra verità durante la trasmissione della Leosini ”Ombre sul Giallo". Nel frattempo comunque l‘ex Pelosino, che in tutto ha scontato in carcere 22 anni della sua vita, a tutt'oggi è in attesa di giudizio per altri reati compiuti più di  recente.
Due gradi di giudizio, Appelli e Cassazione riconoscono fra l‘aprile del l976 e l’aprile del 1979 insomma l’unica colpevolezza del ragazzo, senza il “concorso con ignoti” inizialmente indicata nella sentenza di primo grado dal giudice Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista Aldo ucciso il 9 maggio l978. La sua versione, quella che vede il delitto essere maturato nell’ ambiente della prostituzione maschile, anticipata in barba al segreto istruttorio dai Tg nazionali, resta il marchio di quel processo, malsegnato anche dalle perizie psichiatriche del criminologo Aldo Semerari, personaggio  mescolato  con  le  trame  nere e la P2 del tempo e successive, e da quelle medico-legali il cui lavoro in buona parte resta quanto meno monco e depistante. L’altra perizia, quella di Faustino Durante eseguita per la parte civile, viene spazzata via nella sostanza dal  secondo  grado in poi.
Un groviglio di fatti inserito in un contesto complesso qual era quello vissuto da Pier Paolo Pasolini: la P2, attiva con Licio Gelli a presidiarne la loggia, dal l964-65 (e di cui alcuni giornali sebbene in modo sibillino già riferivano); i sequestri al nord e a Roma,  strumento di destabilizzazione del paese, di cui  in certi casi il clan dei marsigliesi erano il collante; le indagini al riguardo del giudice Vittorio Occorsio ucciso poi dal leader militare di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli; le diverse galassie di estrema destra che in realtà erano tutte propaggini di una unica radice; gli scandali sul petrolio sui quali anche Pasolini indagava, per usarli da sfondo nella sua ultima incompiuta fatica: ”Petrolio" pubblicato postumo nel l992; la strategia della tensione e il terrorismo rosso e nero a incrociarsi. Dire che le aule di giustizia con i processi sulle stragi in corso erano in ebollizione è usare un eufemismo.

A scavare tra quei faldoni oramai ingialliti del procedimento n. 1466/75  che portò il solo ex ragazzo di vita in carcere, conservato presso il Tribunale dei Minori, il racconto che emerge di quella notte così come ce lo ha sempre con- segnato la storia ufficiale resta una trama a sé, come se i protagonisti fossero altri e il tutto un’accozzaglia di puzzle distorti messi insieme a forza.
Attraversare quella notte e le settimane  che  l’hanno  preceduta dunque vuole dire, al pari di quello scavare, affidarsi alla sola forza dei fatti e alle loro contraddizioni e diffidare anche di sé stessi, della presunzione che a volte accompagna noi giornalisti generalmente convinti come siamo che tutto dipenda da una tesi a cui poi applichiamo i fatti per “farceli stare” come si fa parallelamente proprio con quei pezzi di puzzle che non si incastrano. Solo così è possibile capire il “dopo” e il perché, il movente.  Solo così è possibile legittimamente evincere da quella scia di fatti e dalla loro concatenazione una tesi plausibile. Fare tabula rasa: capire cosa stava  succedendo  nei  giorni  precedenti al  brutale  omicidio, se i verbali e le cronache del tempo allora molto accurate combaciano, se è possibile andare a rintracciare voci e testimonianze sepolte da 40 anni di carta, indagini interrotte a metà e verbali occultati. La storia giudiziaria o quanto meno di istruttoria non si ferma infatti al 1979, sarà arricchita invece  da altri capitoli che dal 1985 al 2015 tenteranno di riaprirsi con nuove indagini e segnalazioni  alla procura di Roma (nel frattempo - nel 2005 - la Capitale diviene parte civile nei confronti di chi ha commesso quel vile atto, come voluto dall’ex sindaco Valter Veltroni).

E allora non può esserci altra soluzione che il confronto con i fatti e le loro evidenze, altrimenti, a esempio, si rischia di infarcire le ricostruzioni con il solito ruolo nel massacro a Pasolini avuto dalla Banda della Magliana come organizzazione, quando invece questa inizia a diventare “banda” solo nel novembre del 1977 a due anni dalla morte del poeta. L’organizzazione diverrà l’arma di certi poteri occulti soltanto dopo, con l’arrivo dei testaccini a sparigliare le carte. Il caso Pasolini si trasforma così in un Romanzo criminale senza tempo, solo che non è un romanzo ma una storia vera. Prima a ben ro- vistare ci sono i marsigliesi, il clan delle “tre belve” (Albert Bergamelli, Jacques Berenguer e Matteo Bellicini) che in questa storia hanno una parte: quella che gioca uno di loro, Antonio Pinna il proprietario di molte macchine e motoveicoli ma soprattutto di un’Alfa GT 2000 uguale a quella dello scrittore. Pinna entra nel “caso Pasolini” sin dal 2010 quando la procura di Roma decide di sentire un testimone a conoscenza di alcuni fatti, il pittore Silvio Parrello,   da molti anni anima del suo quartiere Donna Olimpia frequentato e abitato dallo scrittore a metà degli anni ’50. E‘ un quartiere ponte Donna Olimpia, fra borghesia e borgata a ridosso del più residenziale Monteverde vecchio. Una volta quella borgata era il ghetto di Mussoliniane memorie dove il duce costrinse in palazzi fatti con lo sputo tutti i poveri e i disagiati. Pinna dicevamo però è molto più che l’autista di Jacque Berenguer, uno delle tre belve, il capo. E’, Pinna o Nino er meccanico come era noto allora, parte  attiva dei sequestri come dimostrano le indagini dell‘ex magistrato Ferdinando Imposimato e le sentenze di altri. Con la sua officina a Monteverde nuovo (sempre zona Donna Olimpia) Pinna ”ripara" anche i misfatti compiuti dalle macchine del clan. La macchina di Pinna potrebbe essere proprio quella con  la quale si è compiuto il vero sormontamento sul corpo del poeta (agli atti emerge che la famiglia era

proprietaria di quel modello) provocandone lo schiacciamento del cuore e la cui scocca inferiore risulta davvero danneggiata rispetto al veicolo di proprietà di Pasolini che passerà invece sul corpo dello scrittore soltanto in velocità. Era infatti quella dell'Idroscalo una scena affollata.  Nessuna  indagine  istruttoria l’ha accertato, ma chi scrive ne ha scoperto la foto pubblicata in un suo lavoro d’inchiesta di ampio respiro. Altrimenti, ancora a esempio, si rischia di legare la presenza “catanese” dei  due  balordi  spacciatori  fratelli  Borsellino,  che catanesi non erano, con l’ormai accertato sabotaggio avvenuto  13  anni  prima all‘ex presidente dell‘Eni Enrico Mattei. Catania infatti è sì presente in questa storia la quale però è soprattutto  intessuta di estremismo nero. La scia degli  approfondimenti  investigativi  presenti  nelle  carte delle ultime indagini romane, durate ben cinque lunghi anni, è  abbastanza lunga e tra intercettazioni di alcuni sospettati, tracciamenti dei tabulati telefonici, attività investigative e analisi del Ris ha prodotto sicuramente la più estensiva ricerca giudiziaria sul caso. Poi  però le piste emerse e approfondite  non hanno convinto la magistratura che in pochissime righe, nel febbraio del 2015, ha chiesto l’archiviazione al Gip, liquidando le importanti scoperte a un nulla di fatto, o al massimo all’importante novità-madre della inchiesta tutta: l‘analisi scientifica. Come a dire è tutto là, è finita. E invece no, perché quei cinque lunghi anni, ai quali i sostituti procuratori Francesco Minisci e Pierfilippo Laviani avevano apposto la segretazione per lungo tempo, sono composti da ben 7 fascicoli
interessanti in ogni loro pagina, ogni loro riga, quelle che nel momento in cui uscirà questo articolo potrebbero permettere a una eventuale Commissione d‘inchiesta parlamentare, che si dovrebbe  istituire  a  breve, un ulteriore  approfondimento, con tutti i poteri istruttori che questo peculiare strumento del parlamento porta con sé. E non è così, anche perché la prova del DNA resta tutt'oggi, se usata da sola, uno strumento di limitata rilevanza. Tra tutti gli  elementi degni di approfondimento ma non l’unico, proprio la testimonianza di quell’uomo di cui abbiamo accennato nel “falso incipit” di questo contributo: un ebreo russo naturalizzato più in là in America  che  nel  novembre  del 1975   si trovava insieme ad altri russi di passaggio a Ostia. Una transizione migratoria di cui sono stati teatro allora Ostia e il suo litorale. La testimonianza di Misha Bessendorf illuminava dunque il buio di quella notte spostando la presenza delle forze dell’ordine ben prima dell‘orario ufficiale indicato nei verbali (le 7.20 del mattino): almeno a quattro ore prima. Fatti che insieme a molto altro avrebbero potuto riscrivere il “fattaccio” trasformandolo da storytelling  a ricostruzione veritiera dei fatti.
Il massacro tribale a Pasolini per la violenza perpetrata, per la quantità di persone che vi hanno partecipato, tutte con diversi ruoli e livelli (non solo tre persone né soltanto 6 o 7 ma di più) e infine, l'ultima fondante accezione del termine: tribale per il massacro post mortem che pure si continua a perpetrare a livello giudiziario, politico, antropologico (era un “frocio e basta”) e culturale: certa sinistra e la sua intelligenza non smettono  di colpire  infatti.
E allora scavare tra gli archivi degli atti giudiziari riguardanti le stragi del tempo (Piazza Fontana, Piazza della Loggia tra tutte ma non solo) non può essere definito né inutile né complottista se questo ha fatto sì che, al di là del contesto maggiore in cui quel terribile omicidio è maturato (il petrolio, il controllo di Cefis e Gelli sull‘economia, gli assetti politici del tempo e quello che seppure con 17 anni di ritardo comunque l’autore, certo a livello postumo, è riuscito a pubblicare), si siano rinvenuti un carteggio interessante fra  Giovanni  Ventura - appartenente a Ordine Nuovo e allora rinchiuso a Bari in carcerazione preventiva per la strage di Piazza Fontana - e Pier Paolo Pasolini, insieme a un rapporto di indagine dell’antiterrorismo della cittadina pugliese rimasto nascosto per 40 anni. E non è altresi riduttivo uscire dalla logica ”fictional" che sino a ora ha  accompagnato in larga parte  alcune  inchieste  giornalistiche. Il “movente” in lingua italiana e giudiziaria è qualcosa di specifico e come abbiamo visto anche in altri processi di mafia che accompagnano tuttora fatti di oltre 40  anni fa, difficile da definire e individuare. Lo stesso magistrato Scarpinato, si perdoni qui una piccola ma necessaria digressione, ha dovuto

  “obtorto collo” ridurre i capi d‘imputazione nel processo da poco concluso Mori-Obinu. Gli schemi in cui sono racchiusi le stragi e gli omicidi o i finti suicidi politico-mafioso-criminali della nostra sfortunata Repubblica sono stati preparati e diretti anche nelle loro fasi e conseguenze successive in maniera così complessa, la loro architettura così stratificata e inquinata da manipolazioni, depistaggi, occultamenti e falsi testimoni o falsi pentiti, che stringere il cerchio a un primo importante e non riduttivo movente  diviene ormai impellente. In quelle lettere, in quello scambio di cui solo una parte a oggi si è rinvenuta (e pubblicata in esclusiva da chi scrive) Giovanni Ventura, sodale di Franco Freda e per un certo periodo anche collaboratore della magistratura di Milano quando svelò, in parte per poi ritrattare, la sua infiltrazione nel Sid (il servizio di sicurezza di allora) e la strategia cosiddetta della “Seconda linea” sottesa a quella della ”tensione", coniata dal settimanale inglese Observer il 14 dicembre del 1969 fa delle rivelazioni. 
Specialmente la lettera dell’ottobre 1975, indicava a mo’ di lista tutte le varie correnti democristiane che vi erano dietro la madre delle stragi, di nomi e cognomi e di documenti che il Ventura stesso tramite un editore trasversale alla cultura e all’editoria di destra e di sinistra, Antonio Pellicani, stava per inviare o ha inviato allo scrittore. E' così che tutta l'attenzione sul fantomatico “Appunto 21” scomparso o sottratto, il cui ritrovamento è stato millantato da Marcello Dell’Utri nel 2010, imposta alla storiografia parallela senza le dovute verifiche anche giornalistiche può finalmente 

spostarsi altrove su fatti più concreti e ugualmente agghiaccianti soprattutto in quel dato preciso momento in cui Pasolini si muoveva e operava. I nostri servizi, le organizzazioni criminali coinvolte e il livello politico anch’esso coinvolto possono aver architettato un simile e complesso meccanismo per qualcosa che era già noto? Oppure la forza intellettuale (e allora influente) del poeta con le sue invettive, i suoi articoli corsari sul Corriere della Sera e sulla rivista Il Mondo, potevano intimorire perché il poeta aveva  raccolto  informazioni  non  note  nemmeno agli organi della magistratura? E le lobbies economico finanziarie e politiche, tessute nelle trame del petrolio, non possono essere strettamente collegate a questa realtà? Si uccide insomma un poeta di quel livello rischiando di sollevare un caos senza  eguali per qualcosa di noto alla già contro-informazione del tempo e anche alla magistratura? Certamente sì per rispondere a queste ultime domande. Un‘altra domanda infine si impone: e se quell‘appunto non fosse stato di per sé un depistaggio intervenuto dopo? Tra i verbali mai analizzati e ingialliti dal tempo, uno ha attirato l'attenzione di chi scrive e riferisce del sequestro avvenuto di alcune carte l'8 novembre del 1975, a 6 giorni dalla morte del Poeta. Può essere questo un elemento più che concreto invece di un Appunto introvabile e forse non così dirimente per la dinamica del fatto?
Torniamo ora ad appigliarci ai fatti nudi e crudi. Certo, quelli non noti alla storiografia ufficiale, ma essi stessi impossibili da negare. Il 2 novembre del 2015, il Museo Griminologico di Roma in Via Giulia, luogo in cui i vecchi reperti appartenenti a quella notte sono tornati, ha deciso di riaprire inconsapevolmente capitoli aggiuntivi di quel massacro, spalancando le porte al pubblico. Tra gli oggetti ormai parte dell’immaginario di tutti sono presenti anche i pantaloni di Pino Pelosi, che stando al  semplice  occhio  nudo  di  chiunque, non presentano più la macchia originaria enorme e presente su tutto il lato  destro che invece è perfettamente visibile andando a visionare quel vecchio fascicolo, il nr. 1466/75. Una foto, questa dei pantaloni intrisi di sangue, sulla quale mai nessuno ha soffermato l‘attenzione, e pubblicata per la prima volta sempre da chi scrive: né avvocati titolari di indagini difensive, né gli inquirenti passati e futuri, né tanto meno la magistratura. Eppure esistono, sono un fatto concreto appunto, una evidenza. Due rappresentazioni differenti di due oggetti del tutto uguali, perché il Museo ha confermato a chi scrive che si tratta  dei reperti tutti originali entrati nella struttura storica l’8 febbraio del 1985. I pantaloni in questione sono dunque entrati presso la struttura senza quell’enorme alone. Confrontando le due foto (dopo ufficiale richiesta indirizzata al Museo) la discrepanza è a dir poco incredibile. Il Ris quando ha effettuato l‘esame del DNA nel 2013 ha rinvenuto sì le tracce sul lato superiore destro che le perizie dei medici legali nominati dalla magistratura al  tempo  invece  non  avevano mai individuato, indicandole solo - citiamo dalla stessa perizia - “a carico della parte inferiore della gamba destra del pantalone”, ma non è riuscito a far emergere uno dei quattro profili genetici lì presenti. (2) Nulla di fatto, quel profilo resta sconosciuto.

Secondo quell‘analisi infatti le tre tracce genetiche sono tutte riconducibili allo scrittore, assenti del tutto invece le tracce di Pino Pelosi (!). Non vi è altra definizione, stando così i fatti sino a qui verificati, che quella fu una manipolazione atta a far sparire tracce altre. Una manipolazione sicuramente avvenuta subito dopo la mattanza, visto che né la perizia, né al momento  dell’entrata al museo  su quei pantaloni quella enorme macchia è stata mai intercettata. Ancora una volta fatti e fiction viaggiano separati. A oggi, per capirci, un altro leit motiv che si tende a ripetere è che non c’è corrispondenza fra le piccole macchie trovate  sugli altri indumenti del Pelosi e il sangue trovato vicino al corpo quel mattino. Verità “vera” come abbiamo visto soltanto a metà, monca parziale come molte altre. Fra fiction e realtà sempre viaggiano le evidenze di cui Pier Paolo Pasolini parlava nell’ultima intervista rilasciata a Furio Golombo il l° novembre del l975, poche ore prima di essere ammazzato. Un’intervista in cui le sue parole erano soprattutto rivolte a quegli amici o a quella stampa che si accontentava o del complotto fine a sé stesso, o della “cronaca bella e impaginata”. Tra  i due estremi, il nulla.  Perché di verità gridate ne abbiamo tante, di corrispondenza vera con i fatti di cronaca, di volontà reale a indagare e approfondire,  invece,  ne  abbiamo, per restare sul tema, “tracce esigue”. E allora anche oggi è doveroso e necessario fare, certo immeritatamente ma caparbiamente, un po’ come cercava di indicarci 

Pasolini attraverso quelle ultime parole, ossia “rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta [...] ricongiungere passi lontani che però si integrano [...] organizzare i momenti contradditori ricercandone la sostanziale unitarietà” (3).
Un’ultima cosa qui ancora preme chiarire in merito a questa morte  ancora “in progress”. Innanzitutto, è bene che la eventuale futura commissione d’inchiesta tenga a mente gli  avvenimenti che hanno preceduto la notte del 1° novembre: il ricatto telefonico perpetrato allo scrittore riguardante il furto  delle bobine avvenuto nell’agosto del 1975, i tentativi di incontro con i suoi ricattatori e aguzzini, l’attentato avvenuto nelle vicinanze della sua  abitazione, gli uffici della zona controllati dalla Sip parallela, le minacce da lui subite e i numeri più volte cambiati della sua utenza direttamente dalla Sip stessa, come chi scrive ha in maniera inedita fatto emergere. E ancora le doppie o triple macchine presenti  sulla  scena  del crimine, la doppia macchina in uso a Pelosi, il doppio di alcuni figuranti coinvolti. Doppi o sovrapposizioni che confondono il quadro, 

appositamente. Così come alla Commissione non dovrebbe sfuggire la parte del terrorismo nero mai esplorata da nessuna inchiesta d’istruttoria o giudiziaria sul caso.
Il “caso Pasolini” è insomma tutto racchiuso qui fra un omicidio politico e una strategia del linciaggio e delle mistificazioni. Il tentativo cioè di consegnare all’oblio un messaggio tanto forte da sopravvivere a un massacro tribale.



Note:

1 Un tipo di tecnica, questa, artatamente creata dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distruggere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di un politico, deformandone i tratti e trasformandolo in un personaggio appunto. Negli Stati Uniti, da dove la tecnica proviene, esiste anche un campo di studi specifici che la riguardano.
2 Per un approfondimento è possibile collegarsi al link seguente http://www.affaritaliani.it/roma/pasolini-nuovo-giallo-i-reperti-manipolati-i-pantaloni-le-prove-418970.html)
3 Scritti Gorsari maggio 1975


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Pasolini, LA RABBIA 1963 - di Angela Molteni

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"ERETICO & CORSARO"



LA RABBIA 1963 -  di Angela Molteni

(prima parte a cura di Pier Paolo Pasolini; seconda parte a cura di Giovannino Guareschi.)
Scritto e diretto da P.P.P.
Aiuto regia Carlo di Carlo; commento in versi Pier Paolo Pasolini, letto da Giorgio Bassani (voce in poesia) e Renato Guttuso (voce in prosa); musica a cura dell’autore; montaggio Pier Paolo Pasolini, Nino Baragli, Mario Serandrei;
Produzione Opus Film; produttore Gastone Ferranti; formato 35 mm b/n; sviluppo e stampa SPES; distribuzione Warner Bros.; durata 53 minuti.
Realizzazione gennaio-febbraio 1963


Di Angela Molteni:

 Nei primi mesi del 1963 Pasolini, accettando una proposta del produttore Gastone Ferranti, iniziò a selezionare brani da vecchi cinegiornali e documentari. Parte di questi materiali gli servirono per realizzare una sorta di “saggio-documentario” sul tema: “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”.
Pasolini, nel film La rabbia, precisa subito, sulle note dell’Adagio di Albinoni e tramite la “voce narrante” di Renato Guttuso, che risponde a tali domande “senza seguire alcun filo cronologico e forse neppure logico”, esponendo soltanto le sue ragioni politiche e il suo sentimento poetico. Gli avvenimenti cui fa cenno nel film sono in parte sottolineati anche da suoi testi poetici letti da Giorgio Bassani.
Vi è una particolare attenzione ai problemi degli “uomini di colore”, cioè a quei popoli in prevalenza del Terzo Mondo assoggettati al colonialismo, che proprio in quegli anni – anche attraverso rivolte inizialmente contrastate con violenza da quegli stessi poteri coloniali – intendevano conquistare la propria libertà (“gente di colore... / è nella speranza che la gente non ha colore... / è nella vittoria che la gente non ha colore...).
Scorrono così le immagini della crisi d’Algeria e della rivolta di quel popolo contro il tronfio dominio francese (“Una crisi che ricrea la morte vuole vittime la cui vittoria è certa”, commenta Pasolini); delle ribellioni delle genti del Congo, dei cubani che riscattano la loro terra da una sorta di colonialismo statunitense e la liberano dalla dittatura di Batista. In quest’ultimo “affresco”, sottolineato da canzoni di lotta cubane, e mentre scorrono immagini di guerra, di morte, di disperazione, il Poeta suggerisce: “... forse solo una canzone poté dire che cos’era il combattere a Cuba... / ... forse solo una canzone poté dire che cos’era il morire a Cuba” e ribadisce: “... gente di colore / è nella vittoria che la gente non ha colore”.
Ma è messa in risalto, già all’inizio del film, anche la rivolta d’Ungheria del 1956 contro la repressione dei carri armati sovietici, simboli di quella nomenklatura grigia e ottusa che finirà per portare allo sfacelo tutte le grandi speranze della Rivoluzione.
Il film prosegue mettendo in luce altre storture dei Paesi capitalistici: la guerra tra Israele ed Egitto; l’India e la rilevanza della figura di Gandhi contro un potere che letteralmente affama il popolo; il franchismo, cioè il fascismo spagnolo e le sue squallide autocelebrazioni. Non manca l’accenno critico al simbolo stesso del capitalismo di casa nostra: la Fiat (“comprare un operaio non costa nulla...”).
Dall’incoronazione di Elisabetta II in Inghilterra (“una cerimonia vecchia di 2000 anni”), Pasolini trae spunto per denunciare l’imborghesimento già ampiamente in atto nelle classi sfruttate di quel Paese (quale sarà il futuro di una classe operaia che “oggi sciopera per l’ora del tè”?); mentre dalla Convention del Partito repubblicano per le primarie (da cui uscirà la candidatura a Presidente di Eisenhower) ricava alcune considerazioni sul sistema americano (“quando sarà inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra Storia sarà finita...”). Seguono spezzoni di altri cinegiornali: una esplosione atomica; Pasolini la chiama “questo irriconoscibile sole” e aggiunge che poi, dopo, “sarà preistoria”.
“Il sentimento della libertà ha le sue origini in visi simili”, dice il Poeta, e mostra volti sorridenti di gente comune in Unione Sovietica (“mio padre ha combattuto contro lo zar e il capitalismo [...]” Chi ieri era servo della gleba, oggi è “il primo figlio istruito di una generazione che non ha avuto nulla, se non calli nelle mani e pallottole nel petto”). Più avanti, Pasolini aggiungerà: “La Rivoluzione vuole una sola guerra: quella dentro gli spiriti, che abbandonano al passato le vecchie, sanguinanti strade della Terra”.
Pasolini definisce il pianto dei bambini del Terzo Mondo, che patiscono la fame “un singhizzo che squassa il mondo”. E la guerra, altro motivo di sofferenze soprattutto per quei bambini, “un terrore che non vuole finire nell’animo del mondo”.
Le pessime condizioni degli sfruttati (la classe che dà infinito valore alle sue mille lire”) sono denunciate da Pasolini con brani tratti da documentari sulla tragedia di lavoratori morti in miniera.
Un raggio di speranza pare accendersi nel seguire l’impresa spaziale di Juri Gagarin (che “sale nel cielo con un semplice cuore” e “ridiscende in terra fra i semplici cuori” dei suoi compagni) che afferma: “Da lassù tutti mi erano fratelli”. Ma tale speranza è di breve durata, poiché il film si conclude con una serie impressionante di esplosioni nucleari che trasmettono un drammatico senso di inquietudine e di terrore. 
Il film è in due parti: sulla seconda, affidata dal produttore a Guareschi, mi pare più dignitoso  non fare alcun commento, non entrare cioè nel merito del modo in cui Guareschi “svolge” il “tema” (che è lo stesso per i due episodi). Si commenta da sé, infatti, il suo becero para-fascismo, il suo qualunquismo infarcito di banalità, anche peggiore, se possibile, di quello esibito da Guareschi nella serie di film realizzati sulle storia di “Peppone e Don Camillo”.

  Angela Molteni maggio 1997



TESTO  di  Carlo di Carlo

Il testo che segue e' scritto da Carlo di Carlo, aiuto regista nel film La rabbia (lo e' stato precedentemente di Mamma Roma e de La ricotta) ed integralmente riportato dal testo Teoria e tecnica del film di Pasolini, a cura di Antonio Bertini ed edito dalla Bulzoni editore. Se ne consiglia la lettura per avere un quadro completo della tecnica filmica di Pasolini.
Tra le carte del mio lavoro con Pasolini (1962-1963), torvo un appunto relativo a La rabbia, l'ultimo film al quale ho collaborato con lui. Probabilmente una sua dichiarazione.
Dice Pier Paolo: "Il film La rabbia e' un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni. Tali documenti sono presi da cinegiornali e da cortometraggi e montati in modo da seguire una linea, cronologico-ideale, il cui significato e' un atto di indignazione contro l'irrealta' del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilita' storica. Per documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente al realta'. La realta', ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione puo' dare". La rabbia; un film di montaggio, un film-saggio politico, un film poetico. Meglio, un testo in poesia espresso per immagini, con la rabbia in corpo. La rabbia di Pasolini. La sua rabbia. Contro il mondo borghese, contro la barbarie, contro l'intolleranza, contro i pregiudizi, la banalita', il perbenismo. Contro il Potere che, soprattutto allora inveiva contro di lui (che non era ancora il Pasolini di poi) in modo persecutorio. Contro. Contro. Contro.
Perche' La rabbia e' stato proprio un film-contro, e per molti versi anticipatore.
Gia' all'inizio nacque contro il partener, Giovannino Guareschi, autore della seconda parte. Quel Guareschi, simbolo dell'umorismo da sacrestia di quegli anni, il quale incarnava meglio e piu' di ogni altro lo spirito del '48, della piccola borghesia, dei Comitati civici, dell'Italia degasperiana, quasi una liala del qualunquismo.
Si', perche' l'idea del produttore fu quella di sfruttare l'idea del "visto da destra.... e vista da sinistra", le due vignette che settimanlmente distinguevano la prima pagina del Candido mettendo in berlina i comunisti ("trinacituri") secondo le norme piu' bieche dell'anticomunismo della guerra fredda. Attraverso l'incontro/scontro Pasolini-Guareschi, il produttore era certo di compiere un'operazione commerciale di sicuro successo. Scandalo. Prestarsi a un'operazione del genere! Pasolini appariva gia' e sempre scandaloso, e a quei tempi poi! Ora addirittura si prostituiva a favore di un'operazione commerciale che lo vedeva affiancato a un tale figuro. (E pensare che la nostra moviola era perfino distante dieci metri da quella di Guareschi, in fondo a un corridoio di un appartamente di Viale Liegi. Di lui si intravedevano, ogni tanto, i baffi, perche' i due non si salutavano neppure). Il film fu un totale insuccesso commerciale. A Roma due giorni di programmazione, credo due a Milano, a Firenze uno. Poi basta. E cosi', sulle ceneri di questo insuccesso, rimase splendidamente sola, la parte di Pier Paolo, questo eccezionale documento (capito soltanto negli anni a venire) che implicitamente dimostrava ancora una volta l'autonomia della creazione, della poesia, della cultura. Questo film fu un lavoro eccitante, complesso, superiore a quella per Mamma Roma e per La ricotta. Perche' non si tratto' soltanto di scegliere insieme tra in novantamila metri di Mondo libero (il cinegiornale degli anni della guerra fredda confezionato dal nostro produttore) e di tanti altri documentari d'ogni tipo, ma di un paziente e vivace lavoro, sia dal punto di vista tecnico che da quello creativo: ricerca e scelta dei piu' svariati materiali fotografici e di documentazione, riprese dal vero e in truka di varie sequenze, prove e riprove di montaggi differenziati, costruzioni di sequenze di collegamento tra un tema e l'altro, ricerca dell'unitarieta' stilistica, infine tante e tante discussioni vive e accese su tutto perche' in quei mesi, d'un colpo, tutto cio' che era accaduto e accadeva d'importante nel mondo, era davanti ai nostri occhi, li' sul piccolo schermo della moviola.
Quindi: amarezze indifferenza iprocrisia delusioni tragedie e anche illusioni speranze. La rivoluzione. L'utopia. Bisognava stringere, scegliere, contenere. Gli argomenti si assotigliarono: la morte di De Gasperi, la guerra in Corea, le alluvioni, la televisione, l'Ungheria, l'anticomunismo, Egitto/Israele, l'assassinio di Lumumba, Nasser, Sukarno, la liberazione di Tunisia, Tanganika, Togo, Cuba, il canale di Suez e poi Sophia Loren, l'incoronazione della regina d'Inghilterra, Eisenhower, la morte di Pio XII (e' morto un Papa di famiglia eletta - grandi agrari del Lazio..."), l'elezione di Giovanni XXIII ("Uguale al padre furbo e al nonno bevitore di vinelli pregiati, figura umana sconosciuta ai sottoproletari della terra, ma anch'esso coltivatore di terra - il nuovo Papa nel suo dolce, misterioso sorriso di tartaruga, pare avere capito di dover essere il pastore dei Miserabili; pescator di pescecani, pastori di jene, cacciatori di avvoltoi, dei seminatori di ortiche, perche' e' loro il mondo antico, e non son essi che lo trascineranno avanti nei secoli, con la storia della nostra grandezza".), il realismo socialista e l'arte astratta, la Francia e l'Algeria, stermini, impiccagioni, esecuzioni, torture, De Gaulle. Poi l'inno a Marylin ("Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu / te la sei portata dietro come un sorriso obbediente"). Infine, l'atomica, i voli nel cosmo, la grande era. Pier Paolo concludeva: "Perche' compagni e nemici, / uomini politici e poeti, / la rivoluzione vuole una sola guerra, / quella dentro gli spiriti / che abbandonano al passato / le vecchie, sanguinanti strade della Terra".
Un ultima cosa: Pier Paolo detestava i doppiatori e quindi leggere questo testo bellissimo divento' un problema non secondario. Ebbe l'idea di farlo leggere da due voci altre, agli amici Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Testo a due voci: la voce in poesia e la voce in prosa, la voce della pacatezza (Bassani), la voce della rabbia, dell'invettiva (Guttuso). Bassani e Guttuso si sentirono protagonisti-attori, impegnati nel testo. Non fu facile, ma anche questo risultato fu singolare.

Carlo Di Carlo



 TESTO  tratto da "Le belle bandiere"

Il testo che segue, scritto da Pier Paolo Pasolini, e' apparso sul n. 38 del 20 settembre 1962 sulla rivista Vie nuove, con cui Pasolini collaborava, ed e' stato raccolto, insieme agli altri interventi sulla rivista, nel volume Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, edito da Editori Riuniti.
E' un film (La rabbia, ndr) tratto da materiale di repertorio (novantamila metri di pellicola: il materiale cioe' di circa sei anni di vita di un settimanale cinematografico, ora estinto). Un'opera gioranalistica, dunque, piu' che creativa. Un saggio piu' che un racconto.
Per dargliene un'idea piu' precisa, le accludo il "trattamento" del lavoro: le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio. Tenga quindi conto della destinazione di questo scritto: una destinazione che implica da una parte una certa ipocrita prudenza ideologica (il film sara' molto piu' decisamente marxista, nell'impostazione, di quanto non sembri da questo riassunto), e dall'altra parte una certa goffagine estetica (il film sara' molto piu' raffinato, nel montaggio e nella scelta delle immagini, di quanto non si deduca da questa affrettate righe).

  La rabbia

 Cos'e' successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalita'.
Gia', la normalita'. Nello stato di normalita' non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come "normale", privo della eccitazione e dell'emozione degli anni di emergenza. L'uomo tende ad addormentarsi nella propria normalita', si dimentica di riflettersi, perde l'abitudine di giudicarsi, non sa piu' chiedersi chi e'.
E' allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica.
Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l'Italia, la morte di De Gasperi.
La rabbia comincia li', con quei grossi, grigi funerali.
Lo statista antifascista e ricostruttore e'"scomparso": l'Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalita' dei tempi di pace, di vera, immemore pace.
Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.
Egli osserva con distacco - il distacco dello scontento, della rabbia - gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti....E... il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volonta' dell'Italia a partecipare all'Europa Unita.
E' cosi' che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aereoporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell'aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.
Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l'anticomunismo. E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa; si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.
Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.
Finche' si arriva a Ginevra, all'incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che e' consacrazione della potenza e conformismo, non puo' che crescere ancora.
Cos'e' che rende scontento il poeta?
Un'infinita' di problemi che esistono e nessuno e' capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, e' irrealizzabile.
Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un'altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.
O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.
O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell'uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. E' l'odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. E' l'odio per tutto cio' che e' diverso, per tutto cio' che non rientra nella norma, e che quindi turba l'ordine borghese. Guai a chi e' diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.
Lingiaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.
E' cosi' che riscoppia la crisi, l'eterna crisi latente.
I fatti d'Ungheria, Suez.
E l'Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.
Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve.
Morti sventrati sotto il solleone del deserto.
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre piu' integrale e profonda, l'illusione della pace e della normalita'.
Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l'Europa moderna:
il neocapitalismo; 
il MEC, gli Stati Uniti d'Europa, gli industriali illuminati e "fraterni", i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell'alienazione.
La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale.
Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.
Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.
Cosi', mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa piu' raffinata e per pochi, questi "pochi" divengono, fittiziamente, tanti: diventano "massa". E' il trionfo del "digest" e del "rotocalco" e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre piu' irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, e' un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalita' che rallegra e uccide.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l'hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano cosi', te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realta' dannata, alla fatalita' del male.
Perche': finche' l'uomo sfruttera' l'uomo, finche' l'umanita' sara' divisa in padroni e in servi, non ci sara' ne' normalita' ne' pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo e' qui.
E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro societa' e' la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.
Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.
E vedete questi? Uomin umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passono ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili on in tragici grattacieli: quesi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.
E' da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.
La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici e' il futuro di questa divisione.
Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta puo' intuire... una di quella sorprese che ha la vita quando vuole contiuare... forse...
Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, e' il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.
                                                                                                                      Pier Paolo Pasolini


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Pasolini, LA RICOTTA 1963 - di Angela Molteni

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LA RICOTTA  1963
di Angela Molteni 


(quarto episodio del film RoGoPaG. Gli altri episodi sono: Illibatezza di Rossellini,
 Il nuovo mondo di Godard, Il pollo ruspante di Gre­goretti)

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini

Fotografia Tonino Delli Colli; ar­chitetto Flavio Mogherini. 
Costumi Danilo Donati. 
Commento e coordinamento musicale Carlo Rustichelli. 
Montaggio Nino Baragli. 
Aiuto alla regia Sergio Citti, Carlo di Carlo.

Interpreti e personaggi: 
Orson Welles (il Regista, doppiato da Giorgio Bassani). 
Mario Cipriani (Stracci). 
Laura Betti (la “diva”). 
Edmonda Aldini (un’altra “diva”). 
Vittorio La Paglia (il giornalista). 
Maria Berardini (la stripteaseuse). 
Rossana Di Rocco (la figlia di Stracci).

E inoltre: 
Tomas Milian, Ettore Ga­rofolo, Lamberto Maggiorani, Alan Midgette, Gio­vanni Orgitano, Franca Pasut. Hanno partecipato anche: Giuseppe Berlingeri, Andrea Barbato, Giuliana Calandra, Adele Cambria, Romano Costa, Elsa de’ Giorgi, Carlotta Del Pezzo, Gaio Fratini, John Francis Lane, Robertino Ortensi, Letizia Paolozzi, Enzo Siciliano.

Produzione Arco Film (Roma) / Cineriz (Roma) / Lyre Film (Parigi). 
produttore Alfredo Bini. 
pellicola Ferrania P 30, Kodak Eastman Color. 
Formato: 35 mm, b/n e colore; macchine da ripresa Arri­flex. 
sviluppo e stampa Istituto Nazionale Luce. 
Doppiaggio CID-­CDC. 
Sincronizzazione Titanus. 
Distribuzione Cineriz; durata 35 minuti.

Riprese ot­tobre-novembre 1962; 
Teatri di posa Cinecittà; 
Esterni periferia di Roma; 

Premi - Grolla d’oro per la regia, Saint Vincent, 4 luglio 1964.



 TRAMA

“Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Co­loro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la sto­ria della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”, 

è una premessa che Pasolini stesso fa al suo film La ricotta.­

Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.

Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:
– le citazioni figurative (l’accostamento alla pala d’altare del Pontormo);

– i richiami che ha inserito nel film (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);

– l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un “Sempre libera degg’io” dalla Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un irrefrenabile  “zumpa-pa-zumpa-pa” che si avvita su se stesso...).
È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l’“enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma, per la prima volta nel cinema pasoliniano, compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche “messa in scena” l’“integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles).
La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine in cui il presente commento è inserito se ne parla molto ampiamente. Quindi non mi soffermo più di tanto sul processo che ne seguì e nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come 
“il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.
Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: 
le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della ge­nerica Maddalena, la risata del generico Cristo;

si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”,

l’espres­sione “cornuti” con “che peccato”,

la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivolu­zione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro mo­do di ricordarci che anche lui era vivo”!
Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”.
Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede.
Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.
Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:

“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
“Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
“Che cosa ne pensa della società italiana?”
“Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
“Che cosa ne pensa della morte?”
“Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”
“Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?”
“Egli danza... egli danza...”

Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia (“Io sono una forza del passato...), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):


“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio.”

In un breve scitto del 1961, infine, Pasolini così si espresse:


“Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sem­pre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese roma­niche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio  patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.

NULLA MUORE MAI IN UNA VITA: è una frase che può essere convintamente e affettuosamente rivolta proprio a Pier Paolo Pasolini.


Angela Molteni - aprile 1997

* Le citazioni sono tratte da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano

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Pasolini, Mamma Roma - di Angela Molteni

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Mamma Roma
di Angela Molteni


Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Collaborazione ai dialoghi di Sergio Citti
Fotografia Tonino Delli Colli 

Architetto Flavio Mogherini 
Coordina­mento musicale Carlo Rustichelli
Montaggio Nino Baragli 
Aiuto alla regia Carlo di Carlo 
Assistente alla regia Gianfrancesco Salma

Interpreti e personaggi: 
Anna Magnani (Mamma Roma)
Ettore Garofolo (Ettore)
Franco Citti (Carmine)
Silvana Corsini (Bruna)
Luisa Orioli (Biancofiore)
Paolo Volponi (il prete)
Luciano Gonini (Zac­carino)
Vittorio La Paglia (il signor Pellissier)
Piero Morgia (Piero)
Leandro Santarelli (Begalo, il Roscio)
Emanuele di Bari (Gennarino il Trovatore)
Antonio Spoletini (un pompieretto)
Nino Bionci (un pittoretto)
Roberto Venzi (un avieretto)
Nino Venzi (un cliente)
Maria Bernardini (la sposa)
Santino Citti (padre della sposa). 

Inoltre, hanno partecipato: 
Lam­berto Maggiorani
Franco Ceccarelli
Marcel­lo Sorrentino
Sandro Meschino
Franco Tovo
Pasquale Ferrarese
Renato Montalbano
Enzo Fioravanti
Elena Cameron
Maria Benati
Loreto Ranalli
Mario Ferraguti
Re­nato Capogna
Fulvio Orgitano
Renato Troiani
Mario Ci­priani
Paolo Provenzale
Umberto Conti
Sergio Profili
Gi­gione Urbinati.

Produzione: Arco Film (Roma); produttore Alfredo Bini; distribuzione Cineriz
Riprese aprile-giugno 1962, Teatri di posa Incir De Paolis, Roma; esterni Roma, Frascati, Guidonia, Subiaco
Durata 115 minuti
Prima proiezione XXIII mostra di Venezia, 31 agosto 1962

Premi Mostra di Venezia: Premio della FICC (Federazione Italiana dei Circoli del Cinema)




Trama 


Roma, anni Sessanta. Durante un grottesco banchetto di nozze del suo giovane protettore Carmine, la prostituta Roma Garofolo, detta Mamma Roma, proclama, in mezzo a parole di scherno sulla sorte della sposa, l'intenzione di tagliare presto i ponti con la prostituzione e di occuparsi unicamente dell'avvenire del figlioletto Ettore, avuto da un marito delinquente e sparito dalla circolazione. Passa qualche anno, in cui scopriamo che il povero Ettore è vissuto a Guidonia a pensione, è rimasto analfabeta, non ha imparato alcun mestiere, ed è diventato nel frattempo un adolescerte dalla costituzione gracilissima. Mamma Roma, messi da parte un po' di soldi, ha comperato una casa di nuova costruzione, lontana dallo squallore di Casal Bertone dove è sempre vissuta, e ha preso la licenza per un banco di frutta al mercato, con l'intenzione di dare inizio a una nuova vita insieme a Ettore. L'unica ambizione di Roma è inserire suo figlio in quella che lei reputa la società "perbene", la piccola borghesia romana, inseguendo un sogno di rispettabilità che per lei, nata e vissuta nel fango e nell'umiliazione, è
assolutamente irraggiungibile. Infatti, la sua illusione di iniziare una nuova vita è subito infranta dal "destino", personificato nella figura di Carmine: per esaudire una sua ricattatoria richiesta di denaro, Roma dovrà rimandare il trasloco con Ettore e battere il marciapiede di sera ancora per qualche tempo. Sul motivo della canzonetta "Violino tzigano" ha inizio la "nuova vita" di Ettore e di Mamma Roma nel quartiere-condominio dell'Ina-case, nei pressi di Cinecittà. Di lì a poco la vita di Ettore riprende gli stessi ritmi e le stesse abitudini del paese: incontra un gruppo di ragazzi e comincia a frequentarli, con il plauso di Mamma Roma che spera che questi siano figli di buona famiglia. Ma l'ambiente di Cecafumo è in realtà lo stesso di Casal Bertone, e quei ragazzi sono semplici perdigiorno che si riuniscono in bande simili a quelle che Ettore ha lasciato a Guidonia. Attraverso i suoi nuovi amici Ettore conosce una ragazza, Bruna, ventiquattrenne, che ha un figlio di due anni e che è un fragile impasto di ingenuità e malizia, ma soprattutto è lo
spasso sessuale di tutti i ragazzi del quartiere. Ettore, dopo essere stato iniziato da Bruna alla sessualità, in qualche modo se ne innamora, e comincia a vendere gli oggetti di casa (tra cui anche il disco di "Violino tzigano") per poterle fare dei regali. Mamma Roma intanto si rivolge ad un sacerdote per cercare di far avere a Ettore un posto di cameriere in una trattoria di un "devoto" frequentatore della parrocchia. Il sacerdote delude le aspettative di Roma, e le promette tutt'al più un posto di manovale, posto che Roma sdegnosamente rifiuta. La storia d'amore tra Ettore e Bruna, osteggiata da Mamma Roma, nel frattempo finisce male: Ettore è picchiato dai suoi compagni nel sole dell'arida campagna romana zeppa di ruderi, perché vorrebbe tenersi Bruna "tutta per sé". Bruna assiste a quell'umiliazione e al pestaggioe dopo una ribellione poco convinta saluta Ettore e va via inseme a quei ragazzi,
presumibilmente a fare l'amore. Roma decide di avere ad ogni costo il posto di cameriere per Ettore, e per farlo organizza un ricatto al padrone della trattoria. Si accorda con la prostituta Biancofiore, e con il suo protettore Zaccaria, che finge di esserne un violento fratello: Roma e Zaccaria dovranno cogliere in flagrante l'uomo, nel frattempo adescato da Biancofiore, in modo da poterlo ricattare per estorcergli il posto da cameriere per Ettore. A bordo di una motocicletta nuova di zecca che Mamma Roma gli ha comperato, Ettore comincia a lavorare nella trattoria trasteverina di quel malcapitato. Ma ancora una volta Carmine torna da Roma a chiedere denaro, e la costringe a prostituirsi minacciandola di raccontare a Ettore ciò che è stata. Disperata, Mamma Roma torna in strada, stavolta assalita dall'angoscia e vinta dalla disperazione. Cosi, Ettore viene a sapere da Bruna che Roma è una prostituta, e il suo dissimulato amore (la sua frase ricorrente è «e che mme frega a me de mi madre»), si trasforma in un
rancore rabbioso. Dopo aver picchiato Bruna, Ettore si licenzia dalla trattoria, e comincia a commettere furtarelli assieme alla "banda" degli amici, rifiutando i soldi che sua madre tenta disperatamente di dargli. Ettore, cagionevole di salute, è preso dalla febbre alta, ma per spavalderia di fronte agli amici e con una rabbia ormai rimasta il suo unico sentimento, decide comunque di effettuare un furto in un ospedale (il Sant'Eugenio). Ma i suoi movimenti sono lenti, e il malato derubato lo scopre e lo denuncia. Ettore viene portato in carcere, e mentre è in cella delira dalla febbre. A un
tratto viene preso dal panico, è colto da una crisi di nervi e cerca di uscire, con l'unico risultato di essere legato, al reparto neurologico del carcere, a un letto di contenzione. Mentre Mamma Roma a casa si dispera, Ettore muore senza cure legato al suo lettuccio. Quando due poliziotti in borghese le annunciano, al mercato, che Ettore è morto, Mamma Roma, con una corsa che ricorda una celebre sequenza di Roma Città aperta, corre verso casa e cerca di suicidarsi lanciandosi dalla finestra. Viene salvata dagli altri "mercatari", e lasciata alla sua terrena disperazione, con lo sguardo perso in una Roma lontana e assassina che le fa da controcampo.

Angela Molteni, 1997



Diario di lavorazione del film Mamma Roma dell'aiuto regista Carlo di Carlo


Lunedì, 9 aprile
Il ciak a Casal Bertone. C'è la troupe al completo: Pasolini, Ettore, la Magnani, Franco Citti e suo fratello Sergio, l'insostituibile aiutante e collaboratore di Pier Paolo, Tonino Delli Colli e suo cugino Franco operatore alla macchina l'assistente Gioacchino Sofia, Lina D'amico, la segretaria di edizione, Boschi, Franchi, Bruno Frascà, Casati della produzione, Mariano il capo, con Gianduia, Alberto, Alfredino, Profili, Conti, Silvio Citti e gli altri. É la stessa troupe di Accattone. Il sole oggi fa nascondino e si girano quindi solo pochi esterni: l'arrivo a casa di Mamma Roma con Ettore. Franco Citti che nel film sarà Carmine, il pappone di Mamma Roma, non si è fatto crescere i baffi come doveva. Li porterà finti e assomiglierà a Don Fefè Cefalù, il personaggio di divorzio all'italiana, interpretato da Mastroianni. C'è una schiera foltissima di fotografi che salutano il ritorno di Nannarella sul set e il ciak di Mamma Roma. - Sarà meglio di Accattone? - Non sanno dire altro. A pranzo Pier Paolo mi parla del prossimo film che girerà prima di quello africano, prima de Il padre selvaggio. Sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul Calvario le tre croci, la Maddalena, due angeli... il protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell'attimo in cui viene inchiodato, è colpito da un infarto. Gli parlo di Buñuel. Penso anche all'inzio di Mamma Roma. Mi ricorda l'ultima cena di Viridiana. Pasolini mi dice che non conosce nulla di Buñuel e che vorrebbe finalmente vedere il film.


Martedì 10 aprile

Oggi si girano gli interni nella stanza della casa di Casal Bertone. E naturalmente fuori c'è il sole che serve per svelare Pasolini calciatore. La Magnani incontra Citti: "Buongiorno, signor Citti, sempre stanco della vita, no?". Franco non si scompone. Si gira dodici volte una scena con la Magnani, ma non diventerà una abitudine. Arriveremo a girare cinquantasei inqudrature in una giornata. Pasolini vuole "seguire" Anna nella battute e desidera indicarle le sfumature, i toni che lei ha già trovato ovunque nelle didascalie della sceneggiatura rigorosissima. Quasi non bastasse questa, Pasolini disegna nervosamente ogni inquadratura su dei fogli volanti con accanto il dettaglio tecnico e l'eventuale battuta. Serve anche per Delli Colli, che capisce a volo ciò che Pier Paolo vuole. Tra l'altro, è un abile giocatore di luci. Si prepara la scena del tango, sotto gli occhi di Bini, in visita alla troupe. Il lavoro prosegue fino al tardo pomeriggio. Sarà il ritmo di tutti i giorni. Dopo si andrà a vedere il "girato" del giorno prima. Bini non vuole nessun estraneo - oltre la Magnani, Delli Colli, Salina (l'assistente) e me - tranne Ettore che si abitua da oggi a "vedersi". Forse non si è proprio reso conto di che cosa sia il cinema. Non nasconde esteriormente una certa ribellione all'immagine, ma in fondo è intimamente soddisfatto e contento.


Venerdì 13 aprile

Continuiamo gli interni a Casal Bertone. La Magnani è di un altro umore, ora che si è "rodata" e si è intesa con Tonino. Ha indovinato le luci per il suo naso, che lei chiama "la sciabola". Seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che "recita" e non è naturale come la vuole lui, girando in questo modo inconsueto. L'odio, la rabbia, il di umore insomma, improvviso e secco com'è richiesto dal copione - non può essere "estratto" battuta per battuta. Ma Pasolini insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l'abitudine e ne sarà contenta. Oggi si girano anche le prime scene con Carmine (Franco Citti). E' un attore nato, un temperamento eccezionale. Non occorre dirgli la battuta più di una volta, non occorre che Pasolini gli dica niente oltre alcuni suggerimenti e la posizione fisica. Lo chiamano Fefè; sta al gioco e recita alcune battute in siciliano.Ettore parla con gli amici dell'intervista che hanno strappato a Franco nell'ultima trasmissione di "Cinema d'oggi". L'artificio televisivo è stato esemplare e sono riusciti a presentarlo come volevano. Franco invece è tutto il contrario: basta rimanere poco tempo con lui e ci si rende conto. è difficile capirlo perché non dà confidenza, è scontroso, ha un habitus esteriore che è esattamente il contrario di se stesso. (Solo Pasolini l'ha capito). Fa il cinema perché Accattone gli ha aperto questa strada, ma fa l'attore così come un altro mestiere. Tutto ciò che guadagna lo spende e non gli interessa; perché - dice - se questa esperienza dovesse finire, ricomincerei tutto da capo.


Sabato 14 aprile

Finiti gli ultimi esterni a Casal Bertone, finalmente ci spostiamo. Sembravamo dei confinati. Gli interni per ora sono finiti e si va, nonostante l'inclemenza del tempo - un cielo grigio e buio che promette pioggia, un sottile e continuo vento di tramontana che agita mulinelli di polvere - a Torre Spaccata, al villaggio Ina-Casa, dietro Cinecittà. Ogni giorno scopriamo una Roma, inedita, che Pasolini in questi anni è andato a cercare con la pazienza, l'attenzione e l'osservazione di un esploratore. Si gira la scena della "fontanella" dove Ettore, preso a botte dai compagni, arriva grondante di sangue e incontra un vecchio "frocio" che lo spaventa, e scappa. Sarà una scena che ci perseguiterà giorni e giorni. Infatti il tempo non ci darà pace quasi fino agli ultimi giorni di riprese. Alla fine poi questa scena sarà tolta, al montaggio. C'è un prato lunghissimo che pare una collina e un deserto contemporaneamente. Un muretto, vicino, a strisce nere e bianche. In fondo una torraccia e, ai lati, enormi caseggiati popolari- una distesa - che paiono un muro. In proiezione vediamo tutto il girato. Ci sono delle scene stupende, quella del tango soprattutto. La Magnani è molto contenta e Pier Paolo questa volta non sa nascondere la sua soddisfazione e il suo compiacimento.


Lunedì 16 aprile

Pier Paolo mi dice che il commento musicale di Mamma Roma sarà costituito da brani del Cimento dell'armonia e dell'invenzione e del Concerto di San Lorenzo di Antonio Vivaldi. Si parla di musica. Chiedo se gli piace la musica elettronica, "Non mi piace Antonioni, non mi piace l'arte astratta e nemmeno la musica elettronica". Nei prossimi giorni ci saranno accese discussioni.


Giovedì 19 aprile

Dopo alcuni esterni - siamo stati a Guidonia, nei giorni scorsi - eccoci di nuovo in interno. Siamo alla cava Aurelia, dietro San Pietro, per girare le scene del ricatto. C'è Luisa Orioli che nel film sarà Biancofiore, la compagna di vita di Mamma Roma. Lui, il ricattato è un certo signor Pellisier (La Paglia è il vero nome) proprietario di un ristorante, il quale darà a Ettore un posto di cameriere nel suo locale. è altissimo con una faccia allungata e grassoccia, la fronte molto alta e i capelli tutti dietro. Lo si trova sempre in un bar e non si sa bene cosa faccia nella vita. Non è stato scelto casualmente da Pier Paolo - come d'altronde non lo è stato nessun altro dei suoi personaggi - ma questo in modo particolare. Assomiglia a qualcuno...


Venerdì 20 aprile

Come Accattone ebbe la Morante, così Mamma Roma avrà Paolo Volponi. Sarà il prete, a cui Mamma Roma andrà a chiedere di sistemare suo figlio. Rifiuta il posto di manovale che il prete le offre e Mamma Roma cercherà qualcosa di più degno. Siamo ancora nella casa di Biancofiore: una stanzetta di poco più di quattro metri quadrati. Incredibile davvero che in questa superficie trovino posto la troupe, Biancofiore, Pellisier, la Magnani, Zaccaria, Pasolini e noi, oltre a quel cimitero di luci e di croci-sostegno appesi alle pareti e al soffitto. Vengono Moravia e Levi a trovare Pasolini. Ma Moravia è impaziente, non riesce a fermarsi più di pochi minuti, mentre invece Levi scopre luoghi bellissimi da dipingere,. è divertito della definizione di Pier Paolo: "Geova onirico e preconfessionale".


Sabato 28 aprile

Franco Citti è stato arrestato. Pasolini sapeva solo del fatto, ma non dell'arresto:. è accaduto ieri sera a Piazzale Flaminio che a beneficio degli automobilisti è stato mosso e rimosso, coperto di bianco e di nero, di strisce e di zebre e pare diventato un parco per le automobiline dei ragazzini. Franco e un amico, ubriachi, in macchina, avrebbero "assalito", con ingiurie, due dipendenti comunali che stavano rinfrescando di bianco alcune strisce, nel nuovo caos del piazzale, insultato pubblici ufficiali e fatto gesti osceni. Domani si scatenerà un'altra delle solite vergognose campagne della nostra stampa perbene. Non sembrerà vero a questi giornalisti di avere in mano il nuovo caso di quello che viene definito "il suo pupillo", per sputare sulla figura e sull'opera di Pasolini. Quanti meriteranno, domani, un epigramma?


Giovedì 3 maggio

A Cecafumo. Laggiù l'acquedotto con una fila interminabile di baracche, le baracche degli umili - penso ai Rudy di via Veneto che ubriachi e molestatori, ma di altra condizione sociale... vengono accompagnati alla loro casa dopo gli schiamazzi notturni, dagli agenti che chiedono scusa ai loro genitori - un prato lunghissimo, verde con l'erba alta e qualche rudere sparso qua e là, circondato da una cintura di case enormi, bianche, a ventaglio: un paesaggio stranissimo, il più strano che ho visto qui a Roma. Il sole è infuocato e bruciante. Mi viene in mente una poesia di Pasolini: Al sole. "No, non a noi: tu manchi / a loro, che pure vivono a livelli / d'esistenza di sole, in pienezza, / e tra le baracche e sterri, / prati zeppi di canne e d'immondezza, / sentono in questa disorientata brezza, / con altro cuore, il tuo non esserci... Io sono qui, nel loro / mondo (ma sempre al mio impoetico / livello d'uomo colto, come sopra / un muro che si sgretola): / col vero cuore sento che tu manchi, sole". Con Pier Paolo in macchina parliamo di Franco. Si confesserà, con la bocca amara e i ricordi vivi, al registratore, con me, isolato dagli altri.


Venerdi 4 maggio

Il ritmo del film sembrava essersi rallentato. La notizia di Franco ci ha tutti un po' sconvolti. Si parla con Sergio, suo fratello, si domandano notizie ad altri amici. Il 15 ci sarà il processo. Pier Paolo è sempre più preoccupato. Franco, come ogni altro personaggio, è insostituibile. Non sono molte le scene da girare con lui, ma devono essere girate ancora quasi tutte. Ora siamo alle prese col mercato. Il mercato lunghissimo di Cecafumo.


Venerdi 11 maggio

Da mercoledì fermi nei pressi di un ospedale, dietro a piazza dei Navigatori a girare tutte le scene di Ettore con i compagni, l'ingresso, la corsia, il furto della radiolina all'ammalato Roscio. Durante le pause parlo con Maggiorani. Farà la parte di un malato, a cui Ettore ruberà la radiolina. Sul suo volto si legge tristezza e malinconica rassegnazione. I suoi ricordi migliori sono ancora fermi a Ladri di biciclette, per la cui interpretazione prese seicentocinquantamila lire. Mi dice che la sua debolezza è di non essere capace di chiedere. Non fu capace di chiedere allora, non è stato capace dopo. [...] Spera che l'incontro con Pasolini segni il nuovo incontro col cinema che gli sta tanto a cuore. Di Pier Paolo mi ha detto: "Non mi è nuovo, ma lo credevo più vecchio".


Martedì 15 maggio

Siamo di nuovo in interni, agli stabilimenti De Paolis, dove è stata ricostituita, fredda e d'un biancore spettrale, la cella di segregazione che vede Ettore legato ad un tavolaccio di pietra, disteso come un crocefisso. Sono gli ultimi momenti di vita di Ettore, che, delirante invoca la madre. Pasolini stamattina usa per la prima volta il dolly sul corpo di Ettore, in inquadrature simmetriche di evidente ispirazione figurativa. Masaccio e Vivaldi si accomuneranno in una delle sequenze del film, forse la più bella.




Mercoledì 16 maggio

Franco Citti è stato condannato per i fatti del Flaminio a un anno e tre mesi di reclusione. A Ciampini, che uccise un uomo, daranno tre anni e alcuni mesi. La stampa si è scatenata. Ma la perla, in questo processo che riempie colonne e colonne di piombo, è la requisitoria del P.M., dottor Pedote. Un atto d'accusa, un processo alla letteratura e al cinema...





Venerdì 18 maggio
Siamo all'anulare olimpico, in fondo alla Flaminia vicino al Palazzetto dello sport. Sono le 20. Di sera, questo posto sembra un cimitero; c'è solo più luce. Alberi al neon fittissimi e tante strisce bianche per terra. Ne avremo per alcuni giorni; si devono girare gli esterni-notte più spettacolari del film ed anche i più tipici. Una carrellata continua, ininterrotta, un camera-car di oltre un chilometro e mezzo che segue Mamma Roma in una camminata piena di fulgorazioni inventive, mentre "batte e balla il cha-cha-cha della vita".Lo scenario è allucinante: sullo schermo si vedrà un nero assoluto, stagliato da figure che paiono ombre, da tanti punti di luce e da una croce, quella del Calvario. Freddo. Umido. Si rimane fino alle quattro di mattina. Prove su prove, chilometri di strada. Per alcune sere è stata abbandonata l'Arriflex per la Mitchell...


Lunedì 28 maggio

Un grande salone - enorme, bianchissimo, vuoto - in uno dei tanti palazzoni dell'Eur è stato scelto come interno della Chiesa. Qui gli incontri di Mamma Roma col prete e altre scene d'ambiente. C'è Volponi, dopo il clamoroso successo del Memoriale, che non ha difficoltà a vestire la tonaca e ad entrare immediatamente nel personaggio. Deve essere un prete apparentemente sincero e dall'aria dimessa, ma con un fondo sostanzialmente ipocrita, che reagisce freddamente al dolore di Mamma Roma.


Lunedì 4 giugno

Finalmente Franco è uscito. Le ansie e le preoccupazioni - siamo ormai agli ultimi giorni delle riprese e non in molti abbiamo creduto alla sua scarcerazione - sono finite. Pasolini è piuttosto freddo con lui, quando lo rivede. L'incontro rientra nella normalità. Anna lo accoglie calorosamente e scherza. "Se le do uno schiaffo Citti, lei me lo restituisce?". "No, le porgo l'altra guancia: è così che mi è stato insegnato".





Giovedì 7 giugno

Non ho mai domandato alla Magnani, prima d'ora, cosa pensa di Mamma Roma e come avvenne l'incontro con Pasolini. è giunto il momento: siamo agli ultimi giorni ed è stato visto quasi tutto il "girato" che è stato quotidianamente montato con l'aiuto del bravissimo Baragli. "Molti hanno parlato del "ritorno" della Magnani" - mi ha detto Nannarella. "Non c'è nulla di eccezionale nel fatto che abbia accettato la parte di Mamma Roma, dopo due anni. Non ho mai interpretato più di un film in un simile intervallo di tempo, altrimenti sarei un'attrice ricca e invece non lo sono. Faccio solo i film che mi interessano, che giudico adatti a me, nonostante le continue, insistenti offerte che ho avuto e che seguito ad avere. "L'incontro con Pier Paolo: andai a Venezia per Castellani, la sera della prima de Il brigante. Fu lì che vidi Accattone e ne uscii sconvolta. Avevo conosciuto casualmente Pasolini, una volta, in casa di Elsa De Giorgi, e mi aveva detto che stava pensando a una storia - che sarebbe poi stata quella di Mamma Roma. Me ne parlò sommariamente e mi propose di interpretarla. Dopo la proiezione di Accattone , al Palazzo del cinema, ci fu l'incontro definitivo. Una sera, in macchina, dopo essere stati a cena, Pasolini mi raccontò come sarebbe stato in definitiva il vero volto di Mamma Roma. Nacque così il film. Il rapporto con Pier Paolo, nei primi tempi", continua la Magnani, "è stato difficile, ma si è risolto subito in un rapporto di cordialità e di amicizia, come avviene di solito tra persone intelligenti che si capiscono. Sono contenta di lavorare con questi straordinari personaggi, soprattutto perché, quando posso, preferisco lavorare con i non attori". La domanda che le pongo è imbarazzante, ma alla fine risponde: "Sono molto affezionata ai personaggi di Roma città aperta, di Amore, de La rosa tatuata, ma se non sbaglio credo che questo sia il personaggio più "grosso" che ho interpretato finora".


Venerdi 8 giugno

Una sala, appena rinfrescata di calce, all'interno di una fattoria abbandonata, nei pressi di Frascati, è il luogo scelto per girare il pranzo di nozze, la prima del film. La tavola è a ferro di cavallo, piena di invitati: da Mamma Roma a Zaccaria, da Biancofiore ai papponi. Al centro, Carmine, lo sposo, la sposa e il padre. Mamma Roma deve entrare con tre maialetti vestiti con le giarrettiere, con un giglio in testa e col nastrino rosa. C'è da faticare. Ma in fondo anche questo problema è risolto felicemente. Sarà l'exploit comico del film: una sarabanda di battute, di invenzioni, di stornelli "burini" su arrangiamenti musicali dei "pezzi" di Vivaldi, in una cornice da ultima cena.


Giovedì 14 giugno

Da oggi, e per alcuni giorni, siamo confinati in un luogo terribile: è chiamato "canalone". Sembra il letto di un fiume, abbastanza largo, con l'erba gialla, arido, infuocato dal sole bruciante di questa estate senza vegetazione. Dobbiamo girare "le scene del prato", cioè gli incontri di Ettore con Bruna, con gli amici, la lotta. L'altro luogo, ancora per queste scene, sarà quel meraviglioso prato di Cecafumo attorno al quale abbiamo ruotato per tanti giorni, all'inizio. Ci si ripara sotto miseri ombrelloni da spiaggia, cercando ognuno di noi di rubare all'altro un centimetro d'ombra o comunque di riparo, tranne Pasolini che imperterrito seguita a stare ore e ore sotto il sole romano di piena. A Cecafumo non è stato dato il permesso alla produzione per girare sul prato. è di proprietà di persone che qualcuno di tanto in tanto ha letto nelle cronache romane, nei pettegolezzi su via Veneto. L'odio per Pasolini è un odio viscerale, categorico. Forse quell'epigramma? "Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini / ora un po' esistete, perché un po' esiste Pasolini". Ma giriamo ugualmente, alla macchia, tra pochi giorni il film sarà finito.

Carlo di Carlo



Il materiale è tratto da Teoria e tecnica del film in Pasolini, a cura di Antonio Bertini, Bulzoni 1979 e da "L'Europa letteraria", III, n. 17, ottobre


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
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Pasolini - ROMA, GRAMSCI E I NUOVI TEATRI (1950-1965) - Di FRANCESCA TOMASSINI

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"ERETICO & CORSARO"

(L'opera è di Dimitris Lamprou. L'artista prossimamente esporrà le sue opere ad Atene) 


La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco 

 DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI 
DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA 
XXVI CICLO (2010-2013) 






                TUTOR:                                                ADDOTTORANDA:
      
PROF.SSA     SIMONA COSTA                             FRANCESCA TOMASSINI



INDICE


PREFAZIONE



CAPITOLO PRIMO


1.1 Primi esperimenti teatrali (1938-1950)
1.2 Roma, Gramsci e i nuovi teatri (1950 – 1965)
1.3 La rivoluzione non è più che un sentimento. La crisi delle ideologie e il superamento del modello gramsciano
1.4 Il Manifesto per un nuovo teatro 
1.5 La lingua di poesia come strumento di protesta 

CAPITOLO SECONDO


2.1 Orgia 
2.2 Pilade
2.3 Affabulazione
2.4. Calderón
2.5 Porcile
2.6 Bestia da stile

CAPITOLO TERZO


3.1 La tradizione e la Grecia 
3.2 Edipo, Cronos, Medea, Oreste, Pilade 
3.3 Il linguaggio cinematografico e teatrale nella trattazione del mito

CAPITOLO QUARTO


4.1 Nel teatro italiano novecentesco
4.1.1 Il modello rifiutato: il teatro in versi di Gabriele d’Annunzio
4.1.2 Per un altro teatro in versi: la drammaturgia di Mario Luzi
4.1.3 Non c’era un gesto, uno sguardo che fosse in più. Eduardo De Filippo, Giovanni Testori, Carmelo Bene
4.1.4 Tra polemica e drammaturgia: Pasolini, Sanguineti e il Gruppo’63
4.2 Il grande teatro europeo novecentesco
4.2.1 Il teatro in versi anglosassone: William Butler Yeats e Thomas Stern  Eliot
4.2.2 Il Teatro Tedesco: Il Maestro Bertolt Brecht e il teatro documentario   di Peter Weiss 
4.3 Un marxista in America: la controcultura statunitense, il Living Theatre e la  Beat generation 

BIBLIOGRAFIA

FILMOGRAFIA



CAPITOLO PRIMO 




1.2 ROMA, GRAMSCI E I NUOVI TEATRI (1950-1965) 


  
Pasolini arriva a Roma, insieme alla madre Susanna, nel 1950, dove, per cominciare una nuova vita, chiedono ospitalità allo zio Gino. I primi mesi sono i più difficili, Pier Paolo ha bisogno di un lavoro ma non lo trova facilmente, la madre lavora inizialmente come domestica presso una famiglia, Pier Paolo si mantiene dando qualche lezione privata e facendo il correttore di bozze, ma sarà il giornalismo a cambiare radicalmente la loro situazione economica e sociale. Nonostante le difficoltà economiche, a Roma, Pasolini può finalmente sentirsi libero di vivere i propri desideri sessuali, «l’omosessualità letterariamente trasfigurata di Amado mio pare farsi cruda e vera nella Roma promiscua dei cinema rionali, i grappoli umani attaccati ai mancorrenti degli autobus e dei tram, la chiacchiera ininterrotta dei venditori ambulanti, la vitalità eccessiva dei fratelli minori degli sciuscià».(1
   Sono gli anni dell’egemonia neorealista, in cui Pasolini non si ritrova fino in fondo, poiché non riconosce come legittima la soggezione della letteratura alla politica, ma sono anche gli anni immediatamente successivi alla prima edizione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci (1948), editi da Einaudi, a cura di Palmiro Togliatti. Dal momento della sua pubblicazione il testo gramsciano divenne il punto di riferimento per tutta la critica italiana, non solo per quella comunista. L’uscita dei Quaderni sollecitò nuovi interessi storici e letterari, gli editori tradussero nuove edizioni delle opere di Proust, di Freud e di Jung. La letteratura italiana conobbe un momento di rinnovato vigore insperato: 


   Ai rigidi principi del “realismo socialista”, la critica storicistica e materialistica di Gramsci agiva sotterraneamente da correttivo, persino da alternativa. […] I problemi non erano soltanto politici, o etico-politici: erano anche letterari. Questione carissima a Gramsci era stata quella di una “letteratura nazional-popolare”. […] erano naturalmente questi temi a rendere Pasolini sensibile alla lettura di Gramsci. […] Solo la marginalità, gergale, morale, per lui era una fisica marginalità: una marginalità che travalica i confini stessi della nozione marxista di proletario. Era marginale il friulano romanzo, ma erano altresì marginali, marginalissime le borgate romane, il Riccetto e i suoi prototipi: ed essi divennero esempio unico, nell’immaginazione pasoliniana, del concetto di nazional-popolare. (2

Roma è il terreno giusto per Pasolini per cominciare ad interpretare

gramscianamente la cultura, assumendosi in prima persona responsabilità sociali e politiche per poi trasferirle nella letteratura e nella poesia. 
   Il 1950 coincide con un momento di crisi del teatro italiano, soprattutto dal punto di vista economico, con la registrazione di una forte diminuzione nelle vendite dei biglietti, ma anche con un periodo segnato da una svolta e da una spiccata vivacità, in particolare nel panorama romano e milanese. Si affermano attori e registi come Vittorio Gasmann, Eduardo De Filippo, Luchino Visconti e Giorgio Strehler ma il palcoscenico continua a rimanere un mondo ben lontano dalla realtà antropologica e linguistica italiana. Il Pasolini che ha assorbito e fatto propria la lezione gramsciana, lo scrittore di Ragazzi di vita (1955) non può riconoscersi in questa tendenza. 
   Il rinnovato interesse di Pier Paolo per il teatro va ricercato nell’incontro con una donna che segnerà la sua vita intellettuale, personale e artistica per sempre: Laura Betti, detta “la giaguara”. Arrivata nella Capitale da Bologna, Laura ha poco più di vent’anni, è attrice e cantante e si fa notare per la sua eccentrica concezione della recitazione, affermandosi ben presto per la sua diversità. La Betti descrive, in queste righe piene di poesia e di sentimento, il primo incontro con Pasolini:


   Ricordo e so di un giorno molto lontano in cui, tra tanta gente di cui non ricordo e non so, entrò nella mia casa un uomo pallido, tirato, chiuso in un dolore misterioso, antico; le labbra sottili sbarrate ad allontanare le parole, il sorriso; le mani pazienti d’artigiano. […] Ricordo e so che quell’uomo che era un uomo, diventò il mio uomo. E il mio uomo nascondeva dietro gli occhiali neri l’ansia della scoperta di una possibile, tremante richiesta di amore non rifiutata, non brutalizzata, non rubata. Imparai perciò a camminare in punta di piedi per non spezzare il silenzio che accompagna il gesto dell’amore, per non farlo fuggire nel buio. Lentamente cominciò ad avere fiducia […] e fu così che diventammo «insieme», soli. Ricordo e so quindi di aver iniziato a vivere una vita finalmente difficile. Una vita con la poesia che penetrava ogni angolo segreto della mia casa, del mio crescere, del mio diventare.(3)

   

E’ un incontro di anime e di arte. Laura, con il suo carattere istrionico e irrequieto sprona inconsapevolmente Pier Paolo a risperimentarsi come drammaturgo. Insieme a lei Pasolini ritrova uno spiccato interesse per la scena teatrale contemporanea e comincia a frequentare i teatri capitolini. Il rapporto con Laura è talmente stimolante che Pasolini elabora un nuovo testo teatrale dal titolo Un pesciolino, datato 1957, quindi ben dieci anni dopo la stesura de La poesia o la gloria.
   Un pesciolino è un atto unico scritto per essere interpretato dalla compagnia dei Satiri che stava per cominciare una nuova stagione teatrale. Il testo, destinato anch’esso a rimanere inedito, si apre su una donna, in età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni, sulla riva di un lago o di un fiume, che tenta di pescare e, mentre aspetta che un pesce abbocchi al suo amo, racconta ad un immaginario pesciolino la sua vita, i suoi passati amori falliti, vissuti durante il fascismo e segnati dalla guerra e, attraverso questi ricordi, descrive un universo maschile mai compreso, distante e prepotente. L’attesa che un pesce possa abboccare o che un uomo posso finalmente bussare alla sua porta, in modo da non essere più “zitella” (parola che non riesce neanche a pronunciare per tutto il monologo), è il sentimento predominante del testo. Un’attesa che sembra infinita, in grado di mandarla su tutte le furie, di generare in lei un sentimento di rabbia dovuto alla solitudine. Solo nelle ultime battute del testo, quando finalmente la donna riesce a pescare un pesce molto grosso e in uno stato di liberazione riesce a gridare le parole che non possono essere dette: «Nessuno mi vuole! Sono una zitella… Sono una zitella».(4)

   La decisione di optare per una donna come protagonista sembra non essere casuale; è molto probabile infatti che l’autore avesse tracciato questo personaggio ricalcandolo proprio su Laura Betti, tanto più se si considerano i lineamenti caratteriali della protagonista: esuberante, ironica, ossessiva, tormentata dalla mancanza di un amore, sola, vagamente sguaiata. Nonostante la messa in scena di questo testo fosse stata annunciata con una pubblicazione sul numero della rivista «Il Caffè», nel settembre del 1957,(5) lo spettacolo verrà rappresentato e pubblicato solo postumo. Probabilmente Pasolini pensò che nonostante Un pesciolino presentasse una certa completezza formale, un linguaggio originale, spezzato da gergalismi e da una frenetica punteggiatura, non fosse all’altezza dei suoi romani esordi narrativi e poetici, con i clamori e i dibattiti sollevati dalla pubblicazione di Ragazzi di vita e de Le ceneri di Gramsci (raccolta poetica uscita proprio nello stesso 1957 e che finalmente aveva ricevuto il consenso della critica e dei lettori). Un pesciolino testimonia il rinnovato interesse pasoliniano per il teatro e la voglia di confrontarsi con i palcoscenici capitolini. Ma dovrà passare diverso tempo anni perché Pasolini torni a stendere un testo teatrale: cinque anni dopo elabora un balletto cantato, dal titolo Vivo e Coscienza (6) (1963).

   Già la data del nuovo componimento ci orienta nella novità delle scelte drammaturgiche pasoliniane: siamo all’inizio degli anni Sessanta e il teatro, anche con il successo e il proliferare delle avanguardie, comincia a delinearsi come uno dei pochi terreni in cui è possibile inscenare quella protesta sociale e politica che agita le piazze d’Italia e comincia ad offrire davvero a Pasolini «una possibilità di contatto diretto con un popolo spaccato dagli eventi politici, stirato fra normalizzazione postfascista e irrequietezza di una vasta area di sinistra desiderosa di portare, magari perfino con la forza, il comunismo al potere».(7)
   Sin dalla metà degli anni Cinquanta, il dibattito teatrale italiano si concentra sulla teoria e sui tentativi teatrali di un genio indiscusso: Berthold Brecht. Nel 1953 erano stati messi in scena i testi Un uomo è un uomo  con la regia di De Bosio e Madre Coraggio diretto invece da Lucignani, ma l’impatto determinante ci fu con la rappresentazione de L’Opera da tre soldi al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler. Da questo momento in poi nasce la passione artistica del regista nei confronti delle opere brechtiane che non smetterà mai di rappresentare. Il 1963 è l’anno dello spettacolare adattamento de La vita di Galileo. 

   Brecht è al centro del dibattito culturale e intellettuale italiano, ma inizialmente non c’è traccia di uno studio accurato da parte di Pasolini delle teorie e dell’opera del drammaturgo tedesco che ha rivoluzionato il teatro europeo del Novecento. Il primo approccio con Brecht avviene proprio all’inizio degli anni Sessanta. Stefano Casi ha rintracciato il momento esatto del primo vero contatto con l’interpretazione di Laura Betti, nel maggio del 1961, de I sette vizi capitali, all’Eliseo di Roma, diretto da Luigi Squarzina, con le coreografie di Jacques Lecoq. Effettivamente la prima citazione brechtiana di Pasolini è reperibile nelle Ballate della violenza, scritte e pubblicate proprio tra il 1961-62. E’ determinante, ancora una volta, il ruolo della Betti nel lento ma inesorabile avvicinarsi di Pasolini alla drammaturgia. Dopo gli anni casarsesi, dopo il teatro della polis friulana, dopo l’esperienza pedagogica sperimentata con l’Academiuta, possiamo constatare come il nostro autore abbia effettivamente un rapporto contraste con il palcoscenico: non riesce a dimenticarlo, fa parte della sua formazione di umanista e di intellettuale impegnato, ma nello stesso tempo, non si sente ancora pronto a cimentarsi fino in fondo in una scrittura teatrale, nell’elaborazione di un dramma che possa essere riconosciuto all’altezza dei felici risultati ottenuti in ambito poetico, narrativo e anche cinematografico (non dimentichiamo infatti che Accattone, pellicola che sigla l’esordio dietro alla macchina da presa di Pasolini, era uscita nelle sale cinematografiche nel 1961, seguita l’anno successivo da Mamma Roma, interpretata da Anna Magnani: entrambi i film avevano quindi portato all’attenzione di pubblico e critica la vocazione cinematografica dell’intellettuale friulano).
   Più avanti analizzeremo il forte impatto e l’influenza che l’opera brechtiana ebbe su una più complessa e matura riflessione drammaturgica pasoliniana, per ora ci interessa evidenziare l’aderenza (seppur non apertamente dichiarata) dell’opera Vivo e Coscienza al modello proposto da Brecht e in modo particolare proprio a I sette vizi capitali interpretati da Laura Betti che gli indicano la via direttrice da seguire per operare un superamento del teatro eschileo e approdare ad un teatro effettivamente ideologico, inteso in senso brechtiano. Il teatro greco è indubbiamente il modello costante a cui Pasolini ha guardato per i suoi esordi drammaturgici e su cui fonderà anche il successivo e più articolato corpus della sei tragedie del 1966 che andremo ad analizzare tra poco,(8) ma soprattutto da questo momento, dalla scoperta di Brecht, c’è e ci sarà sempre il tentativo e il desiderio di attingere anche al teatro contemporaneo. 
   In Vivo e Coscienza, i protagonisti sono un uomo e una donna i cui nomi danno il titolo all’opera: lui, Vivo, viene descritto come un giovane rozzo, un contadino che falcia l’erba e pota le vigne; lei, Coscienza, è invece ricca e indipendente. La storia è ambienta nel 1660, nell’immediato periodo che segue il Concilio di Trento. La ragazza, incarnazione della Controriforma, è sessualmente attratta dal pastore che lavora la terra e lo osserva «nella sua antica danza di vita, sensualità, lavoro, sole, smemoratezza, fame»,(9) gli si avvicina, compra la sua merce, il prodotto del suo duro lavoro nei campi, ma l’oro con cui paga non riesce a comprare anche il corpo e il sesso di Vivo e «il mancato possesso sessuale in una puritana pretesa di possesso ideologico»(10) genera in lei un forte sentimento di rabbia per cui comincia a rimproverare il giovane additandolo come peccatore e ordinandogli di inginocchiarsi. A Vivo non resta che obbedire, preso da una religiosa soggezione e mentre si china ai suoi piedi, Coscienza, lentamente, si avvicina per baciarlo. A questo punto la scena viene interrotta da una meravigliosa musica che giunge alle orecchie dei due, «una vecchia melodia che riempie cielo e terra».(11) Con l’irrompere della musica fanno ingresso in scena anche gli amici di Vivo, ragazzotti, contadini allegri, vivi, che danzano lasciandosi trasportare dalla melodia e strappano il protagonista dalle labbra di Coscienza e lo portano con loro nella corrente della danza dionisiaca.
Coscienza rimane sola. Il secondo episodio si apre nella Francia del Settecento, negli anni della Rivoluzione, in cui echeggiano i canti rivoluzionari e anche qui ritroviamo Coscienza e Vivo: lei vestita da sancullotta, lui come un semplice artigiano contadino. Appena prima che le loro labbra si possano toccare, Vivo viene trascinato via da una sua giovane coetanea. L’episodio successivo è invece ambientato negli anni del capitalismo fascista, in cui Coscienza incarna la borghesia dominante e Vivo continua a rimanere un contadino ma questa volta trapiantato dalla campagna alla grande città, mentre di sottofondo, come colonna sonora, si ascolta una musica jazz degli anni Trenta. Il bacio non si concretizzerà neanche in questo episodio che si concluderà quando il richiamo della patria e la partenza per la guerra sottrarranno Vivo dalle braccia della ragazza. Nel quarto e ultimo episodio siamo negli anni della Resistenza, con i canti partigiani che si odono di sottofondo. Coscienza è la coscienza democratica della resistenza, Vivo è un partigiano che viene fucilato, ma Coscienza neanche dopo la morte del giovane desiderato, riuscirà a baciarlo: infatti il corpo senza vita del ragazzo verrà trascinato da altri morti «tra cui egli, che fu un anonimo vivo, si perde».(12) Rimasta ancora una volta e, per sempre, sola e sconsolata, Coscienza riesce però a pronunciare parole di speranza con la battuta che chiude il testo: «verrà un giorno in cui Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita».(13)
   Articolato in quattro episodi, solo il primo è interamente strutturato con tanto di dialoghi e descrizioni, mentre gli altri tre sono abbozzati e ricalcati sull'impostazione del primo. Il componimento, pubblicato postumo, è destinato dunque a rimanere un abbozzo, un’idea di una vera e propria opera teatrale coreografata (nei vari episodi erano infatti previsti diversi balletti come quello dei soldati, nel terzo, che trascinano Vivo in guerra). In un’intervista al «Corriere Lombardo» del 28 marzo 1963, l’autore risponde così quando gli viene chiesto se è vero che stesse lavorando ad un’opera lirica:  «E’ stato solo un progetto, una tentazione. Naturalmente non intendevo scrivere un melodramma sui vecchi schemi e forse per realizzare la mia idea non ho incontrato, come Brecht, il mio Kurt Weill».(14) Nonostante il titolo della presunta opera lirica non venga specificato né nelle domanda del giornalista né nella risposta dell’autore, la data dell’intervista e anche le parole di Pasolini, lasciano pensare che effettivamente si stesse riferendo proprio a Vivo e Coscienza.
   Il titolo dell’opera richiama la dicotomia tra vita e coscienza con la personificazione dei due principi nei protagonisti del testo che sembrano non poter convivere, non incontrarsi mai. La tematica dello scontro tra due forze che si contrappongono, la passione e l’ideologia, e la mancata sintesi in un periodo di crisi che sta sconvolgendo l’Italia con l’avanzata inarrestabile di un tragico futuro in cui regnerà l’egemonia capitalista, viene qui raccontato da Pasolini in una forma d’arte mai sperimentata prima dall’autore, in un tentativo artistico in cui il canto e il ballo avrebbero dovuto essere il centro della rappresentazione. In questo sembra chiara l’influenza che la tecnica attoriale di Laura Betti, individuata come interprete perfetto per il personaggio di Coscienza, abbia avuto nelle riflessioni e nella sporadica scrittura teatrale pasoliniana di questi anni, ma ancor di più è necessario fissare il 1963 (e quest’opera in particolare) come il momento della svolta brechtiana di Pasolini, in cui si sente pronto e maturo per stravolgere e a mettere in discussione gli orizzonti letterari finora raggiunti e affrontati. «In questo momento di profonda trasformazione, Pasolini individua in Brecht l’inventore di meccanismi scenico-drammaturgici che destrutturano lo spettacolo proprio attraverso elementi che mettono in gioco il non finito, suggerendo un teatro nel quale l’informe avvicendarsi di appunti scenici, magari scanditi da cartelli, citazioni, canzoni, codici drammaturgici lontanissimi tra loro, si concludano con una non-conclusione».(15)

   Dopo il tentativo naufragato di Vivo e Coscienza, Pasolini, che ormai ha assorbito e reinterpretato le teorie brechtiane, decide di ritentare la scrittura di un testo teatrale e l’occasione gli si presenta nel momento in cui Laura Betti gli commissiona la stesura di un’opera per un recital (al quale, oltre a Pasolini, partecipano anche altri scrittori di spicco come Siciliano, Leonetti, Moravia e Parise), dal titolo Potentissima signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti,(16) che garantisca all’attrice la possibilità di dimostrare tutte le sue doti da attrice e cantante. Così Pier Paolo elabora l’atto unico Italie magique (1964), rappresentato per la prima volta al Teatro La Ribalta di Bologna il 5 dicembre 1964. Il testo si apre con un “Antefatto storico” in cui Laura canta in dialetto e uno Speaker annuncia l’imminente avvento del fascismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La Betti si identifica con l’Influenza Ideologica Borghese, in grado di trasformare l’innocenza del popolo in stupidità. Sul palco passano due servi di scena che mostrano un enorme cartello con una fotografia raffigurante i cadaveri nei forni crematori e nelle camere a gas. Segue infine una “Citazione brechtiana”, accompagnata da una musica carnevalesca, di felliniana memoria, di sottofondo: Mussolini e Hitler siedono su una mensola, mentre Laura, che ora incarna la Patria, ballando avvolta da una grande stola tricolore, si muove in atteggiamenti materni per poi esibire in rassegna il saluto militare, quello fascista e il passo dell’oca. Esce per un attimo di scena e rientrando porta con sé un povero soldato senza nome e, dopo averlo sbeffeggiato, lo strozza e lo calpesta. Nella scena successiva Laura è la Morte («dovrebbe essere il cadavere di un morto sotto i bombardamenti: è per esempio un’annegata nella cantina allagata in seguito al crollo della casa»),(17) ride sinistramente davanti ai cadaveri di Hitler e di Mussolini che raccoglie e getta dentro la carriola che trasporta. L’ultima scena è invece ambientata in uno scenario neocapitalistico, bello e luminoso, in cui Laura ha accanto a sé una bambola gigante che la raffigura e che pian piano monta e rismonta, fino a che non la ricostruisce interamente, creando quindi un’altra sé stessa. Ora Laura si presenta come l’Avvenire Alienazione. Il tutto è accompagnato da una musica tragica. A questo punto entrano in scena i due servi che, in un dialogo frammentato e veloce, (verrebbe da dire quasi ironico) si prendono gioco di Mao, il dittatore cinese. Al riaccendersi delle luci, Laura è in platea e, dopo un lungo e commovente monologo, torna sul palcoscenico, raccoglie pezzi di giornale e ne legge alcuni stralci. La scena si chiude confusamente con la musica del programma televisivo “Carosello” di sottofondo e i due servi che attraversano il palco con l’ennesimo cartello con su scritto “Conclusione provvisoria”.
   Le scelte adottate da Pasolini sono indiscutibilmente legate alla volontà di evidenziare le doti artistiche della Betti, spaziando dalla canzone al balletto, fino ad arrivare al monologo finale che mette in mostra l’intensità drammatica dell’interpretazione dell’attrice. L’idea sembra ricalcare in parte il principio dell’opera precedente, con le continue metamorfosi di Laura che ricordano quelle di Coscienza. Il testo appare comunque frammentato e le diverse fasi di composizione ci confermano come l’opera sia nata “a singhiozzo”; oggi si conservano due stesure dattiloscritte che presentano diverse correzioni a penna dell’autore. Nello spettacolo che esordì a Bologna, fu recitato una sorta di collage delle diverse stesure. Il titolo (che figura solo in una dei due dattiloscritti) è ripreso da un’antologia continiana, che raccoglieva racconti surreali moderni, pubblicata nel 1946.
   Italie magique rappresenta il momento in cui Pasolini comincia a sentire l’urgenza di sperimentare il genere teatrale sconvolgendo codici e canoni, qui infatti «le regole vengono stirate e infrante, il dramma comprime al suo interno un caleidoscopio di possibilità che travalicano sistematicamente la forma teatrale, portandola verso altri lidi».(18) Si tratta, insomma di un interessante segno di sfida alla rappresentabilità. Ci sono tracce di tutte quelle riflessioni teoriche e linguistiche che catturano l’attenzione e lo studio di Pasolini in questi anni: il problema del carattere politico e dell’impegno civile della letteratura, il rapporto tra lingua scritta e pronunciata, la preoccupazione per il drammatico futuro capitalistico che avanza inesorabilmente.
   Siamo nel 1965, l’idea di elaborare un articolato progetto teatrale è ormai già fissata nella mente dell’autore e la sua esigenza di mettersi veramente alla prova con il teatro, in età matura, dopo aver portato a termine con successo esperimenti in ambito poetico e cinematografico, sembra essere impellente. Prima di arrivare al concepimento del corpus delle sei tragedie, che coinciderà quasi con una seconda nascita, dopo la malattia e la convalescenza, Pasolini riprende in mano il dramma a cui abbiamo accennato prima: Il cappellano, nel tentativo di renderlo renderlo finalmente un testo strutturato in quattro atti, dal titolo Nel ’46!. Lo stesso autore spiega il tema del dramma nell’apparato dei personaggi che anticipa la pubblicazione del testo: «Tema: i primi barlumi di coscienza democratica in una persona repressa dal Cattolicesimo».(19)
   Il protagonista è Giovanni, giovane insegnante in una scuola media parificata di una piccola città di provincia che dà lezione ad un adolescente di nome Eligio, fratello di Lina, di cui Giovanni è segretamente innamorato. A rompere gli equilibri della vita del protagonista è (di nuovo) un sogno in cui troviamo il Parroco, che parla della tentazione erotica dei corpi, un seminarista, da cui Giovanni è fortemente attratto e che si rivelerà essere Lina. Giovanni sogna di essere svegliato da Eligio che gli confessa di essere venuto a conoscenza della sua passione per la sorella: a questo punto il protagonista uccide il ragazzo e nasconde il suo cadavere sotto al divano. Ma ecco che entra in scena un altro personaggio: il cardinale Fabrizio Ruffo, eroe della reazione giacobina
napoletana del 1799, che irrompe con una decina di Lanzichenecchi, in cerca di Eligio. Il cardinale scopre il cadavere, ma Giovanni riesce a farlo scomparire magicamente e sulle note della canzone Amado mio, i due iniziano a ballare, coinvolgendo man mano anche i Lanzichenecchi. Con questo episodio si chiude il secondo atto. Il successivo si apre invece in una triste radura, affollata di morti viventi, ognuno dei quali sospinge un lettino da sala operatoria su cui è disteso il proprio cadavere. Mentre Giovanni sta dialogando con un morto, viene interrotto dal Capo della polizia che interroga Giovanni. Il professore inizia una lezione di storia, durante la quale bacia Lina. Finalmente arriva Eligio a destare Giovanni dal suo sogno, ma non appena il ragazzo esce, il professore torna a dormire e continua a sognare. Questa volta troviamo il Dottore e la Madre che siedono al suo capezzale: il Dottore spiega a Giovanni che la malattia che affligge la sua anima è la «sostanza sessuale» e l’unico rimedio «contro questa Peste» è essere vigliacchi.
   Nel quarto atto ci troviamo invece nel Caucaso, nell’anno 1000, il Cardinale Ruffo veste i panni di un Giudice Bizantino, aspetta Dio e si prepara per il Giudizio Universale, con tanto di presenza sulla scena di angeli che mormorano un canto in latino e che suonano le trombe. La scena si trasforma in un mosaico bizantino. Ruffo, ricoperto da una grande stola d’oro, minaccia di confessare la natura di Giovanni, due monache consegnano al professore una grande croce per essere poi sepolto vivo. Entra in scena la Madre a cui Giovanni, da dentro la bara, dichiara il motivo della sua colpa: «la mia coscienza tappolica ha avuto un sussulto emocratico, e il mondo della ragione le sta cadendo intorno, in rovina…».(20) La Madre deve salutare il figlio che è pronto a morire e il suo ultimo appello è alla Costituzione.

   Le luci si spengono, il palco precipita nell’oscurità; quando si riaccendono le luci, la scena è tornata ad essere quella dei primi tre atti e Giovanni dorme sul sofà, si sveglia, rimane qualche istante stordito, poi si tira su, si fa rapidamente il segno della croce ed esce di scena.
   La stesura di questo testo, la costruzione di un intreccio così articolato, rimane per anni chiusa nella mente e nei cassetti di Pasolini. Ogni tanto nel corso del ventennio che intercorre tra il primo abbozzo di Il Cappellano fino ad arrivare alla scrittura di Nel 46!, Pier Paolo aveva ripreso in considerazione la sua idea: nel 1960, sul giornale «Il Giorno», aveva pubblicato una sorta di diario che raccontava il suo processo di riscrittura del Cappellano che diventava Storia interiore, dramma in cui l’autore inizia raccontando i turbamenti e il dolore vissuto nei giorni immediatamente successivi alla morte del fratello, per arrivare a poi a confessare, attraverso il personaggio di un prete che vive angosciosamente il desiderio sessuale, il suo dissidio interiore. Risalgono a questa fase, alcuni importanti modifiche rispetto al progetto iniziale: l’inserimento di una voce fuori campo annuncia l’antefatto del dramma, si insinua l’idea di sostituire al cappellano la figura di un professore come protagonista, variazione che però non si realizza subito.(21) Ma tutto il lavoro e le diverse fasi di riscrittura e revisione non portano a nulla e Storia interiore  è destinata a rimanere nel cassetto.(22)
   La versione definitiva intitolata Nel 46!, verrà messa in scena il 31 maggio 1965, al teatro dei Satiri, diretta da Sergio Graziani. Le differenze rispetto ai tentativi precedenti sono numerose: cambia la natura e il nome del protagonista, non è più don Paolo ma diventa il professor Giovanni, che però continua a vivere turbamenti e angosce dovuti al desiderio erotico che non riesce ad esternare; diverso è anche il finale che nel testo del 1965 richiama quasi all’opera lirica, in linea con i più recenti esperimenti teatrali pasoliniani di cui abbiamo già parlato.
   E’ possibile riconoscere in Nel 46! alcune tematiche care al Pasolini drammaturgo come quella della metamorfosi e del sogno. Per quanto riguarda la prima, tutti i numerosi personaggi che si susseguono nel dramma altro non sono che le metamorfosi della coscienza e del desiderio erotico (nella quale sfera rientra anche la figura materna, caricata di interpretazioni psicoanalitiche) di Giovanni, due forze che sembrano contrapporsi (anche qui ancora una volta torna il rapporto dicotomico tra due elementi senza possibilità di sintesi, come già notato in Vivo e Coscienza).

   Il sogno invece, elemento da sempre presente negli studi pasoliniani e che approfondirà ancor di più nelle tragedie del 1966, è sempre un sogno rivelatore, che svela la vera realtà dell’io ma in questo caso non sembra rompere veramente gli equilibri, poiché nell’ultima scena vediamo come Giovanni, destato dal sogno, si alzi di scatto e si faccia velocemente il segno della croce, gesto che lo riporta in qualche modo nei canoni repressivi del Cattolicesimo imperante. E’ la religione infatti ad esprimere la Norma, ma Dio non arriva neanche nel giorno del Giudizio Universale e sarà il Cardinale Ruffo, che incarna la coscienza repressiva, a prendere le sue veci. Nonostante il testo, costellato anche da lunghe battute in latino, non sia di semplice comprensione, si fa sempre più forte la volontà dell’autore di dare voce al suo grido di denuncia attraverso la parola teatrale: il palcoscenico si conferma una volta per tutte il luogo ideale per rappresentare «la denuncia dell’eresia e della diversità in chiave politica/soggettiva, secondo una necessità intrinseca che arriva al suo culmine nel martirio conclusivo del protagonista, perseguitato perché scandalosamente attratto da chi non dovrebbe amare».(23)
   E’ difficile collocare con precisione un’opera come Nel 46! perché effettivamente accompagna tutto il percorso che Pasolini compie partendo da Casarsa, dal teatro della polis e dell’io, fino ad arrivare a Roma, alla scoperta dei nuovi teatri, di Brecht, all’incontro con Laura Betti, alla presa di coscienza della sua omosessualità, passando per la morte del padre e dando il via a quel filone lucidamente disperato che porterà al concepimento delle pellicole degli anni Settanta, fino ad arrivare a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Nonostante il tentativo di rinnovare il testo ad un linguaggio e ad una struttura più contemporanea, inserendo elementi onirici e visionari, Pasolini riconosce di sottoporre agli spettatori un’opera sì contemporanea ma non sufficientemente riattualizzata perché gli anni passati hanno effettivamente scavato un solco profondo tra quel testo abbozzato e concepito a Casarsa e il pensiero attuale di Pasolini.
Nel programma di sala, sotto una sua foto, Pier Paolo definiva il testo una «spacconata massiccia» e chiedeva «al lettore mal disposto di non approfittare di un fianco scoperto diciannove anni fa».(24)

Note:

1 E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 215. 
2 Ivi, p. 223. 
3 L. Betti, Introduzione in Id. (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, cit., p. V. 
4 P.P.Pasolini, Teatro, cit., p. 143. 
5 Cfr. Pasolini e il teatro, in «Il Caffè», settembre, 1957 citata in S. Casi, I teatri di Pasolini, cit, p. 65: «P.P. Pasolini ha terminato una commedia –monologo in un atto, Il pesciolino, che ha assegnato alla compagnia dei Satiri. Il giovane scrittore friulano sta inoltre scrivendo un’altra commedia in tre atti, che ha per protagonista un prete innamorato di una ragazza, il cui titolo sarà Storia interiore o Venti secoli di storia». 
6 Anche questo testo verrà pubblicato postumo in occasione della messa in scena di Pilade e Calderón, entrambi diretti da Luca Ronconi al Teatro Stabile di Torino (1993).  
7 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 91.
8 Per  completare il quadro di riferimenti classici e l’influenza che essi hanno avuto anche nei primi anni Sessanta nella parabola artistica Pasoliniani, ricordiamo le traduzione che Pasolini fece di due importanti opere della cultura greca e latina su esplicita richiesta di Vittorio Gassman che voleva metterle in scena con il Teatro Popolare Italiano: l’Orestiade (1959) di Eschilo, e il Miles Gloriosus (1961) di Plauto. La prima fu una traduzione non fedele, né tantomeno filologica, ma fu portata a termine e rappresentata, mentre la seconda, tradotta in Koinè romanesca, non fu poi rappresentata dalla compagnia di Gassman, probabilmente proprio per le difficoltà incontrate dagli attori nel recitare in dialetto. Per vedere lo spettacolo con il testo tradotto da Pasolini, bisognerà aspettare altri due anni, quando La Compagnia dei Quattro lo rappresenterà al teatro “La Pergola” di Firenze, interpretato da Glauco Mari e diretto da Franco Enriquez. 
9 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 148. 
10 Ibidem. 
11 Ivi, p. 149.
12 Ivi, p. 151. 
13 Ibidem 
14 Cfr. Ivi, p. 1133.
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 112. 
16 Potentissima Signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti, Milano, Longanesi, 1995.
17 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 158.
18 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., P. 114.
19 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p.167. 
20 Ivi., p. 231. 
21 Cfr. W. Siti e S. De Laude (a cura di), Note e notizie sui testi, in P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1139-1145. 
22 Calvino scrive in una lettera a Pasolini, il suo commento (negativo) dopo aver letto Storia interiore: «Caro Pier Paolo, mi è capitato tra le mani il manoscritto di Storia interiore e l’ho letto. Ma cosa ti succede? Ritira  immediatamente tutte le copie del manoscritto che sono in giro e fa’ in modo che chi lo ha letto non ne parli. Come mi impegno a fare io. Da amico». In P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, vol. II, Torino, Einaudi, 1988, p. 489.
23 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 128. 
24 Cfr. P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1144. 


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Pasolini - Il Vangelo secondo Matteo 1964 - di Angela Molteni e Massimiliano Valente

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"ERETICO & CORSARO"



Il Vangelo secondo Matteo 1964
 di Angela Molteni Massimiliano Valente


Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini

Fotografia Tonino Delli Colli; 
architetto-scenografo Luigi Scaccianoce; 
costumi Danilo Donati; 
musiche a cura di Pier Paolo Pasolini; 
musiche originali Luis Bacalov; 
montaggio Nino Baragli; 
aiuto alla regia Maurizio Lucidi; 
assistenti alla regia Paul Schneider, Elsa Morante.

Interpreti e personaggi: 
Enrique Irazoqui (Gesù Cristo, doppiato da Enrico Maria Salerno); 
Margherita Caruso (Maria Giovane); 
Susanna Pasolini (Maria Anziana); 
Marcello Morante (Giu­seppe); 
Mario Socrate (Giovanni Battista); 
Rodolfo Wilcock (Caifa); 
Alessandro Clerici (Ponzio Pilato); 
Paola Tedesco (Salomè); 
Rossana Di Rocco (angelo del Signore); 
Renato Terra (un fariseo); 
Eliseo Boschi (Giuseppe D’Arimatea); 
Natalia Ginzburg (Maria di Betania); 
Ninetto Davoli (pastore); 
Amerigo Bevilacqua (Erode I); 
Francesco Leonetti (Erode II); 
Franca Cupane (Erodiade); 
Apostoli Settimio Di Porto (Pietro); 
Otello Sestili (Giuda); 
Enzo Siciliano (Simone); 
Giorgio Agamhen (Filippo); 
Ferruccio Nuzzo (Matteo); 
Giacomo Morante (Giovanni); 
Alfonso Gatto (Andrea); 
Guido Gerre­tani (Bartolomeo); 
Rosario Miga­le (Tommaso); 
Luigi Barbini (Giacomo di Zebedeo); 
Marcello Galdini (Giacomo di Anfeo); 
Elio Spaziani (Taddeo).

Produzione Arco Film (Roma) / Lux Compagnie Cinématographique de France (Parigi); 
produttore Alfredo Bini; 
pellicola Ferrania P 30; 
formato35 mm b/n; 
macchine da ripresa Arriflex; 
sviluppo e stampa, effetti ottici SPES; 
registrazione sonora Nevada; 
doppiaggio CDC; 
missaggio Fausto Ancillai; 
distribuzione Titanus

Riprese aprile-luglio 1964; teatri di posa Roma, Incir De Paolis; 
esterni Orte, Montecavo, Tivoli, Potenza, Matera, Barile, Ba­ri, Gioia del Colle, Massafra, Catanzaro, Crotone, Valle dell’Etna; 
durata 137 minuti.

Prima proiezione XXV mostra di Venezia, 4 settembre 1964 

Premi:
XXV mostra di Venezia Premio speciale della giu­ria, Premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma), Premio Cìneforum, Premio della Union International de la Critique de Cinema (UNICRIT); Premio Lega Cattolica per il Cinema e la Televisione della RFT; Premio Città di Imola Grifone d’oro; Gran pre­mio OCIC, Assisi, 27 settembre 1964; Prix d’excellence, IV concorso tecnico del film, Milano; Premio Caravella d’argento, Festival internazionale di Lisbona, 26 febbraio 1965; Premio Nastro d’Argento 1965 per la regia, la fotografia e i costumi.




Il film segue passo passo la narrazione evangelica. Ne risulta quindi una fedele ricostruzione della vita e degli insegnamenti di Cristo, dall’annunciazione di Maria alla nascita in una baracca che ricorda singolarmente le periferie di Accattone e di Mamma Roma (Cristo come sottoproletario ante litteram?), alla morte e resurrezione.

Dice Pasolini del suo Vangelo: 

“Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile”.

L’idea pasoliniana del Vangelo, cioè, non partiva dalla volontà di mettere in discussione dogmatismi o miti, ma si riferiva anche e in primo luogo all’idea della morte, uno dei temi fondamentali dell’impegno intellettuale del Poeta: 

“È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità”.

Non casualmente – come già nelle opere cinematografiche precedenti – Pasolini affida a un linguaggio sonoro raffinato tutte le vicende più significative narrate nel film. Per una sensibilità quale quella del Poeta, il ricorso alla bachiana Passione secondo Matteo è quasi d’obbligo. Ma, in particolare, alla morte di Gesù, egli associa la Musica funebre massonica, che è a sua volta una delle più alte creazioni di Mozart, che in essa ha anche espresso la propria immagine della morte: nessuna titanica lotta contro il destino ineluttabile. La morte non lo spaventa: Mozart la chiama perfino “cara amica”; nella musica stessa si percepisce il dolore per la separazione, a cui Mozart si dà, senza tuttavia lasciarsene sopraffare.

Vi è un solo momento della lunga sequenza della crocefissione e della morte in cui il racconto non è affidato al solo indivisibile binomio “immagini-musica”: è quello in cui Cristo pronuncia queste ultime parole: 

“Voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie”.

Per rimanere ancora un momento nell’ambito delle scelte musicali effettuate da Pasolini nel Vangelo: ho trovato straordinario l’accostamento delle ultime immagini del film (Maria – che è qui, non casualmente, la stessa madre di Pasolini – si reca con altri alla tomba del Figlio; il sepolcro si apre e Cristo non è più avvolto nel sudario: è risorto!) al Gloria di una messa cantata congolese. Nel canto, il testo è in latino e la musica ha tutti gli accenti, gli strumenti e i ritmi del folclore africano, quasi a sottolineare l’universalità di un profondo sentimento religioso.

Il Vangelo cui Pasolini si richiama è quello di Matteo, dal quale emerge una figura umana, più che divina, di Cristo che, anche se ha molti tratti di dolcezza e mitezza, reagisce con rabbia all’ipocrisia e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei “sepolcri imbiancati”, che l’hanno adottata con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale.

È un Cristo che non è venuto a “portare la pace ma la spada”, perché sia possibile accedere al regno di Dio con cuore puro “come quello dei bambini”.

È, anche, un Cristo rivoluzionario. Nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964, Pasolini dichiarò: 

“[...] mi sembra un’idea un po’ strana della Rivoluzione questa, per cui la Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un’idea almeno anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente ‘porgi al nemico l’altra guancia’ era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l’hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere accepito come Rivoluzionario [...]”.

In effetti, per quel momento storico (e, per alcuni versi, anche per il momento storico nel quale Pasolini stesso si collocava) non sono da considerarsi rivoluzionarie predicazioni nelle quali si dichiara: “fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi”, “non accumulate tesori su questa terra”, “nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro”?

Quando fu presentato, nel 1964, il film fu ampiamente apprezzato (e premiato) dalla critica cattolica, quanto duramente contestato dalla sinistra. A coloro che lo avversavano Pasolini rispose: 

“[...] io ho potuto fare il Vangelo così come l’ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo)”

Angela Molteni, maggio 1997




Pasolini lesse il Vangelo, per sua stessa ammissione, per la prima volta nel 1942, e la seconda ad Assisi nel 1962. In quest'ultima occasione Pasolini ebbe l'idea di un film sul Vangelo. La scelta di San Matteo non e' casuale; Pasolini ritiene la versione dell'apostolo Matteo quella che piu' d'ogni altro risalta l'umanita' del Cristo, il suo essere uomo tra gli uomini. Pasolini non e' un cattolico, "non sono nemmeno cresimato" dira' rispondendo alle critiche provenienti da ambienti marxisti per ribadire il suo ateismo, e proprio questo suo distacco, questa mancanza di "resistenze interne" lo convincera' a terminare questo ambizioso e rischioso progetto. Pasolini era stato condannato, un anno prima, a quattro mesi di reclusione per vilipendio alla religione dello Stato per l'episodio "La ricotta" del film RoGoPaG. Dira' Alfredo Bini, produttore del film:

"Banche, ministero, distributori mi dicevano che ero matto a voler fare un film commerciale tratto dal Vangelo, e per di piu' diretto da Pasolini, appena condannato a quattro mesi per vilipendio alla religione. Ora tutti dicono che sei religioso. Strano. Quando hai fatto "La ricotta" e "Il Vangelo" non se n'era accorto nessuno. Nemmeno quando organizzai la proiezione del film per i padri conciliari: avevamo avuto il permesso per avere l'Auditorium di via della Conciliazione, ma la mattina alle 10 tutti quei cardinali, bianchi, gialli, neri, con i loro berrettini e i mantelli rossi si accalcavano davanti alla porta sbarrata su cui c'era scritto "lavori in corso". Una bella idea dettata dalla paura notturna. Ma la proiezione l'abbiamo fatta lo stesso. Mille cardinali portati con trenta taxi che facevano la spola tra S. Pietro e piazza Cavour, al cinema Ariston. Venti minuti esatti di applausi hanno fatto, quando e' apparsa la dedica a Giovanni XXIII. A Parigi, la proiezione dentro la cattedrale di Notre Dame, andata ancora meglio: niente lavori improvvisi."

Alfredo Bini da l'Europeo, 28 novembre 1975



Il film vince il gran prix 1964 dell'Office Catholique international du cinema. Pasolini collabora, per la stesura della sceneggiatura, con la Pro Civitate Christiana. E' un'occasione, questa, per saldare dei rapporti di reciproca stima con gli ambienti cattolici meno conservatori e piu' aperti al dialogo. La critica di sinistra risponde freddamente all'uscita del Vangelo: l'Untia' si esprime in questi termini:

"...il nostro cineasta ha soltanto composto il piu' bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il piu' sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto".

Pasolini risponde alle critiche, spesso preconcette, esaltando la comune avversione del cattolicesimo e del comunismo contro il materialismo borghese, unico vero nemico di Cristo. Pasolini intravede, paradossalmente, nell'ateismo di un comunista una certa religiosita' in quanto "si possono sempre ritrovare quei momenti di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volonta' conoscitiva, di fede - che sono elementi, sia pur disgregati, di religione" (P.P. Pasolini - Le belle bandiere - pag. 259 - Editori Riuniti). La critica del tempo non sembra comunque cogliere il senso del film e, come spesso accade, coglie l'occasione per polemizzare su e contro Pasolini:

Il tempo:

"Il regista ha sottolineato alcuni episodi della vita di Gesu' che sembrano contenere semi piu' rivoluzionari..."

Il Corriere della sera:

"combattuto tra ideologia e sentimento Pasolini ha tentato di recuperare al suo laicismo i caratteri della religiosita', ma poiche' l'operazione ha un accento volontaristico, gli e' sfuggito quel carattere precipuo che e' il senso del mistero."

La notte:

"un ottimo film, piu' cattolico che marxista"

L'osservatore romano:

"fedele al racconto non all'ispirazione del Vangelo"

Il film non e' una ricostruzione storica fedele, ma una traspozione cinematografica della visione di Matteo, ossia del modo in cui ha inteso la vita di Cristo, non attraverso una disamina storicistica o storica, ma solo mitica. Non vi e' nel film una ricostruzione storica, ma, come lo stesso Pasolini definisce:

"una specie di ricostruzioni per analogie. Cioe' ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma e' presieduto alla mia operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione".

P. P. Pasolini 
Quaderni di Filmcritica, con Pier Paolo Pasolini, 
Bulzoni editore 1977, pag 65

Non e', quindi, un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non vuole essere una ricerca illustrativa ma vuole dare il senso della poesia che c'e' nel Vangelo:

"La mia idea e' questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perche' nessuna immagine o nessuna parola inserita potra' mai essere all'altezza poetica del testo. E' quest'altezza poetica che cosi' ansiosamente mi ispira. Ed e' un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, ne' un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perche' non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioe' che in lui l'umanita' sia cosi' alta, rigorosa, ideale da andare al di la' dei comuni termini dell'umanita'. Per questo dico "poesia": strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irraizonale per Cristo".

P.P. Pasolini, 
Sette poesie e due lettere,
 a cura di Rienzo Colla, 
La Locusta, 1985 pag. 52

Pasolini, da non cattolico, e seguendo fedelmente il racconto di Matteo e' riuscito a raccontare il Vangelo proprio grazie al suo distacco, proprio per la sua mancanza di inibizioni di un cattolico praticante, e di "cattolico incoscio", cioe' colui che, grazie al marxismo, ha superato la sua "condizione conformistica" di cattolico, ma e' intimorito dal potervi ricadere. Pasolini, quindi, si sente libero da qualsiasi schematismo, ed e' questa la ragione che lo porta a raccontare la vita del Cristo.

Il Vangelo e' anche il risultato di una crisi personale di Pasolini e, piu' in generale, di una crisi della cultura italiana. Dice Pasolini:

"...Tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni cinquanta, non solo in me ma in tutta la letteratura, e' in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incertezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c'e' aria di crisi dappertutto e evidentemente c'era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, pero', in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza la Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. (.....) Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo".

P.P. Pasolini
Quaderni di filmcritica con Pier Paolo Pasolini
Bulzoni 1977 - pag. 67

Il film e' girato in Lucania (un paesaggio analogo alla Palestina in cui visse Cristo) con un cast di attori rigorosamente non professionisti. La parte di Gesu' Cristo e' concessa a Enrique Irazoqui, che si trova per caso sul set del film il giorno prima dell'inzio delle riprese. La voce di Gesu' Cristo e' di Enrico Maria Salerno. Nel cast del film sono presenti, tra gli altri: Enzo Siciliano, nella parte di Simone e Natalia Ginzuburg nella parte di Maria di Betania.

Come detto sopra, Pasolini si e' riferisto rigorosamente alla versione di Matteo, ma in alcuni punti del film e' possibile intravedere alcuni riferimenti all'attualita': i soldati di Erode vestiti da fascisti e i soldati romani vesti da celerini. Sono comunque dei piccoli riferimenti che, in una visione unitaria del film, non distolgono lo spettatore dal racconto della vita del Cristo.

Le musiche sono di Bach, Mozart, Prokofiev e Webern. Le musiche origanali di Luis E. Bacalov.

Massimiliano Valente


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Lettera di Pier Paolo Pasolini al Dott. Lucio S. Caruso della Pro Civitate Christiana

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Lettera di Pier Paolo Pasolini 
al Dott. Lucio S. Caruso 
della Pro Civitate Christiana 


Caro Caruso,

vorrei spiegarle meglio per scritto, quello che le ho confusamente confidato a voce. La prima volta che sono venuto da voi a Assisi, mi sono trovato accanto al capezzale il Vangelo: vostro delizioso-diabolico calcolo! E infatti tutto è andato come doveva andare: l’ho riletto - dopo circa vent’anni (era il quaranta, il quarantuno, quando, ragazzo, l’ho letto per la prima volta: e ne è nato L’Usignolo della Chiesa Cattolica, - poi l’ho letto soltanto saltuariamente, un passo in qua, un passo là, come succede…).

Da voi, quel giorno, l’ho letto tutto di seguito, come un romanzo. E, nell’esaltazione della lettura - lei lo sa, è la più esaltante che si possa fare! - mi è venuta, tra l’altro, l’idea di farne un film. Un’idea che da principio mi è sembrata utopistica e sterile, “esaltata”, appunto. E invece no. Col passare dei giorni e poi delle settimane, questa idea si è fatta sempre più prepotente e esclusiva: ha cacciato nell’ombra tutte le altre idee di lavoro che avevo nella testa, le ha debilitate, devitalizzate. Ed è rimasta solo lei, viva e rigogliosa in mezzo a me.

Solo dopo due o tre mesi, quando ormai l’avevo elaborata - e mi era diventata del tutto familiare - l’ho confidata al mio produttore: ed egli ha accettato di fare questo film così difficile e rischioso, per me - e per lui. 
Ora, ho bisogno dell’aiuto vostro: di Don Giovanni, Suo, dei suoi colleghi. Un appoggio tecnico, filologico, ma anche un appoggio ideale. Le chiederei insomma (e, attraverso lei, con cui ho maggiore confidenza, alla “Pro Civitate Christiana”) di aiutarmi nel lavoro di preparazione del film, prima, e poi di assistermi durante la regia. 

La mia idea è questa: seguire punto per punto il “Vangelo secondo San Matteo”, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. È questa altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. 

In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente - almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico “poesia”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.

Vorrei che il mio film potesse essere proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d’Italia e del mondo. Ecco perché ho bisogno della vostra assistenza e del vostro appoggio. Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello - sia pure irraggiungibile - per tutti. 

Spero tanto che abbiate fiducia in me. 
Le stringo la mano, affettuosamente, 
suo Pier Paolo Pasolini.

Fonte:
http://www.sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/cultura/lettera-di-pier-paolo-pasolini-al-dott-lucio-s-caruso-della-pro-civitate-christiana-31250#.WInludozUdU


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ANCHE ROMA HA UNA MAMMA - DI ALBERTO MORAVIA - 'L'ESPRESSO', 1973

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"ERETICO & CORSARO"



ANCHE ROMA HA UNA MAMMA 
DI ALBERTO MORAVIA
 'L'ESPRESSO', 1973

Alberto Moravia, in occasione della morte di Anna Magnani ( 26 settembre 1973), scrisse questo articolo su 
l'Espresso numero 40, dell'ottobre 1973
oggi in 
Alberto Moravia, Cinema italiano, Recensioni e interventi 1933-1990" a cura di Alberto Pezzotta e Anna Girardelli. 





In genere non si crea il culto della personalità se prima di tutto non si è, nell’intimo, dediti a questo culto.  Si pensi, per esempio a D’Annunzio: la sua popolarità, come figura pubblica, derivava prima di tutto dal suo eccezionale narcisismo. Anna Magnani, invece, era quel raro personaggio che è un narcisista amaro, scontento, insicuro, profondamente diffidente della propria popolarità anche se incapace d’approfondire e rimuovere i motivi di questa sua diffidenza.

Ricordo una serata, diciamo così, tipica con Anna Magnani e Pier Paolo Pasolini, ai tempi relativamente recenti di Mamma Roma. Le proponemmo di scegliere fra un ristorante qualsiasi e un noto locale cosiddetto caratteristico, decorato nello stile della Roma rustica e papalina con selle e finimenti di cavalli, carri da vino con il soffietto dipinto, spiedi di ferro, pentole e teglie di rame, tavoloni e sgabelloni di quercia, botti, barili e bicchieri col fondo grosso, dove, sicuramente, il suo mito personale avrebbe trovato una collocazione immediata.

Scelse subito, sia pure con scettica e sarcastica accondiscendenza, il locale caratteristico. E una volta seduta in un tavolo un po’ appartato nella piazzetta trasteverina gremita di turisti americani, ebbe un primo movimento di delusione vedendo che il suo arrivo non aveva provocato la consueta curiosità. Ma questa distrazione durò poco.

Erano appena passati cinque minuti che tre o quattro fotografi già stavano inginocchiati intorno a noi cercando di riprendere “Nannarella” a cui il chitarrista lusinghiero e familiare, un piede sul piolo della seggiola, la chitarra sulle ginocchia, andava propinando nell’orecchio il suo canto sommesso e commosso.

Intanto da tutti i tavoli gli avventori stranieri avvertiti da accompagnatori e
ciceroni si voltavano per guardarla; e dalla frangia di donnette e ragazzini che se ne stavano intorno in piedi a godersi la musica, si erano levati applausi e invocazioni.

Guardai in quel momento Anna Magnani e vidi che, chiaramente, essa non partecipava che a metà a questa specie di improvvisata rappresentazione. Certo i suoi occhi magnetici brillavano di eccitazione non finta; certo la celebre risata crudele e aggressiva si accendeva con perfetta naturalezza sul viso un po’ stanco e macerato, ma al tempo stesso c’era in lei qualcosa di amaro, di malsicuro e di deluso.

Era, sì, l’attrice celebre, il personaggio rappresentativo; ma insieme, nel fondo contraddittorio della sua strana e orgogliosa umiltà, forse dubitava di esserlo davvero oppure avrebbe voluto esserlo in un altro modo. Il suo narcisismo scontento e diffidente le faceva forse subodorare nella sua popolarità qualche cosa di inautentico, un po’ analogo alla decorazione del ristorante in qui in quel momento si trovava. Ma probabilmente si rendeva pure conto che ogni popolarità è fondata su un malinteso; e che la sua, almeno, poteva contare su una originaria carta di nobiltà verace e indiscutibile.

D’altra parte, alla sua rassegnata e scettica partecipazione doveva anche
contribuire la riflessione che per un’attrice come lei, che aveva dovuto il successo proprio al fatto di aver abolito il confine tra la vita e l’arte, tra la persona e il personaggio, tra la passione e l’espressione, era impossibile fare certe sdegnose e schive distinzioni.
 Essa doveva accettare di essere, così sullo schermo come fuori dallo schermo, una presenza fatta di impetuosa vitalità esistenziale, la quale, via via, poteva, come non poteva, coagularsi in una forma riconoscibile.

Ma come si fa a sapere quando la vitalità riesce a trovare la forma che le conviene e quando invece si limita ad esplodere? Affidata al solo istinto, Anna Magnani probabilmente non era mai del tutto sicura di aver creato un vero personaggio; o invece di essere rimasta al di qua dell’interpretazione, nell’imitazione di se stessa.

Ho cercato di illuminare il difficile e oscuro rapporto nella vita e nell’animo di Anna Magnani tra la figura pubblica e l’interprete. Ora però vorrei aggiungere che questa attrice arrivata così tardi alla maturità artistica e al successo, dopo una lunga anticamera nell’avanspettacolo e nel cinema di consumo, questa donna disadattata, affettuosa, incolta e nevrotica, seppe fare qualche cosa che accade molto di rado nel mondo casuale e improvvisato del nostro cinema: intersecare la propria meteorica traiettoria con l’orbita misteriosa e controversa della cometa chiamata Storia.

A ben guardare fuori di metafora, la carriera di interprete di Anna Magnani è legata quasi esclusivamente alla regia di Roberto Rossellini e soprattutto al film Roma Città Aperta. Bellissima di Visconti, pur avendole ispirato una delle sue migliori interpretazioni, è un’altra cosa; e così pure i film girati da Lattuada, Zampa, Camerini, per tacere dei film del periodo americano e delle molte altre prestazioni addirittura di consumo.

Perchè Roma Città Aperta e Roberto Rossellini sono stati così importanti per
Anna Magnani? Perchè, come ho già detto, in quel film Anna Magnani si è trovata con la sua vitalità viscerale, il suo slancio esistenziale, la sua disponibilità passionale nel centro di due esperienze nitide e precise, perfettamente a fuoco sia in senso storico che in senso estetico: la Liberazione e il neorealismo.

Qualcuno penserà che io intendo dire che Anna Magnani si “impegnò” allora sia come artista che come persona. Certo il termine di impegno risolverebbe il problema; ma sarebbe una risoluzione un po’ affrettata e convenzionale. Diciamo piuttosto che Anna Magnani negli anni del dopoguerra seppe ricevere più di quanto non diede. All’apertura generosa, alla ricettività ingenua di quel breve periodo essa dovette di aver potuto in seguito dare tutto quello che ha dato.

Alberto Moravia
L’Espresso, n. 40, 7 ottobre 1973




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Pier Paolo Pasolini, da "L’aigle",“L’uomo bianco o Totò al circo” (1965-1966) - Uccellacci e uccellini

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Pier Paolo Pasolini
da "L’aigle",“L’uomo bianco o Totò al circo” (1965-1966)

Uccellacci e uccellini



 " L'aigle " doveva essere l'ultimo episodio di " Uccellacci e uccellini " denominato anche " Totò al circo ". 
Le sequenze mostrano un domatore francese, monsieur Courneau (Totò), nel tentativo di addomesticare un'aquila. Ovviamente è un tentativo inutile al punto che lo stesso monsieur Courneau (Totò), alla fine, sarà lui a trasformarsi in un uccello.


[…]
18 ARENA DEL “GRAND CIRQUE”



Interno. Giorno.

L’aquila è sul suo trampolo in mezzo all’arena del “Grand Cirque de France”. Le scalinate intorno sono vuote, ma l’arena è piena di tutto ciò di cui il circo è fiero: bestie e pagliacci. Ogni bestia e ogni pagliaccio nella sua gabbia. M. Courneau guarda l’aquila, conciliante e sereno.

M. COURNEAU – Ecco, questi sono i tuoi fratelli!

Descrizioni rapide di bestie e di pagliacci dentro le loro gabbie.

M. COURNEAU– Voglio dimostrarti come essi abbiano accettato di entrare in rapporto con l’uomo bianco civile, e come esso ha costituito per essi l’unico possibile modello di vita, voilà!

Si avvicina a una gabbia, dove in un cartello è scritto COCCODRILLO DEL CONGO.

M. COURNEAU– (all’aquila) Ti prego di prestare attenzione. (al coccodrillo del Congo) Monsieur le Crocodile du Congo. (parla in francese)

Didascalia: Qual è il più grande desiderio della vostra vita?

COCCODRILLO DEL CONGO– (parla in francese)

Didascalia: Ma naturalmente, studiare a Bruxelles e ottenere il baccalaureato!

M. COURNEAU– (all’aquila, intenzionale) Il baccalaureato, hai capito?

M. Courneau si avvicina ora alla gabbia con dentro una scimmia, col cartello SCIMPANZÈ DEL RUANDA.

M. COURNEAU– Monsieur le Chimpansé du Ruanda. (parla in francese)

Didascalia: Qual è la vostra speranza?

SCIMPANZÈ DEL RUANDA– (parla in francese)

Didascalia: Andare a lavorare in una miniera a Lille, guadagnare dei soldi e aprire una sala di “coiffeur”.

Cartello: PITONE DELLE AMAZZONI.

M. COURNEAU– Et vous, Monsieur le Python?

PITONE – (parla in francese)

Didascalia: Oh, io! Andare a Parigi, nella bottega di un grande sarto, Christian Dior, Courrèges…

Cartello: JENA DEL SAHARA.

M. COURNEAU– Et vous, Madame la Hyène du Sahara?

JENA – (parla in francese)

Didascalia: Andare a Roma, e fare del giornalismo!

Cartello: LEONE D’ALGERIA… Ma il leone non c’è: la gabbia è vuota. M. Courneau ha compiuto distrattamente una gaffe.

M. COURNEAU– Ehm… ehm…

Cartello : CAMMELLO DEL GHANA.

M. COURNEAU– Et vous, monsieur le Chameau du Ghana?

CAMMELLO– (parla in francese)

Didascalia: Conoscere tutta la grande cultura europea, da Marx a Lévi-Strauss, e andare a insegnarla nella capitale del mio paese!

Cartello: PAGLIACCIO MEDITERRANEO.

M. COURNEAU– Et vous, s’il vous plaît, Monsieur le Pantin Méditerranéen?

PAGLIACCIO MEDITERRANEO – (parla in francese)

Didascalia: Ballare la Pirimpella-pirimpà, la nostra danza nazionale, davanti alla Regina d’Inghilterra!

M. Courneau si avvicina pieno di malcelata speranza all’aquila, e parla, controllandosi, con calma, con terribile calma:

M. COURNEAU– Ecco, naturalmente è chiaro che i tuoi desideri possono anche non essere così modesti. Puoi anche desiderare di venire a Parigi, a Londra, a Roma a studiare filosofia o matematiche: ma accetta il nostro mondo anche per rifiutarlo! Di’ una parola! Parla!

E l’aquila zitta.

M. COURNEAU– Parla!

E l’aquila zitta.

M. COURNEAU – (urlando come un pazzo) Parla!

E l’aquila zitta. M. Courneau è allora preso da una crisi che, evidentemente, lo trascina fuori di sé fino a renderlo momentaneamente incapace di intendere e di volere.

M. COURNEAU – Aveva ragione Hitler! Aveva ragione Hitler! Come lui bisognava fare! Con voi, razze inferiori, partigiani, zingari, pederasti, mistici! I campi di concentramento, le camere a gas, ecco quello che vi ci vuole! L’OAS, l’OAS aveva ragione! Le torture, per farvi parlare! L’OAS, l’OAS! Bisognava strapparvi le unghie, bruciarvi i testicoli con le scariche elettriche, bestie! L’OAS, l’OAS!

E urlando selvaggiamente queste parole, cade a terra, svenuto, forse colpito da infarto, smaniando, lamentandosi, rantolando. Monique lo raccoglie tra le braccia, guardando ora con disperazione lui, ora con rabbia da Medea l’aquila. Che tace. Anche Ninetto si butta sul corpo selvaggiamente sussultante del suo principale, e gli fa aria, gli da schiaffetti, impressionato e un po’ commosso. Infine, trascinato da un irresistibile moto di sentimenti, rivolto all’aquila, da uomo a uomo:

NINETTO– E ‘namo, e daje! Essi brava, fa’ ‘sto sforzo! Che, lo voi fa morì, ‘sto poraccio? Ma non te fa pena? Ammazzete, quanto sei!

E si richina sul suo principale fuori di sé. Ma ecco che, stridente e potente, si alza fuori campo una voce.

VOCE DELL’AQUILA– Volete proprio sapere quello che faccio?

I tre, fulminati, si voltano verso di lei. M. Courneau si rialza a sedere guardandola come si guarda una divinità.

L’AQUILA– Prego!

Dissolvenza.




19 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

L’aquila, di nuovo muta. Eppure in qualche modo, per aver parlato, meno inattaccabile. Il suo occhio ha qualcosa di umano. M. Courneau – con accanto Ninetto e forse Monique – è davanti a lei. Ma in lui c’è qualcosa di cambiato. Intanto non è più sontuosamente vestito da domatore: ma è vestito umilmente di scuro, con un colletto bianco aperto, il che gli toglie ufficialità, e gli dà un’aria raccolta – la stessa di certi preti “moderni”.

M. COURNEAU– Ho capito, tra il mondo della civiltà occidentale e il tuo mondo… il Terzo Mondo… c’è di mezzo la religione… Che io non posso concepire, ma devo farlo… E forse… forse… forse… forse… forse… forse…

E’ seduto, e ha in mano un libro. Si trova nel momento di raccoglimento che assume chi sta per leggere qualcosa di importante: e poi, come certi attori, a testa e occhi bassi, e a voce spenta, dice l’autore e il titolo di ciò che sta per leggere: Pascal, Pensées.

M. COURNEAU– (testo di Pascal)

Letta la prima frase, egli dà un’occhiata all’aquila, piena di speranza. L’aquila è là muta (ma misteriosamente meno disumana): e Ninetto, lui, si è già addormentato.

M. COURNEAU– (va avanti col testo di Pascal)

Un’altra occhiata all’aquila. Ninetto che russa.

M. COURNEAU– (legge una terza frase di Pascal)

Mentre legge, da lontano lontano comincia a echeggiare un dolce e profondo commento musicale […] Prime note sommesse – poi sempre più forti – di un brano della Passione secondo San Giovanni. M. Courneau continua a leggere, ma i suoi occhi vedono…




20 MONTI DELL’AQUILA

Esterno. Giorno.

Una immagine o due, fugaci, quasi inafferrabili, di solitudini desertiche, montane. Motivo della Passione secondo San Giovanni, che subito dilegua.




21 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

Svanita subito la visione delle solitudini, dei regni dell’aquila, M. Courneau è lì che continua a leggere.

M. COURNEAU– (continua la lettura di Pascal)

Ninetto dorme pacifico, sbragato su una sedia. Anche l’aquila ripone il capo sotto l’ala.

Dissolvenza.



22 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

L’aquila. M. Courneau davanti a lei, con un altro libro in mano. Egli si rivolge alla bestia come intimidito, come con la paura trepidante di sbagliare con lei ancora un volta.

M. COURNEAU– Ho pensato… ho pensato… che il testo di Pascal forse era troppo specialistico… (vergognandosi) un po’ noioso… vecchio… Ho qui un’altra cosa… (esibisce timidamente il nuovo libro) non è un testo religioso vero e proprio… è poesia… e perciò a suo modo religiosa… (legge il titolo del libro) Rimbaud, Une saison en enfer.

Ninetto piomba addormentato sulla sedia, e si abbandona a un dolce sonno.

M. COURNEAU– (legge versi di Rimbaud)

E sbircia l’aquila assonnata

M. COURNEAU– (legge versi di Rimbaud)

Come il giorno prima, la musica risorge, remota: e gli occhi di M. Courneau vedono…


23 MONTI DELL’AQUILA

Esterno. Giorno.

Nuove immagini di solitudini deserte e eccelse. Ma stavolta indugiano un po’ a lungo, prima di scomparire. E c’è un movimento verso di esse, come un movimento di volo… Lieve risuona il motivo della Passione secondo San Giovanni. Poi, nell’atto di essere attinte dal volo, le solitudini dei regni dell’aquila, scompaiono.




24 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

M. Courneau, sparita la visione, continua a leggere un attimo, poi… rialza gli occhi verso l’aquila e, come se fosse per la prima volta, la guarda. L’aquila. Ninetto, che mangia dei bruscolini. M. Courneau che “osserva” l’aquila, come rapito, come preso da una morsa interiore, da un inizio di trance. Si scuote e ricomincia a leggere…

M. COURNEAU – (legge alcune parole di Rimbaud)

Ma si interrompe subito: e ricomincia a osservare, a studiare l’aquila, con tanta attenzione che, meccanicamente, assume la sua posizione, si potrebbe dire la sua espressione. Si riscuote ancora una volta, ricomincia a leggere.

M. COURNEAU– (legge versi di Rimbaud)

Ninetto mastica bruscolini, cullato dai versi incomprensibili. Ma, di nuovo, la voce di Courneau tace. M. Courneau ora è muto, davanti all’aquila, e la osserva attentamente, in uno status di raptus. Ninetto a sua volta guarda a lungo, interrogativo, M. Courneau, che non si muove. Allora Ninetto, un po’ imbarazzato, allunga verso M. Courneau il pacchetto dei bruscolini.

NINETTO– Che, volete du’ bruscolini, messiè Courneau?

Dissolvenza.




25 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

Questa volta M. Courneau è ancora più rassegnato e intimidito. Agisce quasi in uno stato meccanico di inerzia e di dissociazione. Parla all’aquila (che è sempre là, di nuovo ineluttabilmente muta) con voce monotona e quasi spenta.

M. COURNEAU– Ho pensato… che un testo religioso più attuale… di carattere insieme ufficiale e autentico…

Ninetto piomba addormentato.

M. COURNEAU– Insomma, ti interesserebbe di più… (legge il titolo) Pacem in terris.

Ninetto dorme saporitamente, mentre M. Courneau legge l’enciclica.

M. COURNEAU– (legge le prime parole dell’enciclica)

Ecco le lontane, fioche note della Passione secondo san Giovanni, e gli occhi di M. Courneau vedono…




26 MONTI DELL’AQUILA

Esterno. Giorno.

Questa volta il volo è spiccato. Il punto di vista è da un elicottero che vola tra le montagne, e ora si avventa ora plana, ora scende ora sale senza fine. Musica della Passione secondo san Giovanni. Le immagini “viste da chi sta volando” sono stavolta lunghe e insistenti, come una visione che non si estingua, ma, alimentata dall’ebbrezza, si modifichi senza fine. E deserti pietrosi, nevi, cieli, immensità disabitate, si susseguono davanti agli occhi del volante, assetato di misteriose solitudini, di regni non umani. La musica del passo della Passione secondo san Giovanni ora risuona fortissima, potente, esaltante. Quando, dolcemente, le immagini dei mondi solitari e preumani si stingono, ecco M. Courneau…




27 SACRARIO DEL “GRAND CIRQUE”

Interno. Giorno.

…che guarda l’aquila esaltato. Il libro gli cade di mano: ed egli si mette appollaiato sullo schienale della sedia, nella stessa identica posizione dell’aquila, in una specie di rapita “imitatio aquilae”. Ninetto, anche stavolta, ridestato di soprassalto dal silenzio, apre gli occhi, e si trova davanti a quella insospettata immagine. Un po’ spaventato, un po’ divertito dalla straordinaria situazione, balza in piedi, strillando da svociarsi.

NINETTO – Madame Monique! Madame Monique! Venite a vede che sta a ffà vostro marito!

[…] Sopravviene Monique, che, già da tempo gelida col marito condannato all’insuccesso, ora lo osserva oggettivamente, con distacco. Mentre lei osserva M. Courneau, Ninetto snocciola le sue povere osservazioni, un po’ commosso per lo stato del suo principale, un po’ divertito:

NINETTO – Lo vedete come s’è messo?… Me sa tanto che ce vo’ er dottore… Me pare de coccio, nun se move pe’ niente… Ma che sta a ffà er fachiro? Me mette ‘na paura a me. Che, nun fate niente, voi, nun je dite niente?

Monique che ha capito tutto risponde con una sola parola:

MONIQUE– Merde!

Ma di scatto M. Courneau scende dalla sedia, e come un allucinato corre fuori dal Sacrario. Ninetto, tra pietoso e divertito, lo segue […] Sempre correndo e agitando ogni tanto le braccia come ali, M. Courneau fende la folla della stazione, verso i treni. E Ninetto, sfiatato che non gliela fa più, lo segue fedele […] Il treno accelerato corre lasciandosi indietro Roma, verso i monti. Sul tetto di un vagone, inalterabile, irriducibile, inattingibile, sta appollaiato M. Courneau […] Siamo in mezzo alle solitudini silenziose ed eccelse dei regni dell’aquila. M. Courneau viene correndo, in fondo alla vallata, ai piedi dei monti nevosi […] si ferma, si raccoglie, e agitando le braccia come ali, spicca il volo […].


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ANARCHIA DEL POTERE E MODELLO DI REALTÀ IN SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA DI PASOLINI: CONVERSAZIONE CON FEDERICO SOLLAZZO - di Stefano Pignataro

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ANARCHIA DEL POTERE E MODELLO DI REALTÀ IN SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA DI PASOLINI:  
CONVERSAZIONE CON FEDERICO SOLLAZZO
Stefano Pignataro


A quarant’anni dalla sua realizzazione, il film Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, il suo film testamento, il film che lucidamente descrive un’intera classe sociale ed umana alle prese con il problema ancestrale dell’anarchia del potere e della divisione in tra possessione e privazione, libertà e schiavitù, è stato nuovamente posto oggetto di studio e di critica.  Con il professor Federico Sollazzo dell’l’Università di Szeged, (Ungheria), si è provato a comprendere meglio l’universo di Salò, (perché di Universo si tratta): letterario, cinematografico, simbolico ed artistico.


PIGNATARO: ’Anarchia del potere “Noi fascisti siamo i soli veri anarchici”. Da
questa frase del Duca, interpretato da Paolo Bonacelli, si ricava l'essenza del film. In che luce, filosofica, onirica o politica deve essere vista l'anarchia del potere in Salò?

SOLLAZZO: Credo che lo sguardo di Pasolini si sforzi sempre di essere realistico, il che è perfettamente compatibile con una lettura filosofica, onirica o politica. Ovvero, per Pasolini l’anarchia del potere e, si badi, la conseguente inesistenza della storia, non significa assenza di regole, bensì la capacità del potere di darsi da sé le proprie leggi. Nel film c’è una significativa scena in tal senso: quando i gerarchi fascisti annunciano ai ragazzi le ferree regole che vigeranno nella villa, arbitrariamente decise dai gerarchi stessi. Questa dimensione anarchica del potere, ancor più che nel fascismo, risulta evidente nella società dei consumi. Il fascismo infatti è ritenuto essere dall’autore nient’altro che “un gruppo di criminali al potere” che non ha determinato mutamenti nel corpo e nella coscienza degli italiani; solo la società dei consumi “manipola i corpi in un modo orribile […] Li manipola trasformandone la coscienza (istituendo così) un nuovo modello umano”.

Ma attenzione, non si deve ritenere che per Pasolini il potere sia anarchico perché semplicemente fa quel che vuole. Se il discorso fosse così lineare, allora sarebbe sufficiente voltare le spalle al potere e non prestargli ascolto per disinnescarne l’anarchia, facendolo così inceppare e collassare. Per Pasolini invece il potere è anarchico in un senso molto più profondo e articolato ovvero, non semplicemente perché fa ciò che vuole, ma perché produce preliminarmente le condizioni affinché possa poi fare quel che vuole fare, produce la propria stessa legittimità e, ancor più radicalmente, produce un’umanità che desidera quel che esso stesso vuole fare. Salò è del 1975, ma questo tema è presente fin da Mamma Roma del 1962, dove infatti è la protagonista a spingere il proprio figlio verso la società borghese. Come a dire che il nuovo Potere (quello senza volto e pertanto scritto con la P maiuscola) non ha più bisogno di rincorrere gli individui ma è tale per cui sono gli individui stessi ad andare da lui, a desiderarlo, a volerne far parte; esattamente questo dà al potere la possibilità di essere anarchico.
Quello di Pasolini sul potere è quindi un discorso raffinato che, tra le altre cose, mostra l’inapplicabilità al contesto odierno della concezione di servitù volontaria (La Boétie). Una servitù può infatti essere volontaria se e quando è consapevole, ma gli individui che oggi sono edonisticamente attratti da questo nuovo potere, pensano i pensieri del potere, parlano la lingua del potere, vestono i corpi che il potere fornisce loro, vivendo tutto questo come se fosse il frutto di una loro libera scelta, e là dove non c’è consapevolezza non può esserci volontarietà, ma solo un’inconsapevole assuefazione (in tal senso, già Comizi d’amore del 1965 si chiude così: “al vostro amore, si aggiunga la coscienza del vostro amore”). Inoltre, quello di Pasolini sul potere è un discorso che presenta dei rilevanti punti di contatto con quello di Foucault, ma vi è anche una differenza essenziale che va sottolineata con decisione, e che non consiste nel fatto che poiché Pasolini parla di “Palazzo” e identifica luoghi e nomi del potere, allora per lui il potere stesso non avrebbe la dimensione reticolare e orizzontale che ha per Foucault; l’italiano parla infatti di “Potere senza volto”, e i luoghi e i nomi sono solo sedi di emersione parziale di questo Potere impersonale. La
differenza essenziale tra i due mi sembra invece questa: per il francese il potere ha solo quella dimensione reticolare e omni pervasiva, non esiste un fuori dal potere, sicché diventa estremamente difficile, se non impossibile, immaginare e praticare strategie di sottrazione allo stesso. Diversamente, per Pasolini c’è un possibile al di fuori dal potere che consiste nel rifiutare il suo edonismo, quindi, non semplicemente i suoi prodotti, che possono variare rimanendo sempre gli stessi, ma il suo presupposto, solo in tal modo se ne metterebbe in scacco l’anarchia, altrimenti riproducibile all’infinto perché non soggetta spontaneamente ad uno svuotamento dall’interno, in quanto il corpo e la coscienza degli individui non andrebbero più a coincidere con i desideri (anarchici) del potere – sotto questo profilo, mi sembra che Pasolini condivida qualcosa di significativo con Marcuse. Si noti infatti come nel film nessuno dei ragazzi riesca ad evadere dalla villa, la fine di quel mondo può darsi non per sottrazione diretta dallo stesso, ma solo se chi lo origina, nel film i gerarchi fascisti, cessa di originarlo, ovvero, l’unico gesto che fa estinguere un mondo,
non è il rifiuto dei suoi prodotti o di sue singole porzioni, ma il rifiuto assoluto, radicale e in toto delle origini stesse di quel mondo; come disse nella sua ultima intervista: “il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso”. Ma per far questo (e così mi ricongiungo a quanto detto sopra) la conditio sinequa non è la consapevolezza dei fattori a cui si è assoggettati. Diversamente, la servitù è inconsapevole, ergo involontaria, ergo potenzialmente eterna. Ed ancora, è per tutto questo che non mi convince una lettura di Salò sulla base dell’idea di perversione in psicoanalisi: quella di Pasolini è una dialettica del potere e della storia, e in nessun senso il tentativo (mai possibile?) di farne una scienza.
                  

Tornando ora alla frase del Duca, mi sembra utile citarla per intero: “Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti, la sola vera anarchia è quella del potere”. Qui mi sembra che Pasolini metta in bocca al Duca l’evidenza della sua natura e al tempo stesso il perché del suo inevitabile fallimento. Ossia, alla luce della concezione di anarchia del potere, istituisce una dialettica tra fascismo e consumismo, ovvero tra le due fasi consecutive di tale anarchia. Infatti, i fascisti sono stati i primi all’alba della civiltà dei consumi ad impossessarsi dell’anarchia del potere, tuttavia ritenevano possibile realizzarla solo per mezzo di un soggetto preciso, lo Stato, così auto condannandosi irreparabilmente ad essere superati da una forma di potere non più identificabile in soggetti particolari, impersonale, omni pervasivo ed enormemente più occulto, e dunque radicalmente più anarchico, poiché in grado di mutare corpi e coscienze senza che questi se ne avvedano, il consumismo. Si badi però, infine, come egli parli di consumismo non in senso metafisico ma in senso storico, per questo è sbagliato farne un mantra che oggi è indissolubilmente legato al suo nome: egli stesso andava già identificando l’avvento di una nuova fase storica definita come “tecno-fascismo”, e oggi forse troverebbe questa stessa descrizione ormai obsoleta.        

PIGNATARO:  Pensa che Salò sia una summa di tutte le invettive politiche, (contro le omologazioni dei consumi, il temere per la mutazione antropologica, il rifiuto contro lo Stato), che Pasolini puntualmente pubblica e su cui ragionava sul Corriere della Sera?

SOLLAZZO: Non ho difficoltà a immaginare che la sua attività pubblicistica possa essere stata una sorta di laboratorio di molti pensieri poi confluiti in Salò. E tuttavia la sua attività pubblicista (con l’eccezione di Gennariello che è un lavoro pedagogico) è un serrato commentario ai più rilevanti fatti di attualità e di cronaca politica italiana di quei tempi, quindi è un tipo di lavoro che credo confluisca più in Petrolio che in Salò, che è un’opera con un impianto più concettuale, più teoretica che politica, un’opera che attraverso il discorso sull’anarchia del potere, tema già da filosofia politica, delinea una vera e propria filosofia della storia

PIGNATARO:  Qual è secondo lei la scena più riuscita e quella meno riuscita del film? E la scena che, a Suo giudizio, è la più emblematica?


SOLLAZZO: Non riesco a stilare una gerarchia, il film è talmente denso che dare la precedenza ad una sequenza significherebbe far torto alle altre. Posso però dire che personalmente sono rimasto molto colpito dall’ultima scena (forse perché quando la vidi per la prima volta non ero preparato). Quando la panoramica delle sevizie sul piazzale è accompagnata dalla musica dei Carmina Burana di Orff, e poi uno dei due ragazzi-guardiani allunga una mano su una radio e con un piccolo gesto delle dita cambia stazione, e si passa improvvisamente al motivetto di These foolish nights, sulle cui note i due iniziano spensieratamente a ballare. Mi sembra che questa scena indichi l’avvento di una nuova forma di potere, con una forza incomparabilmente maggiore alle forme precedenti di obliare anche il male più atroce, trasformandolo un ritornello orecchiabile, con un banale clic. Non è un caso che questa sia la scena finale, indica infatti una ben precisa dinamica storica delle contemporanee forme essenziali del potere, che va dal fascismo politico, al consumismo, alla tecnocrazia (e forse oggi già oltre quest’ultima).    


 PIGNATARO:  Quali furono i modelli poetici, politici, sociali di Pasolini per la realizzazione di Salò?


SOLLAZZO: Credo che, come sempre in Pasolini, il modello eminente sia le realtà. Salò mi sembra che abbia la stessa impostazione di Petrolio: si parte da una base realistica, una sorta di documentario, e la satura di elementi mitici, trasformando la realtà in un mito. Ben lungi dall’essere un modo di allontanarsi dalla realtà, questo è l’unico modo di penetrarne l’essenza. (Ri)Affermare il potere conoscitivo del mito.

 PIGNATARO: Sappiamo che Pasolini aveva intenzione di realizzare una trilogia della morte, di cui Salò sarebbe stato il primo capitolo. Se avesse potuto realizzare gli altri due capitoli di questa trilogia, secondo Lei, su quali aspetti controversi della società si sarebbe rivolta la sua lucida analisi ed il suo manieristico giudizio?

SOLLAZZO: Mi sembra che l’incompiuto Petrolio e la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal siano illuminanti in tal senso. Quando venne assassinato il suo impegno era duplice. Da un lato, un impegno civile nel descrivere (miticamente) le collusioni italiane tra politica e finanza. Dall’altro, un impegno teoretico
nell’elaborare una sorta di teoria della storia che, non profeticamente ma argomentativamente, ipotizzasse anche il possibile prossimo sviluppo dell’uomo, che egli vedeva nella scomparsa di tutte le utopie fino all’ultima, la fede. Sia chiaro però che Pasolini non è assolutamente un nostalgico del passato, non critica la modernità ma questa modernità, e non è avverso al progresso ma a questo sviluppo, disperatamente auspicandone un altro.  Se fosse ancora fra di noi sarei interessatissimo ad ascoltare se all’interno di questo scenario realisticamente grigio, avrebbe scorto delle possibili tracce di alterità, o se avesse considerato le lucciole ormai morte e sepolte irrimediabilmente.


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Le rivoluzioni di Pasolini - Di Enzo Siciliano, 5 Marzo 1971

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Le rivoluzioni di Pasolini - Di Enzo Siciliano
LA STAMPA
Venerdì 5 Marzo 1971
Anno 105
Numero 54

In una intervista concessa venerdì scorso al supplemento letterario de Le Monde, Pier Paolo Pasolini, parlando del suo volume di versi, Trasumanar e organizzar, di prossima pubblicazione, ha detto fra l'altro:

« Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa. E' già un'illusione scrivere poesia, eppure continuo a scriverne, pure se la poesia non è più per me quel meraviglioso mito classico che ha esaltato la mia adolescenza... Non credo più nella dialettica e nella contraddizione, ma alle pure opposizioni... Tuttavia sono sempre più affascinato da quell'alleanza esemplare che si compie nei grandi santi, come san Paolo, tra vita attiva e vita contemplativa ».

Con una sottile abilità che non gli è affatto ignota, Pasolini ha disposto, in questo modo, le carte che vorrà veder giocate una volta che il suo libro abbia raggiunto le librerie. Solo che abilità non vuol dire sempre appropriatezza.

Pasolini rifiuterebbe gli strumenti del pensiero marxista, come la dialettica, e accoglierebbe quei concetti nuovi che i teorici della contestazione hanno approntato, l'« opposizione pura » ad esempio. Non si sottrarrebbe alle lusinghe della nozione della morte della poesia e dell'arte; però insieme dichiara che un poeta non può tradire o abbandonare la sua intima necessità di scrivere.

Ma ad osservare più da vicino le cose, alla « rivoluzione » Pasolini ha mai guardato come a qualcosa di diverso da un mito o una sollecitazione limite alla poesia? E la sua radice cattolica gli ha mai consentilo di intendere appieno una concezione dialettica, intendo dire laica, della vita? Dunque, per quale verso prendere questa complessa rete di agganci che nell'intervista egli ha voluto lanciare?

Molte delle poesie che fanno parte del suo nuovo volume le conosciamo già, le abbiamo lette su riviste, talvolta anche su rotocalchi, come avvenne per quella in cui ai giovani studenti venivano contrapposti i giovani poliziotti. L'impressione complessiva, allora, fu che Pasolini conduceva d'istinto una polemica spietata, con i modi d'una poesia aperta al diario e al giornale personale, verso l'anticultura che ha caratterizzato globalmente il mondo della contestazione giovanile. Ne coglieva, a scorno di tanti, il carattere regressivo, o per usare un termine di gergo, <<controrivoluzionario>>. Leggendo quei versi si poteva discutere dell'accentuata visceralità che li tingeva o delle soluzioni populistiche che vi erano prospettate, e che caratterizzano Pasolini fin da gli anni de Le ceneri di Gramsci.

Ecco invece oggi, quasi a rescindere le proprie responsabilità creative da quelle dell'uomo che parla dei propri libri e li pone in una prospettiva in cui vorrebbe essi fossero. Pasolini fare professione di ambiguità. Ci chiediamo: 

quale bisogno egli ha di angolare l'eclissi che in lui subisce la suggestione marxista con stratagemmi tipici degli « adulti » che non vogliono perdere l'ultimo tram?

Enzo Siciliano


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SIAMO NOI I NUOVI LETTORI DI PASOLINI - Di Maria Vittoria Chiarelli

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" MIO CARO LETTORE, PARTICOLARMENTE CARO PERCHÉ NUOVO..." : 
SIAMO NOI
  I NUOVI LETTORI DI PASOLINI
( di Maria Vittoria Chiarelli )



E poi, tu credi,
che si possa fare un sogno, non ricordarlo,
e avere da questo sogno, mutata la vita?

(P. P. Pasolini, Poeta delle Ceneri)




Pasolini pubblica nel 1970, per Garzanti,  un'antologia delle sue poesie e ne cura la Prefazione intitolandola " Al lettore nuovo". Il Poeta si racconta : non era la prima volta, lo aveva fatto nelle interviste e nell'autobiografia in versi "Il poeta delle Ceneri", e a ritroso, risalendo alle pagine giovanili dei "Quaderni rossi", al romanzo "Atti impuri" , a Operetta marina e ad altri racconti friulani e romani. In verità, tutta l'opera pasoliniana è un racconto del sé, proiettato sulla realtà come in uno specchio che gli rimanda i suoi stessi sguardi, per cui soggettività e oggettività si sfumano in una perenne contaminazione poetico-figurativa in tutte le espressioni artistiche, dalla letteratura al cinema, al teatro.

In questo frangente storico, Pasolini, reduce dalle combattute polemiche con la neoavanguardia in varie sedi, anche sulla rivista Nuovi Argomenti, ha bisogno di ritrovare nuove sintonie con i lettori che non lo conoscono, con i più giovani, che lo hanno incontrato come regista, ma ignorano le matrici poetiche della sua arte. La chiave interpretativa della realtà rappresentata attraverso il cinema diventa, pertanto,  la poesia, che manifesta tutto il suo potenziale di contestazione partendo dalla natura umana, ripercorsa dal profondo, ricondotta ai miti primigeni in cui la vita rinasce sempre nuova,  e dall'impatto con la storia.

Si tratta di un racconto personale che non si esaurisce nel biografismo autoreferenziale, anzi ne è lontano, ma coinvolge le vite di tutti noi, che vogliamo confrontarci con un intellettuale, come Pasolini, che è stato capace, di relazionarsi con i suoi lettori, cogliere le contraddizioni del suo tempo, denunciarne la deriva violenta, riportare la dimensione del Passato umanistico dal piano della memoria a quello di un vero Progresso. Negli anni Settanta non ha speranze Pasolini, ma lotta ancora su più fronti volendo a tutti i costi essere compreso.

Riporterò di seguito le parti dell'intero scritto:


AL LETTORE NUOVO




L' ultimo libro di versi che ho stampato è Poesia in forma di rosa, nel 1964. Sono passati sei anni. In questo periodo ho girato molti film ( dal Vangelo secondo Matteo, a cui stavo lavorando quando Poesia in forma di rosa è uscito, a Uccellacci e uccellini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea ) : tutti questi film io li ho girati <<come poeta >>.

Non è qui il caso di fare un'analisi sull'equivalenza del <<sentimento poetico>> suscitato da certe sequenze del mio cinema e di quello suscitato da certi passi dei miei volumi di versi. Il tentativo di definire una simile equivalenza non si è mai fatto, se non genericamente, richiamandosi ai contenuti. Tuttavia credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi ed alcune mie inquadrature.

Ma, dal '64 in poi, non ho scritto solo poesia attraverso il cinema: è solo per un anno o due che ho completamente taciuto come <<poeta in versi>> ( pur scrivendo delle cose che son rimaste inedite e incomplete ): nel '65 sono stato un mese a letto ammalato, e, durante la convalescenza, ho ripreso a lavorare - e - forse perché durante la malattia avevo riletto Platone, con una gioia che non so descrivere - mi son messo a scrivere del teatro: sei tragedie un versi, a cui ho lavorato per tutti questi cinque anni - tornandoci alle volte dopo un anno e più di abbandono - e che stanno per uscire col titolo di Calderón.

Evidentemente, in quel periodo, potevo scrivere versi solo attribuendoli a dei personaggi, che mi facessero da interposte persone.


Ma, cominciando con poesie d'occasione o addirittura scritte su commissione - dopo un primo prodotto piuttosto poco lavorato - Il Pci ai giovani! - scritto ai primi di marzo del 1968 e uscito poco dopo, proditoriamente, a mia insaputa, su un rotocalco ( se fosse uscito nella rivista specializzata <<Nuovi Argomenti>> cui era destinato, sarebbe stato 'altro' da quello che è stato)- nell'autunno di quell'anno ho <<ricominciato>> a essere un facitore di versi nel senso corrente del termine : e ora ho pronto un nuovo volume Trasumanar e organizzar, che uscirà ben oresto, presso questo stesso editore, che mi prega ora di scrivere la presente introduzione alle mie poesie <<vecchie>>.

Sei anni sono pochi: ma se si pensa che il primo di questi volumi che qui sono antologizzati è uscito nel giugno del '57 ( e la poesia Le ceneri di Gramsci che gli dà il titolo, è del maggio 1954 ), allora l'intervallo di sei anni diventa l'intervallo di un'intera epoca letteraria e politica ( anche se in parte, con le ultime poesie, vissuta nella transizione ).

Suppongo quindi di rivolgermi ad un <<lettore nuovo>>. E ad esso non so e non voglio dare altro che informazioni.

Io non ho cominciato a scrivere versi con Le ceneri di Gramsci: ho cominciato molto prima, ed esattamente nel 1929 a Sacile, quando avevo sette anni appena compiuti, e frequentavo la seconda elementare.


È stata mia madre che mi ha mostrato come la poesia possa essere materialmente scritta, e non solo letta a scuola ( <<Vitrea è l'aria...>> ). Misteriosamente, un bel giorno, mia madre infatti mi presentò un sonetto, composto da lei, in cui esprimeva il suo amore per me ( non so per quali costrizioni di rima la poesia finiva con le parole <<di bene te ne voglio un sacco >> ). Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi: dove si parlava di <<rosignolo>> e di <<verzura>>. Credo che non avrei saputo distinguere allora un rosignolo da un fringuello, come del resto un pioppo da un olmo: e del resto a scuola ( ad opera della signora Ada Costella, toscana, mia maestra in quella indimenticabile seconda elementare ) Petrarca certo non si leggeva. Dunque non so dove avessi imparato il codice classicistico dell'elezione e della selezione linguistica. Fatto sta che non tenedo conto dell' abundantia cordis di mia mamma, ho cominciato come rigidamente <<selettivo>> ed <<eletto>>.

Ho scritto da allora in poi intere collezioni di volumi di versi: a tredici anni sono stato poeta epico ( dall'Iliade ai Lusiadi ). Non ho trascurato il dramma in versi, non evitato, con l'adolescenza, l'inevitabile incontro con Carducci, Pascoli e D'Annunzio, fase incominciata a Scandiano - il ginnasio, frequentato da <<pendolare>>, era quello di Reggio Emilia - e concluso a Bologna, al Liceo Galvani, nel '37: anno in cui un professore supplente - Antonio Rinaldi - lesse in classe una poesia di Rimbaud.

Dal '37 al '42, '43, vissi il grande periodo dell'ermetismo, studiando con Longhi all'università, e vivendo ingenue relazioni letterarie coi miei coetanei che si interessavano di queste cose: due di essi sono Francesco Leonetti e Roberto Roversi; ma benché di qualche anno più vecchio era tra noi anche Francesco Arcangeli, e poi Alfonso Gatto. Ero un ragazzino precocemente universitario; ma non vissi quell'esperienza da apprendista soltanto, bensì da iniziato. Nel 1942, infatti, uscì a mie spese, presso la Libreria Antiquaria del signor Landi, il mio primo volumetto di versi, Poesie a Casarsa: avevo esattamente vent'anni; ma le poesie lì raccolte le avevo cominciate a scrivere circa tre anni prima - a Casarsa, il paese di mia madre - dove si andava ogni estate nella povera villeggiatura presso i parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva ecc.
Erano poesie in dialetto friulano: <<hésitation prolongée entre le sens et le son>> ( Valéry, citato da Jakobson ) aveva avuto un'apparente definitiva opzione per il suono; e la dilatazione semantica operata dal suono si era spinta fino a trasferire i semantemi in un altro dominio linguistico, donde ritornare gloriosamente indecifrabili.


Una quindicina di giorni dopoche il libro era uscito ho ricevuto una cartolina postale di Gianfranco Contini, che mi diceva che il libro gli era tanto piaciuto che l'avrebbe immediatamente recensito.

Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno. La recensione di Contini non è poi uscita su <<Primato>> come egli aveva programmato, ma sul <<Corriere di Lugano>>, all'estero, in Svizzera, terra per definizione dei fuorusciti. Perché ? Perché il fascismo - con mia grande sorpresa - non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali, e degli idiomi di ostinati imbelli. Così...la mia <<lingua pura per poesia>> era stata scambiata per un documento realistico provante l'esistenza obiettiva di poveri contadini eccentrici o, per lo meno, ignari dell'esigenza idealistica del Centro...È vero che io non ero più fascista <<naturale>> da quel giorno del '37 in cui avevo letto la poesia di Rimbaud: ma ormai l'antifascismo cessava di essere puramente culturale: sì, poiché il Male, lo sperimentavo nel mio caso.

Sfollammo a Casarsa proprio quell'inverno, e il '43 resta uno degli anni più belli della mia vita: <<mi joventud, veinte años en tierra de Castilla!>> ( Machado ).
Continuai a scrivere poesie friulane, ma cominciai a scriverne anche di analoghe in italiano. Il friulano delle poesie adesso era diventato esattamente quello parlato a Casarsa ( e non un friulano inventato sul Pirona, dizionario friulano-italiano ); mentre l'italiano, a causa del calco sul dialetto, aveva acquistato un'aria romanza e ingenua. L'italiano letterario - il nuovo latino, che in quegli anni si chiamava, attraverso gli ermetici, soprattutto Leopardi - continuava tuttavia a impormi la sua tradizione elettiva e selettiva, a cui non si sfugge; dunque scrivevo versi  ( Diari ) e tenevo un giornale ( Scartafaccio per analogia con Zibaldone ), che continuavano a seguire un <<filone centrale>>iniziato da sempre per privilegio ( e destinato a non estinguersi mai ), precedente a quelle poesie friulane che dicevo, uscite nel '42: le quali ultime erano dunque, rispetto alla produzione ambiziosamente letteraria, quasi delle nugae, per l'appunto volgari. Solo che, nel caso specifico, non so in che modo, ma certamente in qualche modo, io sapevo, pur forse non dicendomelo, che erano proprio quelle nugae che contavano.

Le poesie friulane le avrei poi raccolte in un'edizione Sansoni nel 1954; mentre le nugae italiane che avevo cominciato a scrivere in quel periodo avrebbero costituito L'Usignolo della Chiesa Cattolica ( Longanesi, 1958 ). Ero andato nel frattempo sotto le armi, per pochi giorni, dal 1° settembre all'8 settembre 1943. Ritornai da Pisa a Casarsa, lacero con una scarpa diversa dall'altra, dopo aver disobbedito all'ordine datomi dai miei ufficiali di consegnare le armi ai tedeschi ( su un canale presso Livorno ); dopo aver fatto un centinaio di chilometri a piedi; e dopo aver rischiato mille volte di finire in un treno per la Germania. Ricominciai subito a scrivere versi in friulano e in italiano, i fasti campestri della Meglio gioventù e dell'Usignolo. Ciò che non mi impedì di andare a scrivere VIVA LA LIBERTÀ sui muri, e di finire per la prima volta in vita mia  in camera di sicurezza , esperimentando ciò che sono gli uomini dell'ordine. Da allora passai la vita nascosto e braccato - e molto terrorizzato, perché allora avevo una paura decisamente patologica della morte - continuamente ossessionato dall'idea di finire uncinato: ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti. Mio fratello - di tre anni più giovane e di leva lui, ora - partì per la montagna a fare il partigiano armato: lo accompagnai alla stazione ( aveva la pistola nascosta in un libro ). Partiva come comunista; poi, per mio consiglio ( essere vissuto tre anni di più in periodo fascista doveva pur aver contato qualcosa ) era passato al Partito d'Azione e alla divisione Osoppo: dei comunisti legati ai reparti di Tito, che in quel momento intendevano annettersi parte del Friuli, l'avrebbero ucciso. La guerra finì e cominciò per me il periodo più tragico della mia vita ( continuavo a svrivere La meglio gioventù e L'Usignolo ): la morte di mio fratello e il dolore sovrumano di mia madre; il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo, in patria, e, in famiglia, della lingua italiana; distrutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sempre più innamorato di mia madre che non l'aveva mai altrettanto amato e ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il problema della mia vita e della mia carne. Nell'inverno del '49, mio caro lettore, particolarmente caro perché nuovo, e perché utente di semplici antologie in edizione non costosa, fuggi con mia madre a Roma, come in un romanzo. 

Il periodo friulano era finito; i volumi mi sarebbero a lungo rimasti nel cassetto, per poi uscire alle date che ho detto; ma subito , a Roma, ripresi a scrivere quei diarii, in versi, assai meno eccentrici, di matrice letteraria e post-ermetica, che come ho detto, non avevo mai smesso di scrivere neanche nel Friuli romanzo, tra le sue viti e i suoi gelsi. Ne raccolsi più tardi un gruppo sotto il titolo appunto di Roma 1950 ( e avrei continuato fino al Sonetto primaverile, Scheiwiller, 1960 ).  Ma subito, pochi mesi dopo il mio arrivo a Roma, se da una parte continuavo in chiave barocca e gaddiana le mie ricerche anti-italiane, che avevo cominciato in chiave romanza e alloglotta in Friuli - cominciai a scrivere quella <<cosa>>narrativa che poi avrebbe dovuto intitolarsi Ragazzi di vita (1955 ).

A Roma dapprima vissi a piazza Costaguti, vicino al Portico D'Ottavia ( il ghetto! ), poi andai nel ghetto delle borgate, vicino all prigione di Rebibbia, in una casa restata definitivamente senza tetto ( tredicimila lire al mese di affitto ). Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella casa di Rebibbia, nella fascia delle borgate, ho cominciato - in una lenta trasformazione e fusione del contingente anti-italiano, spesso in falsetto ( che aveva dato i versi dialettali e affini ) e del contingente classicistico dei diarii - la mia <<opera poetica>> vera e propria, quella che ora mi pare la mia <<vecchia poesia>>, dalle Ceneri di Gramsci alla Poesia in forma di rosa.

L'ho già detto tante volte, in tante interviste, che la cosa è divenuta quasi un meccanismo per far scattare il discorso che voglio ( per piegare la realtà al mio disegno ): ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra ( "I giorni del lodo De Gasperi" doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo "Il sogno di una cosa" ). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.

La trasformazione  e la fusione, di cui dicevo, dei miei due filoni poetici,  l'anti-italiano  in falsetto, e l'italiano eletto, avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È  lentamente  che  arrivo al <<poema civile >> sulle ceneri di Gramsci : tutta la prima parte del volume,  da "L'Appennino"  a "L'umile Italia",  è  preistorica rispetto ad esso: nelle borgate del sottoproletariato romano permane lo spirito Prealpino, delle terre pulite, dei boschi cedui,  che si accumula formalmente  soprattutto negli spazi obbligati dalla necessità  di rima ( delle terzine ), sotto forma di elementi ritardanti. Mi accorgo del resto ora che, dal tempo della lotta dei braccianti a oggi, ben poco è  sostanzialmente  cambiato, in me e fuori di me. Proprio  mentre  scrivo  questa  introduzione per un lettore non specializzato, sto lavorando  a un documentario sullo sciopero  degli scopini  romani ( Appunti per un romanzo  sull'immondezza ), e non mi pare affatto che siano passati quasi trent'anni. Può  darsi che il sentimento  della lotta  di classe che hanno i giovani del 1968-70 abbia riportato indietro,  a quei grandi giorni: e non importa se ciò è  un'illusione. Del resto la lotta di classe è un fenomeno che non si risolve in trent'anni, e le cui caratteristiche  sono sempre le stesse.

A questo proposito vorrei indicare soprattutto al lettore giovane il poema "Una polemica in versi" e l'ultimo dell'antologia, "Vittoria": sarei contento se egli vi trovasse prefigurato lo spirito politico e idealistico che oggi lo anima.

Quanto al resto, le poesie qui antologizzate dai volumi che comprendono i tredici anni che vanno dal '51 al '64, formano un blocco coerente e compatto. Ciò che in esso mi colpisce - come se me ne fossi estraniato, ma non è  vero - è un diffuso senso di scoraggiante infelicità: un'infelicità facente parte della lingua stessa, come un suo dato riducibile in quantità  e quasi in fisicità. Questo senso ( quasi un diritto ) di essere infelice, è talmente predominante, che la stessa felicità  sensuale ( di cui del resto il libro è pieno, ma come una colpa ) ne è offuscata; e così  l'idealismo civile. Ciò  che mi colpisce ancora, rileggendo questi versi, è  rendermi conto di quanta fosse ingenua l'espansività con cui li scrivevo: proprio come se scrivessi per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato tanto sospetto e odiato.

Concludo aggiungendo, come in appendice, una fonte di luce che abbia valore retroattivo: cioè una poesia, di questi ultimi mesi, intitolata Charta (sporca) non contribuirà certo a una sistemazione di questa mia antologia di poesie vecchie, né ad attirarmi simpatie; tenderà anzi a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione...


                                                                           
                               


Charta  ( sporca )





Bisogna assentarsi ogni tanto dai luoghi dei Doveri,
per il mondo Occidentale - tornare ricoperti
degli allori della Integrazione
allora si è utili alla Riv...
altrimenti se egli fa il monaco ( per protesta, rigore e
                                                                                                                   [ così via )
lo buttano ( parole illeggibili per macchie di sporcizia )
Deve preoccuparsi della sua carriera
solo se arr...egli è <<utile>> alla ...
- grondare di colpe per rapporti ( parola illeggibile c.s. )
( così piace all'operaio che ha il culto della famiglia )
- persone perbene per dar credito alla lotta!
- migliaia di piccoli atti di quotidiano disonore
per salire agli onori che son utili a un Partito realistico!
Queste sono cose che ricadono sulla testa di chi le dice.
- rendendolo sempre più miserabile e quindi
                                                                                                            [ inutilizzabile.
Ma bisogna pure che qualcuno porti sulle miserabili
                                                                                                                  [ spalle
una croce ( <<merda>> e altre parole illeggibili c.s. )
Perdere la reputazione per una santità equivoca: mah!
Ma bisogna pure che ci sia qualcuno pieno di croste,
l'Intoccabile
Chi punta poco per perdere o vincere poco
vuole contemplare lo spettacolo di chi vince o perde
                                                                                                                 [ molto
possibilmente di chi perde molto, horror mundi.
- alludiamo a Noi stessi, tanto per cambiare,
e per screditarci ancora un po', se ce ne fosse bisogno
- non abbiamo fatto infatti in tempo a esser cattivi figli
che siamo già cattivi padri ( parole illeggibili c.s. )
- ottenendo una paterna disapprovazione da quelle
                                                                                                             [ carogne dei figli
Questo dovrebbe dar gran soddisfazione al desiderio di
                                                                                                                       [ morte
che taluni Ci attribuiscono per non preoccuparsi per Noi
Ancora una volta la serietà è presa per un aspetto della
                                                                                                                    [ virilità
- virile non è più il giovanotto senza problemi e
                                                                                                                [obbediente ( armato )
virile è invece lo studioso spec...il giovane organizz...
I giovani gettano, sì, il loro corpo nella lotta,
ma non prendono in reale considerazione la sua
                                                                                                             [ debolezza
si direbbe che lo considerano indesiderato e superfluo
- quando essi ( parola illeggibile ) della debolezza
                                                                                                             [ corporale
lo fanno dandosi manate sulle spalle, non senza
lanciarsi spiritosaggini di vecchi parlamentari!
- sono esclusivamente, o meglio dichiaratamente, politici
e ciò non può essere senza conseguenze.
Il corpo ( ogni corpo ), coperto di croste, ed eternamente
                                                                                                                  [ crocifisso,
( non c'é niente da fare! ) è preso per scherzo;
è una cosa privata su cui è bene sorvolare, tacere
- o, appunto, solo scherzarci su, nelle more.
Dunque la massima vergogna non consiste
nell'autoesclusione o sete di santità
bensì nel restare ambigui o almeno contraddittori
tra la tentazione di escludersi e la ricerca del successo.
- essere presenti male, senza chiarezza, intendo dire,
è, come un tempo, presso la buona borghesia,
                                                                                                          [ inammissibile
allorché UNO era il mondo, e UNO il futuro umano
dispensatore di gloria al piccolo apprendista poeta -
e ciò che quanto a Rivoluzione ha sognato lo stesso
                                                                                                           [ ragazzo...
Si tratta, tutto sommato, di una Confusione dei Sogni
cosa che nessuno non solo non ha voglia di giudicare
ma nemmeno di considerare come un fatto reale ( parola
                                                                                                           [ illeggibile )
- è vero che tutti  ( parola illeggibile ) questa Confusione
                                                                                                                   [ dei Sogni,
ma c'é chi lo dice e chi no, chi lo realizza e chi non se lo
sogna nemmeno
- c'é qualcuno infine che getta nel tavolo di gioco ( per
                                                                                                                  [ perdere )
l'ammissione di questo
- i giovani, quei figli di puttana, non hanno il più
                                                                                                           [ lontano sospetto
di tale Confusione dei Sogni, peraltro attuale ancor oggi
                                                                                                                   [ ( 1969 )
- essi sono ( parola illeggibile in quella idea di virilità
                                                                                                                  [ come serietà
e le persone serie, certe, non hanno né hanno avuto sogni!
- Che miracolo! La Borghesia mi mette in testa la
                                                                 [ corona di quercia,
e la Classe Operaia usa tale testa incoronata contro la
                                                                                                                [ Borghesia.
Ciò è evidentemente folle e indegno: ma ha una funzione:
popolare il mondo di uomini deboli anziché di santi.
- <<Potrei parlare di un uomo rapito al Terzo Cielo
e invece parlo di un uomo debole>>, infatti.
- Questo lo dico per vantarmi della mia forza:
di tutti quei sogni non mi è rimasta che la forza.
- Non so perché decido che questa debba essere
                                                                                                 [ l'ultima poesia
di questo libro di poesie nato durante la farsa,
a cui appunto in quanto poeta partecipo. Non c'è alcuna
                                                                                                                 [ ragione
di scrivere in calce a questi versi la parola
                                  
                
                                FINE




In questa introduzione all'Antologia di poesie da lui stesso scelte, Pasolini ripercorre tutte le tappe fondamentali del suo percorso culturale di poeta, fino al 1970, non tralasciando nulla, in una mirabile sintesi. Il suo excursus poetico è conosciuto dai molti colleghi e amici intellettuali: dalla rivolta anti-italiana della poesia lirica in lingua friulana fino alla poesia civile de Le Ceneri che, dalla precedente, non si è in realtà mai discosta, considerando soprattutto la parte seconda de "La meglio gioventù", dal "El testament coran" ( 1947-52 ) a "Romancero" (1953 ), fino al gruppo delle poesie italo-friulane di "Tetro entusiasmo" (1973-74 ), che sembrano chiudere una lunga stagione di lotta, ma per riaprirne un'altra, animata da un fortissimo "sentimento della vita" e dalla sua tanto sofferta "rabbia" socratica, i cui destinatari sono soprattutto i giovani, delle cui facce nessuno si accorge, perché non si ha alcun interesse per i ragazzi. Nell'ultima poesia in friulano si rivolge persino ad un giovane fascista prima che entrambi siano "troppo lontani" : lui , il Poeta che veniva dai "ruderi" e dalle "pale d'altare" , da un mondo umanistico ormai in disfacimento, desideroso di allontanarlo da un vuoto ideologico del tutto simile a quello di tanti suoi coetanei, conformisti di sinistra,  abbrutiti dal potere consumistico omologante, lo invita a "difendere, conservare, pregare", senza da parte sua abbandonare la partita,  ma per camminare "leggero", "scegliendo per sempre la vita, la gioventù". Quasi un testamento. Un testamento che però non chiude, ma riapre discorsi, come vecchie ferite, mai cicatrizzate, "pianti di scavatrici" che rompono l'aria, come urla improvvise, pazze di dolore. Del resto "piange ciò che ha/ fine e ricomincia"...
"Piange ciò che muta, anche/ per farsi migliore. La luce /del futuro non cessa un solo istante /di ferirci: è qui, che brucia/ in ogni nostro atto quotidiano, / angoscia anche nella fiducia/ che ci dà vita, nell'impeto gobettiano/verso questi operai, che muti innalzano,/ nel rione dell'altro fronte umano, /il loro rosso straccio di speranza"
( da Il pianto della scavatrice, in Le Ceneri di Gramsci ).
In quel rosso delle belle bandiere degli anni Quaranta si coagula l'autentico sentimento rivoluzionario che ha alimentato l'approccio politico di Pasolini sin dagli anni della gioventù, sin dalla "scoperta di Marx", in seguito alle lotte dei braccianti friulani da lui sostenute: la lotta di classe non si esaurisce in uno spazio di tempo determinato, le spinte ideali sono sempre quelle e al Poeta sembra di riviverle negli anni della cosiddetta contestazione, 1968-70, proprio nei movimenti più oppositivi, quelli più capaci di mettersi in discussione, di confrontarsi criticamente con gli eventi storici. Ecco perché Pasolini rimanda il giovane lettore a "Una polemica in versi" de "Le Ceneri di Gramsci e a "Vittoria" di "Poesia in forma di rosa", augurandosi che vi avrebbe visto prefigurato lo stesso spirito politico e realistico che lo animava. Temendo che "chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi", Pasolini vuole comunicare questa sua angoscia cercando consonanze di comprensione fra i giovani, mettendoli in guardia proprio da quelli che avrebbero dovuto proporsi come loro guide, gli intellettuali comunisti, di fronte alla cui paura " a essere anche un poco, o solo idealmente, disobbedienti", si sente "stringere il cuore". E non solo non si oppongono davvero ma
 "guardano con uno spavento / misto di ammirazione o odio/ chi osi dire qualcosa di opposto / all'opposizione istituita".
( da "Versi buttati giù in fretta" in "Tetro entusiasmo" in "La Nuova gioventù" ).

Se "Una polemica in versi" e "Vittoria" focalizzano il sentimento della rivoluzione, sono d'altro canto  pervase da una "scoraggiante infelicità", pur essendo scritte da una "ingenua espansività", come Pasolini stesso dichiara. Un 'infelicità dettata probabilmente dalla coscienza dell'illusione, del fallimento di quel "puro stile", di quella luce che fu la Resistenza italiana. Ci ha creduto con tutte le sue forze Pasolini, anche se "l'ora è confusa , e noi come perduti la viviamo...". Il Poeta ha voluto che la sua vita fosse una lotta...ma "eccola ora sui binari morti, ecco cascare le rosse bandiere, senza vento". A quarant'anni Pasolini ha "sorrisi e mosse" giovanili, "come quelle di chi non spegne mai il vecchio fuoco".
È sempre un ragazzo " eternamente indifeso" che si appassiona, che forse dovrebbe tacere e non offrire il fianco. Se il popolo di una grande e misera città, le cui mille allegrie sono un unico dolore, è attaccato alle sue strade di fango, il poeta coglie ogni minimo sentore confuso di vita che vuole rinnovarsi. "È già vecchio il piano di lotta di ieri, cade a pezzi sui muri il più fresco manifesto". Mai una rivoluzione può fossilizzarsi, irrigidirsi in schemi consolidati, attenersi ad una sorta di misticismo retorico, il cuore del popolo per contro deve sanguinare in ogni istituzione, cioè farsi vivo e continuo il dolore della creazione. "È all'errore che io vi spingo , al religioso errore..."
In sintonia di continuità con la poesia civile delle Ceneri, "Vittoria" apre a nuovi interventi di rigore logico per organizzare azioni di lotta che non sono e non saranno mai scevre da dolore. Per Pasolini, che non ha altre armi che quelle della ragione, nella sua violenza non c'è posto "neanche per un 'ombra di azione non intellettuale". Eppure si chiede più volte , "dove sono le armi? È consapevole che non ritorneranno più i vecchi giorni della Resistenza, ma il suo germe orrendamente profumato può ancora sentirsi, quella vita che "si contempla" e che "si tiene lontana da sé" , possiede ancora quella capacità di capire quali terribili e serene forze ( mai ossimoro fu più efficace ), può ancora sprigionare. Eppure, rivolgendosi ai compagni - non compagni comunisti, obietta loro di non essere stati capaci di seguire gli stessi richiami, di andare fino in fondo. Tutto rischia di inaridirsi se non si vive di "vittoria", se tutto viene riassorbito da una specie di deriva socialdemocratica ,nel migliore dei casi, se non proprio dalla "cara Reazione". Si può ripartire dalla "disperata nostra debolezza" per concretizzare "progetti di opere future"? Mai come oggi la domanda diventa più urgente.
"Dove sono sparite le armi, pacifica / produttiva Italia che non importi al mondo?" 
Ancora oggi, un intellettuale come Pasolini, che ha vissuto tutte le epoche storiche della mancanza di sole fra i più umili ed invisibili agli occhi assuefatti al conformismo moralistico e razzistico di matrice borghese, se lo chiede:
" No, non a noi: tu manchi/ a loro, che pure vivono a livelli /d'esistenza di sole, in pienezza,/ e tra baracche e sterri, prati zeppi di canne e d'immondezza,/sentono in questa disorientata brezza,/ con altro cuore, il tuo non esserci".
( Al sole, da La religione del mio tempo ).
Nella "schiava bonaccia", dal profondo della sua solitudine esistenziale e di partigiano della Poesia che si fa azione nel momento in cui si diffonde , Pasolini lancia il suo grido d'accusa a tutti gli intellettuali, anche suoi amici, " per aver accettato una realtà che non c'era". E la realtà è per Pasolini una storia redenta, il vero Progresso. Si scopre, "inaridito e superato" in una realtà reale che non ha più poeti.
Come non ravvisare nella crisi della sinistra di allora, dopo la morte di Togliatti, dopo la burocratizzazione dei partiti comunisti dell'Est, la radice di quello che non sarebbe più potuto tornare come reale forza rivoluzionaria? Pasolini, dalla sua solitudine, ci parla ancora oggi, che non riusciamo a trovare, seppure in mezzo a tutte le nostre contraddizioni, idiosincrasie,  ritardi, fallimenti, corruzioni, una via d'uscita ai mali di sempre.
Dove sono le armi? Il Poeta le sogna nascoste nel fango " nel fango elegiaco tra piccoli che giocano", come tra i "vecchi padri che vangano":
"...mentre dalle lapidi cade la malinconia, / le liste dei nomi si incrinano,/ i coperchi delle tombe saltano via, /e i giovani cadaveri con la spolverina/che usava in quegli anni, i calzoni/ larghi, e sulla chioma partigiana la bustina/ militare, scendono lungo i muraglioni/ dove stanno i mercati, giù dai viottoli/ che uniscono i primi orti ai costoni/ delle colline: scendono dai cimiteri. Giovanotti/ con negli occhi qualcos'altro che amore:/ una follia segreta, di uomini che lottano/ come chiamati da un destini diverso dal loro".
Tornano i giovani dalle loro lotte, con ancora "l'ideale che arde segreto nei loro occhi": chi avrà il coraggio di smentirli, di raccontar loro che tutto è stato inutile? Che i "figli dei loro fratelli da anni ormai non lottano più" e che la storia "crudelmente nuova ha dato altri ideali"?
Pasolini vede quei giovani tornare, raccontare ancora la loro esperienza di libertà, rivolgersi ai loro coetanei di tutti gli amari tempi delle Restaurazioni di varie impronte politiche che, eliminando ogni dialettica costruttiva, hanno inteso imporre un pensiero unico, mascherato magari da falsa tolleranza, ma programmato per dirigere in modo univoco menti ed energie vitali, per renderle prive di ogni reale passione.
Nella schiera di quei giovani che tornano, Pasolini vede anche suo fratello Guido , morto partigiano, nel '45, per lottare contro le divisioni del mondo, ma anche lui riprende il "sanguinoso sonno" , "solo tra le foglie secche" , nei "sereni eremi di un  bosco delle prealpi" , "perso nell'oro della pace d'una interminabile domenica".
Ma se la nostra storia è finita, quale sarà la nostra vittoria?
Se Pasolini, nel 1970, è teso a distinguere tra la  contestazione fatua, che altro non era che la Restaurazione in chiave totalitaristica del potere economico borghese, e la vera "rabbia", continua, nonostante non si dia più delle speranze, a sostenere lo spirito rivoluzionario dei movimenti della sinistra giovanile anche extraparlamentare: "gettare il proprio corpo nella lotta", ma prendendo seriamente sul serio quel corpo, in verità e passione, senza imitare i vecchi padri parlamentari, ma organizzandosi come vera opposizione, su solide radici culturali. L'immagine dura del corpo "coperto di croste" , "eternamente crocifisso", non può essere considerato un fatto privato, ma esprime una radicalità di comportamenti, di percorsi d'azione e di incidenza ideologica nel tessuto molle della società, radicalmente opposti anche al comune ed ormai stantio modo di intendere la lotta di classe. Insomma, un cambiamento di rotta inequivocabilmente irriducibile a qualsiasi compromesso con il potere, che in quegli anni si rinverginava sotto l'egida del compromesso storico.
In Charta (sporca) , Pasolini chiama questa irriducibile opposizione ad ogni forma di potere, " Confusione dei Sogni" che le "persone serie" non vogliono neppure prendere in considerazione. È una ricerca continua... ambigua,  tra strozzature di verso e parole "illeggibili", magma di idee dalla irriconoscibile fisionomia, ma gli uomini del futuro sono gli uomini del sogno! Pasolini è tra borghesia e classe operaia...poeta con la "corona di quercia" in testa, isolato o strumentalizzato, secondo le circostanze. Lo si vuol far apparire un uomo debole, secondo un disegno "folle e indegno". Ma Pasolini non vuole essere rapito al "Terzo Cielo": decide di parlare da "uomo debole", manifestando in realtà tutta la forza della sua intelligenza. "Di tutti quei sogni non mi è rimasta che la forza". Pertanto non vi può essere alcuna pacificazione.
Sì, anche noi oggi, nuovi lettori di Pasolini, comprendiamo che non vi è alcuna ragione di scrivere in calce alla sua Poesia la parola FINE.



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice


Pasolini, un falso intelligente- Socialisti ricordate i giorni di luglio -

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"ERETICO & CORSARO"



Pasolini
Socialisti ricordate i giorni di luglio
un falso intelligente.

Il contesto storico

Marzo del 1960, Fernando Tambroni riceve l'incarico dal Preside della Repubblica Giovanni Gronchi di formare un governo di emergenza per approvare il bilancio dello stato e per gestire i preparativi per le Olimpiadi di Roma, che si tennero dal 25 agosto all'11 settembre 1960. Tambroni  inizialmente apre ad un'alleanza con il P.S.I. di Pietro Nenni, proposta che genera un  forte dibattito interno al partito dei socialisti a quel tempo alleato con il P.C.I. e all'opposizione. I tempi stretti per realizzare il governo spingono Tambroni ad accettare l'appoggio esterno del M.S.I. e a rinunciare all'alleanza con i socialisti. 
L' alleanza tra la DC e il PSI inizia a muovere i primi passi tra il 1960 e il 1961, con numerose giunte locali di centro-sinistra. La convergenza tra i due partiti viene trovata sostanzialmente su alcuni punti: nazionalizzazione delle fonti di energia; diritto allo studio e potenziamento della scuola obbligatoria fino 14 anni; piano per rivalutare la campagna; istituzione delle regioni a statuto speciale. Queste le basi che portano nel 1963 alla nascita del centro-sinistra con il suo primo governo  che vede Aldo Moro Presidente del Consiglio appoggiato da una coalizione formata da DC, PSI, PSDI e PRI, alla scissione interna del partito socialista con la nascita del  PSIUP, e alla fine dell'alleanza PCI-PSI.




La poesia "apocrifa" di Pasolini

Mercoledi 6 dicembre 1960, sull'Unità vengono pubblicati dei versi attribuiti a Pier Paolo Pasolini:


Lo scrittore Pier Paolo Pasolini ci ha mandato questi versi accompagnati dalla seguente lettera:

Cari amici, vi mando mentre si svolge un drammatico dibattito nel Comitato centrale del PSI che potrà essere cruciale per le sorti dell'Italia democratica e popolare, In  questi pochi versi un grido di passione politica troppo immediato ed informe, forse, ma dettato da profondo turbamento ed allarme.
Pier Paolo Pasolini.


Il socialismo muove a connubio con l'impura
democrazia cristiana? Era questa la meta?
No. La protesta del popolo è più ardente, non ristagna
anche se il neocapitalismo la sua trappola grifagna
dilata con mostruosa astuzia di organismo immenso e immondo
lieto della vorace menzogna con cui già avvolge il mondo
e le torpide menti di capziosi bisogni ottunde e nutre
fingendo progresso ciò che è abdicare alla vita.
Solo la guida di Marx è arra di riuscita
all'umile e violenta onestà proletaria!.
Questa non è inerzia protestataria
o massimalismo estremistico, ma pressione genuina
delle masse contro l'oppressione borghese.

Sull'orizzonte romano orlato di mille chiese
sempre più sorda scende un'ala nera
come il cappello censurato di Anita
dall'oblò della cupola vaticana
nel fosco simbolo della "dolce vita".
Perché quest'ora non si spenga avvilita
chiediamo che il socialismo sia mondo dall'impuro
connubio, che nel misero porto delle giunte
non anneghi la sua tensione rivoluzionarla,
e l'oscuro calcolo della destra poliziesca, e bigotta
non metta In rete la buonafede nenniana.
Il ricordo di luglio ancora in tutti scotta.

Pier Paolo Pasolini.


Ma Pier Paolo Pasolini dice di non aver mai scritto questa poesia inviata all'Unità.

La risposta di Pasolini ai versi.



Apocrifa una poesia di Pasolini che deprecava il "centro-sinistra

La Stampa, 
9 dicembre 1960, 
pag. 7 

Era comparsa nella terza pagina de «l'Unità»
Un ignoto burlone ha imitato perfettamente lo stile dello scrittore romano 

Roma, 8 dicembre.. 

Una" poesia dello scrittore Pier Paolo Pasolini, nella quale l'autore deprecava la possibilità di una soluzione di centro-sinistra nelle « giunte difficili » e che l'Unità di Roma e di Torino avevano pubblicato con largo rilievo tipo grafico è risultata apocrifa. E' stato lo stesso Pasolini a scrivere al quotidiano comunista affermando di non essere l'autore dei versi, in realtà piuttosto brutti, attribuendo l'invio della breve lirica allo « scherzo di un ignoto ». 

La poesia, intitolata « Socialisti, ricordate i giorni di luglio! », era stata pubblicata dalle due edizioni de l'Unità il 6 dicembre, in apertura di terza pagina, corredata dalla foto dello scrittore e dalla lettera unita alla lirica in cui fra l'altro era detto che la composizione era stata ispirata da < profondo turbamento ed allarme, mentre si svolge un drammatico dibattito al comitato centrale del psi che potrà essere cruciale per le sorti dell'Italia democratica e popolare ».

La lirica, nella quale si diceva fra l'altro che 


« solo la guida di Marx è arra di riuscita », 

concludeva con questi versi: 


«Perché quest'ora non si spenga avvilita / chiediamo che il socialismo sia mondo dall'impuro / connubio, che nel misero porto delle Giunte / non anneghi la sua tensione rivoluzionaria, / e l'oscuro calcolo della destra poliziesca e bigotta / non metta in rete la buona fede nenniana ». 

Pier Paolo Pasolini ha smentito di essere l'autore della poesia e naturalmente della lettera di accompagnamento. Ha ammesso tuttavia che l'ignoto autore dello scherzo ha realizzato, con quella lirica, 


«una caricatura, purtroppo intelligente » 

del suo stile di poeta. Nel contempo lo scrittore ha inviato a l'Unità alcuni versi — intitolati « Epigramma ad ignoto »  — con i quali risponde all'autore dello scherzo. Eccoli: 

Epigramma ad ignoto 

Bene. Non sono inimitabile
un colto ignoto può imitarmi,
rendendomi solo un po' sclerotico.

Ma il mio imitatore borghese, che fa"
questi squisiti scherzi alla rossa " Unità "
sappia che chi mima lo stile mima un'anima;
recitando me egli per poco è stato me
per poco egli è stato più realista del re.

(Lo stile è irreversibile! . Vedi il borghese Wittgenstein...)
così il colto ignoto che fa scherzi qualunquisti,
resterà per sempre marxista in questi stilemi marxisti. 

Pier Paolo Pasolini.


La polemica che ne deriva



STAMPA SERA Venerdì 9
Sabato 10 Dicembre 1960 

Lo poesia apocrifa di Pasolini ho provocato una vivace polemica Il quotidiano del PSI attacca il giornale comunista par aver pubblicato i versi senza accertarne l'autenticità - Una dichiarazione delle scrittore sulle idee attribuitegli

Roma, venerdì sera. 

L'episodio della falsa poesia di Pier Paolo Pasolini pubblicata In terza pagina dell'Unità e sconfessata da una lettera dello scrittore allo stesso quotidiano comunista, costretto a pubblicarla a 48 ore di distanza, viene stamane sottolineato con molta vivacità dall'Avanti!

L'organo del PSI ne prende spunto per rilavare come la poesia falsa «violentemente socialista» sia stata pubblicata «immediatamente» dal giornale del PCI, e riproduce le due poesie: l'apocrifo dedicato al «connubio» tra socialismo e democrazia-cristiana e gli autentici, successivi versi di Pasolini che accompagnava la lettera di smentita al quotidiano comunista con un < epigramma ad ignoto» nel quale definiva «borghese imitatore» chi «fa questi squisiti scherzi alla rossa Unità» (ed è la prima volta che quest'ultima ospita nelle sue stesse colonne una definizione del genere...). Anzi, questo ultime parole sono servite stamane all'Aranti! per un titolo in prima pagina, a quattro colonne.

Il giornale socialista, ohe non si lascia sfuggire l'occasione per affermare che «l'Unità è incorsa in uno di quegli infortuni che rimangono nella storia del giornalismo per la gioia del ricercatori di curiosità letterarie è di costume» rivela poi l'esistenza di «un ignoto imitatore che già altre volte ha tentato, di far' pubblicare dal giornali scritti imitanti lo stile dello scrittore ». 

Cosi accadde per una coda al poemetto "In morte del realismo" inviato al giornale comunista del pomeriggio; questo, prima di pubblicarlo, ne accertò la falsità rivolgendosi direttamente a Pasolini. Da ciò l'Avanti, espresso il proprio stupore per il fatto che l'Unità non si sia comportata nello stesso modo, ne deduce che «l'Immediata e incauta pubblicazione è dovuta, al contenuto violentemente antisocialista della falsa poesia, poiché è già da tempo che l'organo comunista non tralascia neppure la più piccola occasione per insistere nella sua convulsa polemica contro il PSI». 

L'autore bersagliato dagli scherzi del «borghese imitatore» aveva scritto all'Unità di «eseguire con interesse, emozione, rabbia o gioia di volta in volta i dilemmi del PSI»; Interpellato dal quotidiano del PSI, Pier Paolo Pasolini questa volta ha dichiarato:

Se sentissi di dovere esprimere opinioni e considerazioni sui socialisti e sulla loro azione politica mi rivolgerei direttamente all'Avanti! 




Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini e Ennio Morricone - La morte della musica.

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"ERETICO & CORSARO"



Pasolini e Ennio Morricone
La morte della musica.



"Arrivò da me per Uccellacci e uccellini, il film con Totò. 
Mi diede una lista di brani da inserire e io gli dissi: 
mi diverto ancora a scrivere la mia musica, 
è venuto dalla persona sbagliata! 
Poi mi lasciò libero di comporre. 
Abbiamo fatto insieme cinque film. 
Però voleva che ci mettessi, per questioni scaramantiche, 
una musica persistente. 
In Uccellacci e uccellini fu il tema di un'opera di Mozart, 
e lo inclusi eseguito da un'ocarina. 
Gli bastava che ci fosse. 
In Teorema, sempre per superstizione, 
volle il Requiem mozartiano e io 
ne misi una citazione nascosta nelle dissonanze."




Ennio Morricone ha lavorato con Pasolini in:

"Uccellacci E Uccellini"

"Teorema"

"I Racconti Di Canterbury"

"Il Fiore Delle Mille E Una Notte"

"Salò" O "Le 120 Giornate Di Sodoma"






È curioso osservare e riesaminare la propria vita attraverso un percorso del genere. A essere onesto non avrei mai pensato che lo avrei fatto. Poi recentemente ho conosciuto Alessandro, e questo progetto si è sviluppato così gradualmente e spontaneamente che io stesso ho ripreso contatto con i fatti che emergevano, quasi senza rendermene conto, man mano.
Oggi posso dire d’aver assunto nuove posizioni rispetto ad alcuni accadimenti, quelli che solitamente durante l’arco di una vita succedono e basta, senza avere il tempo di essere analizzati e messi in prospettiva. Forse questa lunga esplorazione, questa lunga riflessione, a questo punto della mia vita è stata importante e persino necessaria. E poi, come ho scoperto, entrare in contatto con i ricordi non significa solamente malinconia di qualcosa che sfugge via come il tempo, ma anche guardare avanti, capire che ci sono ancora, e chissà quanto ancora può succedere.
Si tratta senza ombra di dubbio del miglior libro che mi riguarda, il più autentico, il più dettagliato e curato.
Il più vero.
Ennio Morricone


Ennio Morricone, Inseguendo quel suono.
La mia musica, la mia vita, conversazioni con Alessandro De Rosa.
Ed. Mondadori, 496 pagine.

Il ricordo di Ennio Morricone che segue, è tratto dal lavoro  di 
Alessandro De Rosa
*
Ennio Morricone, 
Inseguendo quel suono. 
La mia musica, la mia vita, 
conversazioni con Alessandro De Rosa. 
Ed. Mondadori, 496 pagine.



Diventaste mai davvero amici?

Una volta ricordo che andai a trovarlo con mia moglie a casa sua all’Eur, ma non posso definire la nostra un’amicizia. C’erano stima e un sincero rispetto reciproco, ma raramente ci si incontrava al di fuori della moviola o di alcune riunioni di lavoro. Era una persona discreta, civilissima e gentilissima, delicata e sempre generosa, aperta alla gente e alle idee. Ma da un certo punto di vista mi risultava complicato avere a che fare con lui: in tutti i nostri incontri mi fu difficile, se non impossibile, scorgere un sorriso sul suo volto. Sempre imbronciato, cupo, sorrideva solo quando lo raggiungevano Ninetto Davoli o Sergio Citti. Ti dicevo prima che ci siamo sempre dati del lei… Era un po’ come quando ci si rapporta con un professore, anche se lui non dava sfoggio delle sue capacità, perché era molto umile. Ma l’aura che lo circondava, questo sì, imponeva un certo distacco.

Nella Roma degli anni Sessanta e Settanta è possibile che anche la sua omosessualità, giudicata scandalosa, contribuisse a creare distacco. Questo influì sui vostri rapporti? Nel corso degli anni ho lavorato con almeno una decina di registi dichiaratamente omosessuali e non mi sono mai lasciato influenzare da queste etichette. Per me ciò che conta è la persona, il professionista con cui collaboro. In certi casi lo scoprivo dopo, da terzi, perché tutti mantenevano un pudore estremo. Il giorno in cui mi dissero che Bolognini lo era, ne rimasi colpito perché non ci avevo mai pensato. Lo stesso potrei dire di Patroni Griffi, anche se ricordo che quando ci incontravamo lui mi abbracciava con grandi effusioni. Dopo la scoperta ripensai a questo e mi chiesi: queste sono le cose che definiscono un omosessuale? Sono solo etichette, generalizzazioni, mi risposi. Ognuno è com’è. Ovviamente la stampa calcava la mano. E sul «caso» Pasolini mi erano giunte delle voci. Io, però, non mi sono lasciato mai impressionare dai presunti «scandali». Erano fatti suoi: lo ripeto, per me conta solo la persona.

Rapporto distaccato o meno, so che ti sentisti libero di raccontargli una tua sorta di soggetto cinematografico: «La morte della musica»…

Perché, come dicevo prima, era molto aperto agli altri. Fu una sera appena dopo l’uscita di Teorema, al ristorante L’Escargot in via Appia Antica. C’era anche Enzo Ocone e, più tardi, ci raggiunse Fellini. Non so come mi venne in mente quella storia né come si materializzò (non l’ho mai scritta, anche se l’ho conservata nella mia mente per anni), ma in quel periodo pensavo che sarebbe stato bello farci un film. A un tratto mi feci coraggio e la raccontai a Pasolini:

La morte della musica In una terra e in un tempo indefiniti c’è una comunità che vive oltre le guerre e i conflitti. Lo scorrere del tempo è misurato dai cicli naturali e non esistono orologi. Gli individui indossano vesti il cui colore cambia al mutare delle emozioni. Si vive in una ideale serenità e armonia, in cui governi o corpi di polizia sono semplicemente innecessari. Nessun odio né alcun conflitto. Un giorno qualcuno, sembra una sorta di capo o leader, decide di abolire quella che sarebbe l’unica fonte di turbamento per gli animi delle persone: la musica. Questa improvvisa imposizione, ritenuta necessaria per preservare ordine e tranquillità, segna di fatto l’inizio di una dittatura. Non solo ogni suono, ma ogni sfumatura del linguaggio e persino i rumori legati al movimento vengono così vietati. Tuttavia alcuni individui decidono di disubbidire formando delle sette segrete dove la musica viene tenuta in vita attraverso i suoni più semplici, quelli della vita quotidiana. La rivoluzione germina e si sviluppa attraverso gli oggetti di ogni giorno, il ritmo del proprio passo, i sospiri. Un giorno questo presunto capo ha una visione: quando il mare si tingerà di verde, tutti capteranno il suo messaggio. L’intera comunità accorre presso la spiaggia aspettandosi un segno, una rivelazione. Quando finalmente il mare diventa verde, ecco quel messaggio tanto atteso: dall’acqua fuoriescono tutti quei suoni calpestati, dimenticati, in una mescolanza indistinta ma al contempo comprensibile. Vivaldi, Stravinskij, Bach, Verdi, Mahler… È la fine della rivoluzione, la resurrezione della musica. La sua vittoria. Pasolini rimase in silenzio, pensieroso per un attimo, poi mi disse che gli sembrava molto interessante, ma che purtroppo non avrebbe potuto svilupparla perché per lui c’erano difficoltà tecniche troppo grandi da superare per farne un film. Mi disse anche che stava studiando e raccogliendo informazioni per un film su San Paolo, che però poi non realizzò mai. Ma non lasciò cadere la cosa lì. Si alzò e andò al telefono: poco dopo, come dicevo, ci raggiunse Federico Fellini. Mi chiesero di parlare nuovamente di questa storia e Fellini inizialmente si disse interessato, ma poi anch’egli non ne realizzò mai un film. Dopo alcuni anni mi rassegnai: La morte della musica non sarebbe mai stata rappresentata. Ma quella fu comunque una serata incredibile.
Alessandro De Rosa




Ennio Morricone (1928), diplomato in tromba e in composizione al Conservatorio di Roma, si è cimentato in tutte le forme di espressione musicale, dapprima come orchestratore e direttore in campo discografico, poi come compositore per il teatro, la radio, la televisione e il cinema. Ha composto oltre quattrocentocinquanta colonne sonore e più di cento opere di musica assoluta. Nel 2007 ha ricevuto l’Oscar alla carriera e nel 2016 l’Oscar alla miglior colonna sonora originale per The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Alessandro De Rosa (1985) ha iniziato gli studi di chitarra per poi proseguire con quelli di composizione su consiglio di Ennio Morricone. Ha studiato con Boris Porena e si è diplomato in Olanda al Conservatorio Reale dell’Aja. Ha collaborato come compositore e arrangiatore con Jon Anderson degli Yes. Lavora per la Rai e, come A&R and Talent Manager, per Pastelle Music.


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Chiara Giorcelli
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ISBN
ISBN-10: 8804663510 ISBN-13: 978-8804663515 ISBN 978-84-16665-47-1

Strumento di pubblicazione
Mondadori - www.mondadori.com

Premi
Premio Giovanni Paolo I - 2016



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice
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