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Un uomo "diverso", lo scandalo Pasolini

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"ERETICO & CORSARO"



Un uomo "diverso", lo scandalo Pasolini
LA STAMPA 
Anno 109 - Numero 255
Martedì 4 Novembre 1975


Roma, 3 novembre 1975.

   Corruzione di minorenne: è il primo reato che viene contestato a Pierpaolo Pasolini. Siamo nel 1949, a Casarsa nel Friuli, durante la sagra di San Sabino. Pasolini è un giovane professore. Il suo nome viene implicato in un'orgia studentesca. In seguito egli tornerà innumerevoli volte a sedere sul banco degli imputati, accusato di tentata rapina, vilipendio della religione di Stato, ricettazione, oscenità, lesione del comune sentimento del pudore, istigazione alla disobbedienza della disciplina militare, apologia ed esaltazione di fatti contrari alle leggi, disgregazione degli ideali dell'esercito, sovvertimento violento degli ordinamenti costituiti dello Stato, istigazione a commettere delitti.

   Ogni accusa ha portato a un processo, costellato da una sequela di ricorsi e di appelli. Tante vicende giudiziarie appaiono oggi come altrettanti momenti di un unico processo intentato contro (do scandalo Pasolini», lo scandalo che l'artista stesso rappresentava con la sua caparbia ostinazione nel definirsi «diverso» nel manifestare apertamente scelte e comportamenti «irregolari», nel denunciare la violenza del potere, la corruzione della classe dominante, la sordità della Chiesa ufficiale, i tranelli del moralismo gauchista, la continuità fra il ventennio fascista e il trentennio democristiano, il settarismo della cultura ufficiale, gli effetti disgreganti di uno sviluppo che non è progresso, ma consumismo e mercificazione di massa, i falsi miti del nostro tempo, le facili etichette, i luoghi comuni consolanti.

   Per la destra è stato un simbolo, da esecrare senza mezzi termini. «Anomalo sessuale, psicopatico pericoloso» veniva definito abitualmente. Alla prima di «Mamma Roma», nella capitale, lo presero a schiaffi. Alla presentazione di «Accattone», al Lido di Venezia, fu bersagliato da pomodori, uova marce, fischi, invettive. Le provocazioni venivano dai passanti dagli sketches radiofonici. Il linguaggio usato contro di lui era irriducibilmente volgare. Quando gli venne conferito il premio «Città di Crotone», il prefetto di Catanzaro annullò il riconoscimento. La tensione emotiva che egli riusciva ad attizzare — suscitando su di sé collera, violenza, sarcasmo, antipatia, rifiuto, odio — era proporzionale al crescere della sua notorietà e alla sua autorevolezza di artista.

   Lo «scandalo Pasolini» continuamente si ripresentava, sotto diverse facce. Nel '54 fu il suo primo libro di successo, «Ragazzi di vita», che si attirò — insieme con le polemiche letterarie — l'accusa di oscenità: il processo si concluse con un'assoluzione. Poi fu la volta di un epigramma dedicato a Pio XII, morto di recente. I versi dicevano:


«Ma la tua religione non parla di pietà? - Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato - davanti ai tuoi occhi - sono vissuti in stabbi e porcili. - Lo sapevi: peccare non significa fare il male. - Non fare il bene, questo significa peccare. Non c'è stato un peccatore più grande di te» 

Valentino Bompiani, che aveva pubblicato la composizione, fu espulso dal Circolo romano della caccia.

   Premio Strega del '60, l'anno della «Ragazza di Bube» di Cassola: alla presentazione dei finalisti, egli lesse una lunga poesia che parafrasava l'orazione funebre di Antonio. Era contro Cassola, denunciava «La morte del realismo». 1968: in versi Pasolini lanciò il suo anatema contro gli studenti figli di papà, e si schierò dalla parte dei poliziotti, figli del proletariato; si ritirò dal Premio Strega e invitò a votare scheda bianca; fu al palazzo del cinema del Lido di Venezia, fra i cineasti contestatori.

   L'irritazione che egli riusciva a seminare intorno a sé, si allargava. Nel '60 fu querelato dai genitori di alcuni ragazzi, che lo accusavano di istigazione alla prostituzione. Nello stesso anno si dovette difendere dall'accusa di favoreggiamento: nella vecchia via Di Panico aveva preso a bordo della sua vettura un giovane che aveva partecipato a una rissa. Fu querelato da un giovane del Tiburtino 111, che si riconobbe nel personaggio di un suo romanzo.

   Nel '61 un distributore di benzina di San Felice Circeo, vittima di una tentata rapina, denunciò lo scrittore. Pasolini respinse ogni accusa. Al processo di primo grado, nel '62, fu condannato a 15 giorni. In appello fu amnistiato. Nel '69 lo querelò il regista Zeffirelli. Nello stesso anno il pretore di Venezia lo assolse per gli incidenti accaduti alla mostra cinematografica. Nel '71 fu di nuovo sul banco degli imputati, dinanzi alla Corte d'appello di Torino, insieme con Pannella e esponenti di «Lotta continua»: gli vennero contestati i reati di disobbedienza alla disciplina militare, disgregazione degli ideali dell'esercito, eccetera.

   Quasi tutta la sua produzione cinematografica è stata contrassegnata da denunce, polemiche, sequestri, processi, conflitti con le commissioni di censura. Divennero «casi» giudiziari e culturali Accattone, Mamma Roma, La ricotta (l'accusa di oscenità e vilipendio alla religione fu sostenuta dal giudice Di Gennaro; la condanna fu di 4 mesi), Teorema, Porcile, I racconti di Canterbury. Ogni volta che la magistratura interveniva, Pasolini era lì, paziente e risentito, pronto a difendere la sua opera. Denunciava «l'oscenità della Tv, la pornografia della produzione cinematografica corrente». Diceva che «la censura è il fatto davvero indecente, perché violenza alla libertà di pensiero e di comunicazione».

Liliana Madeo


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:


Alessandro Barbato.
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Omicidio Pasolini - Le notizie trasformate in sentenze.

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Omicidio Pasolini - Le notizie trasformate in sentenze.
LA STAMPA 
Anno 109 - Numero 255
Martedì 4 Novembre 1975 

Sono in un caffè di Roma, col mio pacco di giornali sotto il braccio, tutti con i titoli grandi e le fotografie emozionanti. Pasolini è stato assassinato. Intorno a me preme la folla romana del cappuccino. Sento le voci della mattina, accalorate, confuse Parlano tutti di Pasolini. Involontariamente le ascolto; voci uguali e sfasate, chiare e confuse, come in un montaggio alla radio. E questo groviglio di voci — che sono gli «editoriali spontanei» della gente, degli ascoltatori e lettori dei mezzi di comunicazione di massa, la mattina dopo lo scoppio di una tragedia — mi fa venire in mente una immagine tragica e grottesca dei tempi della pop-art. Un giorno in una galleria d'arte ho visto uno strano carro funebre. Davanti era una limousine, nera, lucente, foderata di velluto di cuoio. Dietro era un carro dell'immondizia. In mezzo c'era un cristallo come quelli che separavano una volta l'autista dai suoi padroni.

Il fiume di notizie sulla morte di Pasolini, le voci che sento e che ripetono senza fine i comunicati dell'Ansa, mi ricordano quella costruzione scombinata e tristemente ridicola. Di qua c'è il ricordo serio e commosso di letterati e di artisti, le parole del dolore e quelle del ritratto di artista. Ma di là c'è la storia morbosa e «completa» del fatto. E qui c'è qualcosa di terribile che colpisce in faccia coloro che si occupano di comunicazioni e che hanno la responsabilità delle notizie. Muore Pasolini, nel modo tragico che sappiamo e in poche ore viene fuori una storia completa di ogni dettaglio: il modo, il luogo, le tappe, il «tipo di rapporti», e (per usare l'espressione del famoso film di Scola)


«tutti i particolari in cronaca». 

Ma di che particolari si tratta? Si tratta di un collage deformato, composto mettendo insieme la legittima e disperata difesa del ragazzo, e tutte le cose che Pasolini avrebbe detto e fatto. All'uno, all'imputato viene tolto il diritto sacro di tutte le società democratiche, di essere considerato solo come indiziato. All'altro, alla vittima — o alla parie civile che ne dovrà rappresentare i diritti — viene buttata addosso la pietra del fatto compiuto, della narrazione completa, ora che la sua voce di «parte lesa» non può più essere ascoltata. Nel mio caffè romano all'ora del cappuccino tutti avevano in mano i giornali pieni di grandi titoli commossi. Ma tutti si raccontavano a voce la storia diffusa dall'Ansa, il racconto completo in cui i verbi al condizionale sono sfuggiti alla gente che, come un tribunale di milioni conclude:


eh già, quelli muoiono tutti così. 

Se un fatto del genere avvenisse in Inghilterra o in America (dove ogni ricostruzione del fatto, ogni narrazione è vietata agli organi ufficiali di una inchiesta) il giudice dichiarerebbe che «il processo è impossibile». Impossibile perché la gente ha già giudicato e archiviato il caso. Il problema è specialmente grave se visto dalla parte dei giornalisti. Infatti i cronisti che sono stati tutto il giorno a contatto con la polizia parlano di cautela, di perplessità, di discrezione e rispetto.

Ma qualcuno, nelle agenzie, ha compilato la storia con «tutti i particolari in cronaca» che milioni di italiani hanno ascoltato, formulata e accettata come un verdetto finale. Questo modo, di fare diventare certezza ciò che non è né compiuto né certo né giuridicamente autentico (e persino: non consentito, si tratta di segreto istruttorio fino a una sentenza) fa nascere quel continuo moto pendolare dell'opinione pubblica in Italia: credere a tutto subito, dubitare di tutto in seguito, con una sfiducia che erode sempre di più il rapporto fra il cittadino e le sue istituzioni.

Il torrente di notizie e dettagli — giunti alla gente come finali e sicuri sulla morte di Pasolini — si è trasformato in una sentenza illegittima. Viola il diritto della difesa, pubblicandone le ragioni (che sono ragioni di parte e diventano invece narrazione del fatto). E viola le ragioni della vittima, lasciando affiorare abbastanza chiaramente che sotto c'è il pregiudizio per questo tipo di vittima.

Pregiudizio vuol dire letteralmente « giudicare in anticipo ». Questo giudicare in anticipo non è un diritto, anzi è la violazione del diritto contro cui è urgente che chi ha responsabilità di informazione protesti. Io mi aspetto che protesti anche il giudice. E' come se qualcuno gli avesse tolto di mano il privilegio esclusivo, che il giudice esercita a nome di tutti, di indagare, ascoltare, confrontare, concludere. Anche il suo diritto, dall'informazione apparentemente «completa», è stato violato.
Furio Colombo.




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PIER PAOLO PASOLINI: LA VIOLENZA HA SPENTO LA POESIA - Di Enzo Sicilamo

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(Immagine - Jerry-Bauer -Pasolini a Ostia)


PIER PAOLO PASOLINI: LA VIOLENZA HA SPENTO LA POESIA
STAMPA SERA 
Lunedì 3 Novembre 1975
Anno 107 • Numero 245 

Diceva sempre la sua verità non veniva a patti col mondo 

Pier Paolo era un amico generoso e dolce: aveva uno sguardo mite, la voce gentile anche quando s'infervorava, anche quando dibatteva le sue idee con veemenza, la veemenza che gli dava la certezza della solitudine. 

La sua amicizia sembrava arrivare da lontano: sapeva sempre in anticipo dirti i tuoi pensieri. Egli ha saputo anche dire in anticipo le ragioni del proprio assassinio. E questo, per chi lo ha amato, è un motivo di strazio inconsolabile. 

Raccontare la sua esistenza, testimoniare della sua genialità, è facilissimo e difficilissimo in questo momento. Sembra che Pasolini sia riuscito a far coincidere, come accade talvolta ai poeti, l'invenzione e la realtà. 

Quale realtà? Bisogna citare i suoi versi, bisogna con la memoria tornare alle immagini di « Accattone », il film col quale dette modo a tutti di constatare lo scempio cui la vita si riduce fra i sottoproletari. 


« Poi... Ah, nel sole è la mia sola lietezza...
Quei corpi, coi calzoni dell'estate,
un po' lisi nel grembo per la distratta carezza
di rozze mani impolverate... Le sudate
comitive di maschi adolescenti,
sui margini di prati, sotto facciate
di case, nei crepuscoli cocenti...
L'orgasmo della città festiva,
la pace delle campagne rifiorenti... ». 


Per ideologia 

Il poeta, in lui, aveva rovesciato la sua ottica tradizionale: non scendeva a patti col mondo, si lasciava intridere di tutti i più degradati odori della vita, per « passione » e per « ideologia ». 

La sua non fu una poesia nutrita da ciò che turba la coscienza per le vie di un distorto edonismo. Pasolini non era turbato dallo spettacolo del mondo, di quel mondo che reinventava nelle sue parole, nei suoi versi, con la sua cinepresa: egli cercava in ciò che scopriva sconfitto e deletto, buttato ai margini dei luccicanti orizzonti del « miracolo italiano » e poi della « civiltà dei consumi », le ragioni di forza per il suo intelletto. 

Aveva il coraggio di dire sempre la sua verità, sconfessando le reticenze degli altri. E' vissuto di questo coraggio, sfidando chiunque, sfidando persino il suo stesso cuore. 


« ...quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando
a ogni mia antica dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna, e stanca e vitale
riflette la mia lingua una fantasia
di figlio che non sarà mai padre... ». 

Giro intorno alle parole, e sento che non ricompongono le membra sparse di Pier Paolo. Vano è riaccendere il fuoco della sua « disperata vitalità »: restano i suoi scritti, i suoi versi. 

Da ultimo diceva di essere un «luterano»: si schermiva con qualche ombra a chi lo accusava di cattolicesimo puro e semplice. In effetti aveva ragione: apparteneva alla lunga schiera dei protestanti in nome della fede, a coloro che credono sia giusto spendere la propria vita, pagare di persona per ogni proprio detto, per i fini del proprio credo. 

Ecco, alle origini, il suo « cuore elegiaco » di poeta: i versi friulani. Già li lo strazio per la morte del fratello, ucciso dagli jugoslavi durante la Resistenza; già li quel suo sguardo radente ai fatti minimi dell'esistere fisiologico: 


« Cutuardis ains!
cuarp cilat di belessa!
i tociavi la me cuessa
sot lì plejs limpiis de la barghessa ». 

Sono versi cantati, dettati in un respiro con l'ansia esclamativa della giovinezza. L'estasi narcisistica è il loro tratto più evidente: una estasi mostrata senza ambiguità. L'idillio sembra prevalere. Oggi, invece, sappiamo che « La meglio gioventù» (è il titolo che egli diede nel '54 ai suoi primi versi, che in plaquettes aveva già stampato nel '42, nel '45, nel '53) è il primo momento d'una ininterrotta dedizione. Pasolini è stato uno straordinario poeta del linguaggio. 

Il linguaggio povero e il linguaggio colto italiano sono passati al suo vaglio, ed egli ne ha dato misura e risultanze attraverso un inesausto lavorare. Ne controllava il suono non sui parametri della musica pura: ne saggiava in profondità, invece, il contenuto ideale, e insieme emozionale. Vi leggeva in trasparenza l'animo di chi lo pronunciava: da quali moventi quest'animo era trascinato, di cosa si faceva attore o verso quale deriva andava a perdersi. Una lettura ideologica, insomma. 


Doppio volto 

I suoi versi hanno, perciò, un doppio volto: esprimendo il cuore del soggetto che si poneva al loro centro, Pasolini medesimo («cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha»), svelano, in una sorta di riverbero inafferrabile, il loro oggetto: «l'umile Italia», dobbiamo dire, ricorrendo al titolo d'un poemetto compreso nel « Le ceneri di Gramsci ». 

L'umile Italia dalle « cocenti » parole dialettali, l'umile Italia nostalgica del suo lontano e lussuoso passato (depositato nella aulicità della sua lingua letteraria): Pasolini se ne sentì investito, e ci fu un momento in cui la violenza sulla sua immaginazione fu tale che egli trapassò, senza soluzione di continuità, con quel mondo nella mente e negli occhi, dalla parola scritta al cinema: dal romanzo al film, da «Ragazzi di vita» (1955) e «Una vita violenta» (1959) a ((Accattone» (1961). La sua esigenza di rappresentazione e conoscenza annullò le paratie dello stile verbale: ricorse ai fotogrammi, cosi come, per arrivare ai romanzi, aveva obliterato il dialetto materno, il friulano, per il romanesco. 

Proprio nel '59, rispondendo a una inchiesta sul romanzo promossa da Moravia per « Nuovi argomenti », Pasolini disse della necessità di « lasciar parlare le cose »: solo che questa operazione richiedeva una virtù: 


« Occorre essere scrittori, e anche perfino vistosamente scrittori ». 

Il passaggio al cinema non presuppone in lui l'abbandono di quel precetto («essere vistosamente scrittori»), quanto un suo potenziamento se, come sosteneva anche, 


« il cinema è la lingua scritta della realtà ». 

La realtà: fu il suo angoscioso bisogno. Era forse la parola che ricorreva più spesso nel suo discorrere. E se qualcosa era per lui « reale » voleva dire che il massimo della compiutezza espressiva e formale era raggiunto. 


Contraddizione 

Lasciar « parlare la realtà»: significava svelarne il connettivo politico, cioè il potenziale di dolore da riscattare, da tradurre in bene se mai l'uomo fosse riuscito a sfiorare con le sue mani il bene. Fu, quindi, Pasolini anche un poeta civile. Lo fu poiché genialmente sottopose la poesia a sollecitanti processi conoscitivi: la parola doveva restituire i contenuti del mondo, la forma plasmarli. Ma sottopose anche se stesso, quel suo cuore coraggioso ed elegiaco, a violenza: parlò per lui la sua lacerazione di uomo, preso in una contraddizione che « Le ceneri di Gramsci » (1956), il primo poemetto « politico » del nostro dopoguerra, dichiarò con sconcertante limpidezza. 

Era Gramsci il suo interlocutore, e Pasolini si confessò: 


«Lo scandalo di contraddirmi, dell'essere, con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro di te nelle buie viscere». 

Gramsci, la sua tomba, la sua storia individuano la prospettiva luminosa del progresso e della ragione: contro tutto ciò le «buie viscere» reagiscono, e le viscere valgono quella parte inconscia dell'uomo che, fuori di ogni razionalità, lo tradisce e oscuramente lo perde. 

Cosa disse per moltissimi in quei versi Pasolini? Cominciò allora la sua stagione felice: egli dava verità al lungo travaglio in cui la letteratura italiana, particolarmente la più nuova, la più giovane, si era avvolta fra spasimi ed esaltazioni dopo il '45, la storia — «lo straccetto rosso della speranza», per dirla nelle sue parole — chiamava ad un rinnovamento lungamente augurato, ma qualcosa recalcitrava nell'animo di tutti. Cosa bisognava riscattare in noi per poter realizzare quel che la nostra stessa volontà chiedeva? 


Quella vitalità 

Pasolini tornò a dirci che quanto cercavamo era in noi e fuori di noi: dovevamo riscattare quella parte di noi diseredata, emarginata, abbandonata alla violenza. Si è parlato, in questo, d'un suo regressivo «populismo»: ma Pasolini aveva in odio la fredda concettualizzazione; era un poeta, e viveva di immagini e della plasticità delle immagini. Il sottoproletariato urbano fu per lui una grande metafora, la metafora della «disperata vitalità» da tradurre in forza positiva, concreta. 

Ecco, allora, quell'«umile Italia» scoperta nei dialetti, nella poesia popolare (grandissimo storico di quest'ultima è stato il giovane Pasolini negli Anni Cinquanta), veniva fisicamente plasmata dalla sua fantasia e offerta come in un'«auto da fé» al comune ripensamento. 

I suoi versi, i suoi romanzi, sappiamo come vennero accolti: denunce e processi. Il personaggio pubblico violava in Pasolini ogni accademica «allurè». La sua presenza era comunque dirompente. Egli perseguitava i suoi nemici nell'intelletto e nella sensibilità in forme cosi esplicite e gioiose, anche d'una ferrigna gioiosità, da suscitare sempre e in ogni momento uno scandalo. 

Ma la ragione ultima di  questo scandalo a lui stesso era nota: ripeto, lo aveva scritto per Gramsci: 


«Lo scandalo di contraddirmi, dell'essere con te e contro di te ». 

Sì, la contraddizione fra coraggio ed elegia, fra epos e narcisismo segnano indelebilmente ogni sua pagina: fino alle ultime, le pagine che amava definire appunto « luterane », le pagine polemiche in cui chiamava in causa quell'umile Italia non più riconoscibile, e sui suoi mutamenti, avvenuti a scorno di ogni razionalismo, voleva sollecitare l'attenzione di tutti. 


Ferocia civile 

Il suo cuore era fermo là, non aveva creduto ai possibili riscatti della società, del benessere, non aveva creduto all'encomiastica di certi politici. L'umile Italia ormai versava nella bruttura e nel fango: sparito il suo dolore, sparite le sue timide vergogne: essa ha il volto della violenza, una violenza immedicabile. 

La poesia non era annegata dentro di lui: era sempre più pigmentata di elementi spuri, non lirici, non eletti; ma era sempre più ricca di bagliori, di ferocia civile. 

Il suo discorso è rimasto a mezzo, in un momento in cui sembrava la sua mente ricchissima di contenuti, di parole inespresse e anche di vaticinio. 

Ripeto: era un uomo dolcissimo, un amico sollecito. Con lui e Moravia abbiamo curato insieme, da nove anni a questa parte, la nuova serie di «Nuovi Argomenti». Per la rivista aveva in animo di raccogliere un'antologia di giovani poeti. Aspettavo per oggi, per domani una telefonata: dovevamo studiare i modi in cui mettere mano alla raccolta. L'umile Italia ormai irresolubilmente violenta l'ha ucciso. La telefonata non verrà. Non sentirò la sua voce quieta dire,


« ciao, sono Pier Paolo ». 
Enzo Siciliano




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Pier Paolo Pasolini, racconto la mia vita - Autobiografia

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Pier Paolo Pasolini, racconto la mia vita
Autobiografia
l'Unità 
Martedì 4 novembre 1975 

Piar Pialo Pasolini  scrisse, nel 1960, la scheda autobiografica che ripubblichiamo qui di seguito. Lo scritto apparve In una raccolta di profili di narratori Italiani edita dal « Sodalizio del Libro» di Venezia, a cura di Elio Filippo Accrocca. 

... Mio padre , quando  sono nato, era tenente di fanteria: apparteneva  a un' un'antica famiglia dì  Ravenna, e aveva  sperperato tutto il patrimonio — passionale, sensuale e  violento di carattere: ed era finito in Libia, senza , un soldo; cosi aveva cominciato la carriera militare; da cui sarebbe poi  stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo. Questo non lo potè accontentare e quindi lo angosciò sempre , fino a una forma  quasi paranoidea negli ultimi anni,  al ritorno  dalla sua terza guerra. Aveva puntato su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le prime poesie a sette anni: aveva intuito, pover'uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni.

Credeva di pote conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo. L'inconciliabilità lo ha fatto impazzire:  nell'atto stesso di capire non capiva più niente... La sua acutissima intelligenza non gli serviva:  era uno strumento che non a mai il «suo o uso. E ci esasperava, ruggiva,  smaniava: a al mondo per soffrire, e quanto ci ha fatti soffrire, me e mia  ! Quando nel 1942  usci il mio primo libretto, Poesie a  Casarsa (in friulano! Fatto assurdo per lui, che, ufficialetto di promo pelo, era capitato a Casarsa, e li  aveva conosciuto mia madre, impadronendosene  subito,  con la sua  prepotenza infantile e centralistica): lo ricevette nel Kenia, dove era prigioniero. Ma, malgrado la assurdità del linguaggio  usato, era dedicato a lui, e questo lo consolava, lo faceva gongolare. Quando tornò io ero a Casarsa, sfollato con mia madre: ero perduto come in una sconfinata intimità i che faceva del Friuli la mia folle sede oggettiva. Mio fratello Guido era morto, partigiano. Mia madre ed io eravamo mezzi distrutti dal dolore. Egli fini cosi a Casarsa, in una specie di nuova prigionia: e cominciò la sua angoscia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i  miei primi libretti, in friulano, segui i miei primi piccoli successi critici,  mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi , guarisse, avrebbe della sua malattia lo stesso ricordo che ho io di quegli anni. Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da piazza Costaguti saremmo andati ad abitare a Ponte Mammolo: già nel cinquanta avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morire. Poi con l'aiuto del poeta in dialetto abruzzese  Vittorio  Clemente trovai un posto d'insegnante in una scuola privata di Cìampino, per  venticinquemila  lire al mese. Due anni di lavoro accanito, di pura lotta: e mio padre sempre là, in attesa, solo nella a cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti. Poi Bassani mi fece entrare nella prima sceneggiatura cinematografica:  e avevo finito i  Ragazzi di vita che Bertolucci segnalò a Garzanti. Mio padre potè finalmente occuparsi di un trasloco che gli dava soddisfazione, che vellicava in lui il piacere del comando, della vanità, del decoro borghese. Andammo a stare a Monteverde, in via Fonteiana: lasciai la scuola, continuai a lavorare, a scrivere versi, a andare avanti con Una vita violenta, a sceneggiare, quando capitava: con la collaborazione a Le notti di Cabiria potei comprarmi anche una «seicento»: che poi diventò una millecento. Ebbi qualche premio, il premio «Città di Parma» per Ragazzi dì vita, il «Viareggio» per Le ceneri di Gramsci (prima ne avevo avuti una dozzina di altri minori: per versi dialettali, critica ecc.). Ma la vita nella mia casa era sempre la stessa, sempre uguale alla morte. Mio padre soffriva, ci faceva soffrire: odiava il mondo che aveva ridotto a due tre dati ossessivi e inconciliabili: era uno che batteva continuamente, disperatamente, la testa contro un muro. La sua agonia vera durò molti mesi: respirava a fatica, con un continuo lamento. Era malato di fegato, e sapeva che era grave, che solo un dito di vino gli faceva male, e ne beveva almeno due litri al giorno. Non si voleva curare, in nome della sua vita retorica. Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai a casa, appena in tempo per vederlo morire. 

Io ora continuo la solita vita: lavoro la mattina a casa: ho da mete a posto un nuovo volume di versi, La ricchezza: sto buttando giù gli appunti per il terzo romanzo, Il Rio della Grana, comincio a tradurre l'Eneide. E poi i lavori pratici, il cinema, la redazione di « Officina » ecc. Il dopopranzo esco, e vado a spasso, quasi sempre almeno fino alle  due di notte: passo dalle borgate e dalla periferia più affamata, a qualche, non frequente, riunione con gli amici. Bertolucci, Bassani, Gadda, Moravia, la Morante, Citati... Oppure, anche, qualche volta nei salotti della Bellonci, della De Giorgi, della Mastrocinque, della Astaldi... Ma la maggior parte della mia vita la trascorro al di là del confine della città, oltre i capolinea, come direbbe, ermetizzando, un cattivo poeta neorealista. 

Amo la vita ferocemente, cosi disperatamente, che non me ne può e bene, dico i dati fisici della vita, il sole, l'erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n'è un'abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro... 
Come andrà a finire, non lo so...
Pier Paolo Pasolini.



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Pasolini, non accetto intimidazioni...

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"Non accetto intimidazioni…". Pasolini inedito
Gideon Bachmann e Pier Paolo Pasolini.
Tratto da:
a cura di Riccardo Costantini
Chiarelettere


 Bachmann

Vorrei sapere se lei è conscio, quando gira, di quanto sta producendo e di come ciò poi agirà sullo spettatore.


Pasolini
È sempre imprevedibile. Anche nei momenti di maggiore intimità, cioè quando scrivo dei versi, momenti in cui domino meglio la materia perché sono da solo con una macchina da scrivere, è sempre impossibile prevedere fino in fondo quello che sarà la poesia oggettivamente, al di fuori della mia intenzione, della mia ispirazione, della mia critica. Sia ben chiara una cosa fin dall’inizio: quando faccio cinema è esattamente come se stessi scrivendo dei versi. Purtroppo sono rimasto molto infantile e molto simile a come mia madre ha voluto che fossi quando ero bambino, quindi non riesco mai veramente a credere nella cattiveria, nel male degli altri. Penso sempre al prossimo come se fosse un prossimo che giudichi in pura buona fede. E ogni volta rimango… deluso.
[…]

Bachmann
Il suo lavoro ha sempre provocato grandi polemiche e le ha procurato molti rancori da parte di un largo segmento della popolazione. Immagino ne sia conscio, ma mi chiedo se ogni tanto si rimproveri di aver fatto degli errori o se ritiene sia sempre la società a sbagliare… Mi piacerebbe sapere se queste reazioni del pubblico ostacolino il raggiungimento dei suoi obiettivi.


Pasolini
A dire il vero, non tutti i settori della vita italiana sono contrari alla mia opera. Lo sono i settori dell’estrema destra, invero molto potenti. Nel fare un lavoro, che si tratti di un romanzo, di poesie o di film, io non posso che preventivare una reazione violenta e contraria così come effettivamente accade. Naturalmente nella mia sincerità non riesco mai a prevenire quanto di feroce, di avverso, c’è nella reazione. Però la prevedo come un fatto ideologico, e avendola prevista evito che interferisca col mio lavoro.

Bachmann
Non è la risposta esatta alla mia domanda. Mi spiego meglio: queste reazioni hanno provocato nel suo intimo un sentimento che influenza il suo lavoro? Per esempio, quando l’abbiamo incontrata a Venezia per la presentazione di Mamma Roma lei in pubblico è stato feroce, anche nei modi, mentre adesso è più calmo, forse perché siamo a Roma nel suo appartamento… Se queste sono domande troppo intime me lo dica… Ma, sa, credo che questa sia la cosa più importante nella sua vita artistica: un poeta può scrivere un poema per sé, ma un poeta polemico, come lei, dipende in una certa maniera da ciò che provoca il poema una volta diventato pubblico…


Pasolini
È un problema molto complesso. Non ho avuto particolari intimidazioni. Prova ne sia un fatto che è successo in tribunale per il film La ricotta. Quando sono stato interrogato, la prima domanda del giudice è stata sulla possibile cattiva interpretazione del mio film. Io ho detto che «sì, si potevano dare delle interpretazioni non giuste, ma in malafede». Questo ha scatenato il pubblico ministero, che si è sentito accusato, e ho rischiato l’arresto in aula. Nel film avevo premesso una dichiarazione in cui prevedevo che la pellicola sarebbe stata interpretata in malafede, e in tribunale l’ho ricordato riconfermando quanto avevo detto. Perciò ho rischiato di essere arrestato. Sono stato meno feroce di quando ho presentato il film a Venezia, però sostanzialmente non sono receduto di un passo, né intendo recedere. Non accetto intimidazioni.
Allo stesso modo, le reazioni scomposte e violente, incivili, di parte del pubblico italiano, non mi hanno turbato.

18 marzo 1963


Fonte:
http://www.illibraio.it/pasolini-ineditogideon-bachmann-260414/


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:


Alessandro Barbato.
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice
Daniele Cenci

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IN CERCA DI TOMMASO - nei luoghi di "Una vita violenta" di Pasolini

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Il romanzo è ambientato nella periferia di Roma, a  Pietralata, sulle rive dell’Aniene. La "Piccola Shangai”, un quartiere di baracche dove viveva Tommasino e descritto dall'autore nel suo romanzo. Pasolini fa una rapida descrizione di luoghi fino ad arrivare ai caseggiati dell' INA-case, nuova abitazione della famiglia di Tommaso, che rappresenta la meta desiderata. Descrive i luoghi per utilità di narrazione e per dare una cronologica di sequenza, senza soffermarsi troppo. Ma ciò nonostante, la loro descrizione serve ad inquadrare il romanzo nel giusto contesto. 

IN CERCA DI TOMMASO

Ponte dell’acquedotto dell’Acqua Marcia, Pietralata.
“Gli faceva effetto, a tornare a quell’ora, che nell’aria si distinguevano ancora bene, all’ultimo barlume, i mandorli e i persichi secchi degli orti, i canneti: e più avanti il ponte dell’acquedotto, sopra l’Aniene che scorreva via gelido e buio”
Collina del Monte del Pecoraro, Pietralata
"Tommasino invece correva sul marciapiede rialzato, addosso al Monte del Pecoraro".
Piazza Vittorio, Roma
”.. come arrivarono a Piazza Vittorio...Chioschi gabinetti, giornalisti, tutto era chiuso. Non passava nessuno. I lampioni tra gli alberi luccicavano per conto loro...."
Distributore Total (ex-Shell), Va Cassia , La Storta.
“Gli altri tre si presentarono al benzinaro, poco prima della Storta, Lello al volante, il Cagone accanto, e Ugo sul sedile di dietro". Si accostarono ed era tutto buio, con solo la conchiglia della Shell che brillava grande come la luna."
Palazzi InaCasa, Via dei Crispolti 19
" Sapeva che casa sua era in Via dei Crispolti, n. 19...C'erano sei o sette palazzine, storte, di sguincio, con file di finestrini tondi, dipinte di rosa scuro, con delle porte dove ci s'arrivava facendo cinque o sei scalini, e tante balaustre a zig zag che le univano tra loro"
Fiume Aniene, presso l’ex Lanificio Luciani, via di Pietralata.

“Al di là dell’Aniene, si stendevano i campi, verso i colli di Tivoli, confusi nell’aria fredda”.
Via Luigi Cesana
"Andò ancora giù per via Luigi Cesana...c'erano delle case una addossata all'altra, a scalinata, in modo che il primo piano della seconda era all'altezza del secondo piano della prima, e cos' avanti: davanti alle facciatine colorate c'erano tante scale esterne che le univano, con dei pianerottoli che facevano come da terrazzine alle porte di ingresso, tutti sbarre e inferriate".
Facciata dell’ex cinema Apollo, Via Cairoli
"Lì davanti c'era il cinema Apollo, pure questo coi cartelloni, zuppi, dietro le reticelle di metallo, e sopra la porta, scritto in lettere di mezzo metro, il titolo del film".
Autobus 211, Via di Pietralata, Roma
"Mentre correva appresso alla palletta, al trotto, arrivò da dietro la curva per Montesacro l'auto: non fece in tempo a frenare, e l'intuzzò col paraurti, buttandolo lungo sul fosso... Toto andò a battere con la capoccetta contro una pietra appozzata nella fanga, e restò lì fermo... solo un goccetto di sangue gli usciva da dietro le orecchie..."
Ospedale Forlanini
"..Scesero, sua madre e lui, andarono a fette per dei vialoni nuovi, e arrivarono davanti all'ingresso del Forlanini: un cancello sbarrato, con accanto una specie di posto di guardia, come nelle caserme. Dietro si vedevano tutti giardini, alberi, e in fondo un palazzone, pieno di colonne, grande come un teatro.."
Ponte Mammolo, Roma
"Così andarono a pedagna a Ponte Mammolo"
Quartiere della Garbatella
“Tutta la Garbatella brillava al sole: le strade in salita coi giardinetti in fila, le case coi tetti spioventi e i cornicioni a piatti cucinati, i mucchi di palazzoni marone con centinaia di finestre e d’abbaini, e le grandi piazzette cogli archi e i portici di roccia finta intorno”.
Fiume Aniene, a sud del quartiere Montesacro, Roma.
"Una nuvolaglia fitta fitta s'era intanto distesa per il cielo, cominciando da dietro il fiume, dopo le case di Montesacro, lontane lontane."
Negozio “Balloon” in Via dei Chiavari, già cinema parrocchiale
“Via dei Chiavari era lì in mezzo, col suo selciato sconnesso e le sue file di facciate, come un budello. A metà della via c’erano delle luci verdognole, al neon, sopra un portone bianco: era il Vittorio, un pidocchietto dove facevano due film”
Negozio di casalinghi (ex bar) in Via Francesco Selmi 35
“il Zimmìo offrì il cappuccino con un maritozzo, a un baretto di Via Selmi, pieno di giovanotti coi vestiti buoni, tutti in grazia di Dio”
Viale del Colosseo
“Roma era tutta gocciolante.. Cadeva giù un’acqua così fitta e leggera che si scioglieva prima di arrivare sul selciato”
Orti presso Via Palmiro Togliatti
“ I burini già avevano smesso di lavorare, negli orti lì attorno, e Via delle Messi d’Oro, coi cerasi e i mandorli al primo boccio, era tutta vuota”
Il Bar Falcioni, Via Tiburtina, Roma.
“Ma ormai Tommaso era in vista del Bar Duemila, ch’era lì, proprio al comincio di Tiburtino, davanti al Monte del Pecoraro”
Arco di Santa Bibiana, Roma
"Il conducente aveva già la mano sulla manopola, la porta si aperse e quello saltò giù dal tram. Tommasino gli andò appresso, con uno zompo, e si ritrovò sulla strada, lì davanti all'arco di Santa Bibiana".
Via delle Messi d’Oro, Pietralata.
“Di tanto in tanto la luce di un lampo, seguita da un tuono fiacco fiacco, faceva vedere la borgata intera, ormai tutta nell’acqua”
Riva del fiume Aniene
“Ma poi, quando diventò notte, si sentì peggio, sempre di più: gli prese un nuovo intaso di sangue, tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso”.

***** 

L’idea di ripercorrere i luoghi descritti da Pasolini ne “Una vita violenta” è seguita alla mia (tardiva, in verità) lettura del romanzo. Tuttavia dovrei aggiungere, ad onore del vero, che la mia stessa infanzia era trascorsa, negli anni Cinquanta, nelle periferie del Prenestino, e per questo motivo il racconto della vita di Tommaso Puzzilli mi riportava in mente immagini lontane di un mondo a me familiare. “Studentini, figli di papà”, per dirla con Pasolini, eravamo noi, i figli degli impiegati statali, che cominciavano a vivere a fianco di coloro che, vissuti per anni nelle baracche, avevano infine avute assegnate le case popolari.
Non fu dunque difficile ritrovare i luoghi del romanzo. Qualche mese di lavoro, fermandosi a conversare nei bar di Pietralata, cercando di intuire dalle facce dei più anziani chi di loro poteva saperne qualcosa del Monte del Pecoraro o del Bar Duemila. Portavo con me il romanzo, casomai avessi avuto dei dubbi. E lentamente ho scoperto alcune cose. La prima è che a Pietralata Pasolini è una leggenda. Magari, se si chiede di lui, c’è sempre chi ammicca con un ghigno per le sue abitudini sessuali, ma nella gente di Pietralata il rispetto per l’uomo è assai diffuso, profondo. Mi hanno indicato la casa, dietro Rebibbia, dove lo scrittore ha vissuto con la madre nel periodo in cui insegnava nel quartiere. Qualcuno mi ha detto di averlo conosciuto, ed era come se parlasse di una leggenda.
Ci sono voluti un po’ più di sei mesi per completare la ricerca e le foto. Molte cose non esistono più: il cinema Lux, poi chiamato Boston, non c’è più, è stato completamente demolito per far posto a una stazione della metro B. La baraccopoli della Piccola Shangai non è neppure più individuabile: era probabilmente adagiata lungo le rive dell’Aniene, poco prima di Montesacro, E’ sparita da anni, non ce n’è traccia nemmeno nella memoria della gente.
Altri luoghi esistono, così come erano a quel tempo.
Le rive dell’Aniene hanno lo stesso andamento zigzagante, la stessa oscurità descritta nel romanzo. L’Aniene, in effetti, è un fiume invisibile, subdolo. Ne sono annegati tanti, nelle sue acque: persino il piccolo Genesio di “Ragazzi di Vita” finisce trascinato dalle correnti presso Ponte Mammolo. Il Bar Duemila è ancora lì, davanti al Tiburtino Terzo. Ha cambiato nome, ma non si è mosso. Le case popolari di Via dei Crispolti 19 sono esattamente lì, come le descrive Pasolini, forse un po’ stinte dalla pioggia.
Altri luoghi sono invece completamente cambiati: il cinema parrocchiale del 1956 è ora una boutique, il bar di via Selmi ospita oggi un negozio di cinesi, e il tram non passa più da anni sotto l’Arco di Santa Bibiana.
Da tutto questo nasce quindi l’idea conclusiva di questa ricerca: partita dalle descrizioni di una Roma lontana, essa è approdata con perplessità a una riflessione in merito al tempo, e al suo andamento misterioso. Come il fiume Aniene, esso scorre senza sosta, senza rumore. Il Tommaso di Pasolini è sopravvissuto perché qualcuno ha fissato la sua storia nelle righe di un romanzo. Ma tanti altri, vissuti con lui, sono scomparsi senza lasciare traccia, proprio come i luoghi di quegli anni. E’ una meditazione un po’ dolente e un po’ rassegnata sul nostro passato, sul senso delle nostre vite.
Ruggero Passeri, ottobre 2013.

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini sul suo teatro - Interviste radiofoniche (1968-1972)

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Pasolini sul suo teatro 
Interviste radiofoniche (1968-1972) 
Estratti audio dalle trasmissioni radiofoniche 
tratte da:



Intervista di Leoncillo Leoncilli a Pier Paolo Pasolini su Orgia 
(RAI, 27 novembre 1968)


Leoncillo Leoncilli - Nell’interpretazione di Laura Betti, Luigi Mezzanotte e Nelide Giammarco, sta per andare in scena al Deposito d’Arte Presente di via San Fermo il primo lavoro teatrale di Pier Paolo Pasolini, Orgia. È anche il primo esempio di ciò che lei, Pasolini, chiama teatro di Parola.
Pier Paolo Pasolini  - Il teatro di Parola è un teatro che si basa esclusivamente sul testo, che esclude l’azione. Cioè, nel palcoscenico non ci saranno duelli, baci, salti, contorsioni e altre cose del genere. Ma tutto sarà semplicemente testo, un po’ come gli antichi greci, insomma, Lo schema teatrale è preso dalla tragedia greca, in cui tutto – appunto – è parola.

Leoncillo Leoncilli - Un dramma in versi, il suo, con una trama che racconta di un matrimonio naufragato e del suicidio di due coniugi. Ma il significato interiore qual è?
Pier Paolo Pasolini - È prima di tutto la diversità. Cioè, che cosa è il diverso in una società che fa della normalità una specie di teologia. E poi, il senso della morte. Cioè, la morte può essere abitudine alla repressione, come dice Marcuse, e quindi può portare a una vita rassegnata da una parte, e peccaminosa dall’altra. Invece questa Orgia insegna in qualche modo a fare “buon uso della morte”.

Intervista di Giancarlo Barberis a Pier Paolo Pasolini e Laura Betti su Orgia 
(RAI, 1 dicembre 1968).



Conduttrice - A Torino è andata in scena – se così si può dire –una nuova opera di Pier Paolo Pasolini, intitolata Orgia. Come sempre le esperienze del poeta e cineasta friulano [sic] sono destinate a provocare polemiche, discussioni, curiosità.

Conduttore - Comunque la fatica della ricerca di un linguaggio nuovo, di una nuova espressione scenica non possono lasciare indifferenti, poiché appartengono a quell’ansia di verità che costituisce il tormento, non sempre sterile, dell’attuale generazione.

Conduttrice - Giancarlo Barberis ha assistito all’insolito spettacolo, restandone – ci sembra – alquanto soggiogato. È uno spettacolo affidato alla suggestione della parola, ed è tempo – ci pare – che la parola riacquisti la sua magia. (Squillo di tromba dallo spettacolo)

Giancarlo Barberis - Questo non è un comune squillo di tromba. È uno di quelli che accompagnano e sottolineano Orgia, il primo esperimento teatrale di Pier Paolo Pasolini, il suo approccio insomma al genere, un approccio che non poteva passare inosservato. Ha scosso, a Torino, quello squillo, una borghesia tranquilla, trasportata di peso davanti a una tragedia spaventosa, presentata in modo inabituale e in un luogo insolito, un deposito d’arte. Ha scosso solo la borghesia, perché solo questa, per ora, è ammessa all’Orgia pasoliniana.


Pier Paolo Pasolini - Sì, per le prime due settimane Orgia è data soltanto agli abbonati. Dopodiché comincia il mio vero e proprio esperimento, sulla ricerca di luoghi, come quello che lei ha descritto, che non siano i luoghi tipici del rito teatrale, cioè i teatri, con le loro poltrone di velluto, e d’altra parte non siano nemmeno i luoghi di protesta contro il tipo di teatro accademico, cioè le cantine. I luoghi che io cercherò sono luoghi che si definiscono già, per loro natura, come luoghi di incontri culturali.


Laura Betti - Sì, sono luoghi, questi di cui parla Pier Paolo, in cui io spero proprio che possa succedere che si smentisca uno di quei cartelli che lui ha scritto, quello in cui dice “niente applausi”.

Giancarlo Barberis  - Lei proprio questa sera si è già fatta la sua brava piccola contestazione perché alla fine dello spettacolo è uscita e ha detto: “Qualcuno ha applaudito, grazie”.


Laura Betti  - Si capisce, si capisce.

Giancarlo Barberis  - Appunto.


Laura Betti  - Avevano applaudito, noi siamo arrivati in ritardo fuori, allora io sono uscita fuori e ho detto: “Qualcuno ha applaudito, quindi ri-applaudite”. Mi sono presa gli applausi e son tornata indietro. Cioè io contesto questo manifesto.

Giancarlo Barberis  - La contestataria è Laura Betti, principale strumento di Orgia, assecondata da Luigi Mezzanotte e da Nelide Giammarco. Nessuno dei tre è ‘attore’ della tragedia pasoliniana, che è in versi. È solo ‘strumento’ in mano al poeta. Come ha reagito il pubblico torinese?


Pier Paolo Pasolini  - Mah, sono le reazioni che io mi aspettavo, cioè di incomprensione, in realtà, del testo. Perché io, come lei sa, cerco altri destinatari, cioè non cerco il pubblico che generalmente va a teatro. Ma cerco degli spettatori che siano più che altro dei lettori di poesie. Siccome i lettori di poesia sono pochissimi, cerco in realtà pochi destinatari.

Giancarlo Barberis  - Pasolini respinge, insomma, la comunicazione con la massa.


Pier Paolo Pasolini  - Come autore cinematografico ho fatto delle esperienze. Ho cominciato pensando che un’opera cinematografica dovesse essere quello che si dice ‘popolare’, ‘nazional-popolare’, in una sfera culturale gramsciana. Pian piano ho perso questa illusione. Siamo entrati in una nuova fase del capitalismo, il neocapitalismo, in cui la cultura è una cultura di massa. Che io voglia o che io non voglia. Il cinema, per sua natura, implica milioni di spettatori. Ora, la media del modo di recepire di questi milioni di spettatori un mio film fa sì che il mio film si trasformi completamente, diventi un’altra cosa. Ora ho capito che invece il teatro, per sua natura, non potrà mai essere un medium di massa.

Giancarlo Barberis  - E a questo punto entra un’altra forma di teatro, che è quella che lei è venuto a proporre a Torino, ed è il teatro di poesia pura.


Pier Paolo Pasolini  - Quello che io chiamo teatro di Parola è uno dei tanti generi teatrali in cui il teatro si sta articolando. Cioè, non si può più parlare di ‘teatro’, come si diceva fino a qualche anno fa, perché ormai c’è un teatro accademico, ufficiale ecc ecc, c’è un altro teatro d’avanguardia, gestuale, fatto di pura presenza fisica, e adesso c’è anche, timidamente, questo teatro di Parola, fondato tutto sulla parola…

Giancarlo Barberis  - Rischia di esporsi forse all’accusa, che del resto le è stata formulata, di antidemocraticità.


Pier Paolo Pasolini  - Mi pare che l’aristocraticità della mia operazione sia solo apparente, perché in realtà io, cercando questi piccoli pubblici, questo rapporto diretto con le persone, instauro un rapporto profondamente democratico. Il mio è un decentramento, praticamente, e ogni decentramento è democratico.

Intervista a Pier Paolo Pasolini sul teatro 
(RAI, 13 giugno 1972)




Giornalista - Il regicidio [Affabulazione] è una delle sei commedie scritte da Pasolini. Pasolini, vediamo innanzitutto il significato di questo suo testo.


Pier Paolo Pasolini  - È una cosa, guardi, che è impossibile da riassumere in poche parole in un’intervista di questo genere. Insomma, è un rapporto drammatico, ambiguo, complesso, tra un padre e un figlio. L’amore di un padre per un figlio.

Giornalista - Vorremmo chiederle che tipo di teatro è il suo, che discorso teatrale intende fare.


Pier Paolo Pasolini  - Il mio è un teatro strettamente culturale. In realtà andrebbe letto in una stanza piccola, di fronte a una quarantina, a una cinquantina di persone. Questa è la vera destinazione del mio teatro. Ad ogni modo, certi criteri del mio teatro sono rigorosi, sono appunto quello che le ho detto: un teatro di cultura, fatto per poche persone, fatto per essere letto a voce alta, forse, ma non per essere rappresentato in quel rito sociale che è il teatro per la borghesia. Il mio teatro non è scritto in dialetto. È scritto in italiano letterario puro, e allora questo italiano letterario puro non ha un equivalente orale.

Giornalista - Passiamo per un momento alla sua attività di regista e di autore cinematografico. In questo momento sta preparando qualcosa?


Pier Paolo Pasolini  - In questo momento sto finendo il missaggio e la stampa dei Canterbury Tales, I racconti di Canterbury. E sto già preparando Le mille e una notte. Qui, proprio mentre lei mi sta facendo questa intervista, c’è il costumista che deve fare i costumi delle Mille e una notte.

Giornalista - Il quale è Danilo Donati, premio Oscar e notissimo scenografo del cinema italiano.


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
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Perché non piace ai censori il "potere" visto da Pasolini - Dacia Maraini

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Perché non piace ai censori il "potere" visto da Pasolini 
Dacia Marami giudica "Salò"...
l'ultimo film del regista scomparso recentemente 
La Stampa
Anno 109 - Numero 264
Sabato 15 novembre 1975

Il nuovo film di Pier Paolo Pasolini «Sade-Salò» è stato bocciato dalla censura perché gli italiani non sarebbero abbastanza maturi per questo genere di pellicola.

Dovremmo ringraziare i censori che ci proteggono con tanta solerzia da spettacoli evidentemente pericolosi per la nostra integrità spirituale. Per fortuna che ci sono loro a proibirci i film di autori problematici per meglio farci apprezzare quelle geniali commedie all'italiana tanto educative e salutari per tutti noi! E' una vera fortuna, altrimenti come farebbe il popolo italiano, notoriamente ritardato e infantile, a distinguere il vero dal falso?

Ma l'Italia, ormai dovremmo saperlo, è divisa in due: da una parte ci sono cinquanta milioni di bambini e dall'altra alcuni padri molto premurosi che si preoccupano della salute morale di questi bambini, prodigandosi nella scelta di ciò che può loro giovare, fuori da ogni inquietudine e rischio intellettuale.

D'altronde ci siamo abituati, nessuno ci fa più caso: da quando nasciamo, entriamo sotto la tutela di qualche padre; sia nella scuola, durante le lezioni o gli esami, sia quando finiamo davanti a qualche commissione, oppure quando ci troviamo per malaugurato caso di fronte ai giudici di un tribunale o nel letto di un ospedale, o peggio, in prigione, oppure semplicemente di fronte alla scelta di un film da vedere.

Abbiamo anche la gioia di riconoscerli immediatamente questi padri, perché sono sempre gli stessi: adoperano lo stesso linguaggio per esprimere lo stesso cinico e pedestre buonsenso. Tutti questi padri poi fanno capo a quei pochi solerti padri pubblici che da trent'anni amorosamente vegliano sulla «grande famiglia italiana».

Si dà il caso che io, pur essendo due volte minore, una perché cittadina italiana e una perché donna, abbia visto il film di Pasolini. E vorrei qui esprimere il mio parere, contrario e opposto a quello dei padri della censura. Il pubblico, quando i censori decideranno che sarà diventato maturo (due anni? cinque? dieci?) deciderà chi di noi ha ragione.

Il film di Pasolini è una gelida e triste meditazione sulla sessualità e il potere. Una sessualità pervertita che nasce da un potere pervertito: il fascismo.

La bellezza del film sta in un rigido e regolare andamento da composizione musicale medievale; ci sono le cantate a tema, i duetti, i cori, le semplici e severe sonate con l'uso di pochi strumenti, tutte giocate su due o tre note dolenti, fisse. Ogni episodio si apre e si chiude con un movimento circolare, sapiente ed enigmatico.

Il film non ha niente di sensuale: l'autore non si immedesima mai, nemmeno per un momento col sentimento sadico degli aguzzini. Egli porta per mano lo spettatore lungo i gironi dell'inferno fascista, avvicinandolo al dolore quieto e terribile delle vittime, suggerendogli pietà e non piacere.

I quattro aguzzini infatti, sebbene siano presentati come uomini colti (ma non troppo), raffinati, signorili e perfino cortesi, sono assolutamente e definitivamente allontanati dalla simpatia del pubblico per mezzo dell'osservazione allibita e disgustata delle loro facce brutali e stupide (della stupidità che viene dall'egocentrismo e dall'avidità di piaceri).

I ragazzi e le ragazze invece sono mostrati nelle loro carni livide e intirizzite, sempre e soltanto come vittime, costrette alla passività dai fucili e dai coltelli che i giovani avanguardisti manovrano con disinvoltura.

Così nel film tutto è chiaro fin dall'inizio: i carnefici sono coloro che hanno in mano il potere e lo usano per soddisfare con la forza i loro appetiti sadomasochistici; le vittime sono i deboli, i poveri, gli sfruttati.

Da questo punto di vista Pasolini non ha fatto che riprendere i contenuti di De Sade. Nel libro («Le centoventi giornale di Sodoma»,) le vittime non sono mai consenzienti. Solo che mentre in De Sade questa mancanza di partecipazione delle vittime alla gioia sessuale ha uno scopo soprattutto stimolante per i carnefici, cioè rappresenta un meccanismo puramente funzionale, in Pasolini ha un significato sociale, politico.

Il sadismo e la violenza, anche quelle imposte coi guanti bianchi, accompagnate da soavi parole e dolci note, attorno a tavole imbandite, sono decisamente presentate come il momento più idiota e corrotto del potere fascista; il momento della sua agonia panica e morbosa.

Fin dalle prime bellissime inquadrature della pianura padana intiepidita da un debole sole autunnale, Pasolini chiarisce subito da che parte sta: con i deboli, i perseguitati, contro la violenza e i soprusi.

Significativo della concezione complessiva del film è che la sola notazione positiva riguarda un giovane comunista che si ribella alle leggi del potere e muore fucilato nel momento dell'amore (ancora una volta significativo che l'amore sia, all'interno della villa fascista, assolutamente vietalo e bandito) nudo, serio, gentile, col pugno chiuso teso verso i suoi aguzzini, accanto alla sua innamorata africana.

Il fascismo, ci dice Pasolini con le sue immagini terse e violente, riduce le persone a oggetto. Il male sta prima di tutto li.
E che lo si faccia in nome della purezza della razza, o di un grande impero o del superomismo o del nazionalismo, non importa. La sua ideologia aberrante non può che portare gli uomini all'odio e all'assassinio.

In questo senso si potrebbe dire che egli volontariamente contraddice gli ultimi discorsi fatti pubblicamente sui guasti del consumismo e sull'omologazione dei valori che avrebbero resi fra loro simili per cultura e abitudini i giovani delle destre ai giovani delle sinistre. Ma è anche vero che questo livellamento, per Pasolini, era cominciato col boom degli Anni 60.

Nel film comunque non c'è nessuna possibile somiglianza fra dominanti e dominati, fra ricchi e poveri, fra potenti e sfruttati. Un solco profondissimo separa i gusti, i desideri, le abitudini degli uni da quelli degli altri, senza contaminazione possibile. Potremmo addirittura dire che il film è manicheo in maniera didascalica: male e bene coesistono senza comunicare.

Ci sono alcuni ragazzi corrotti, ma sono pochissimi e abbiamo ben visto come sono stati strappati al lavoro dei campi e costretti con la forza a partecipare al lugubre festino dei signori. Perfino le quattro narratrici, in questa limpida gerarchia del potere, occupano un posto di sottordine, alla mercé delle voglie brutali dei padroni. E non è un caso che una di queste guardiane, quella che accompagna le sevizie degli aguzzini con le patetiche note del pianoforte, si uccide buttandosi dalla finestra. Tutti gli altri sono testimoni impotenti di un dolore e di una offesa senza fondo.

Proprio per fare capire fino a che punto gli abusi sessuali servono a dividere il potere dal non-potere, gli orrori sadici sono rinchiusi da Pasolini all'interno di cornici doppie e triple, rapprese nei momenti di maggiore crudezza, dentro i tondini di un binocolo, al di là di una finestra, in un mondo lontano e silenzioso, da incubo. Il triste sguardo del regista vaga sulle persone e le cose raggelate dal male con allibita consapevolezza e inquieta pietà.

Il finale dei due ragazzi che ballano fra di loro infine sembra porre un ansioso interrogativo sul futuro: vinceranno gli aguzzini con la loro cultura inumana e violenta o vincerà il nuovo umanesimo e quindi la dolcezza e quindi l'amore che anche negli occhi stupidi e rozzi dei ragazzi corrotti a momenti si fa viva quasi loro malgrado?
Dacia Maraini


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Eduardo De Filippo e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia e un premio.

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Eduardo De Filippo e Pier Paolo Pasolini, 
un'amicizia e un premio.


Amicizia e grande stima reciproca tra Pier Paolo Pasolini ed Eduardo De Filippo che molto probabilmente  inizia nel 1950. Infatti, in quell'anno Pier Paolo Pasolini partecipa al primo concorso di poesie dialettali del dopoguerra, "Premio Cattolica"organizzato da "Il Calendario del Popolo". Pasolini partecipa con una poesia intitolata "El Testament Coran"(1) e per la quale fu premiato. Un componimento di 72 versi nei quali impone un elevato livello di lirismo che dona alla lingua friulana una elegante musicalità.
Pasolini autore dialettale premiato alla prima edizione dal dopoguerra del "Premio Cattolica", proprio da Eduardo De Filippo che in quell'occasione fa parte della giuria insieme a Salvatore Quasimodo, Ernesto De Martino e Antonello Trombadori ed altri. Forse è da quel momento che l'amicizia e la stima tra i due dialettali inizia a crescere. Eduardo attore e autore dialettale non poteva non ammirare quel Poeta tanto attratto dal popolo napoletano "unica tribù che resisteva" all'omologazione culturale e linguistica della civiltà dei consumi che aveva ormai soffocato tutte le realtà culturali popolari del nostro paese. La Napoli dialettale di cui Eduardo era la più autorevole espressione artistica, per   Pasolini era una Tribù che resisteva(2). 




Ma non era solo questo che legava questi due tra i più grandi artisti e intellettuali del nostro novecento. Oltre alla stima artistica, l'amore per le tradizioni culturali popolari, l'affetto e una umana sensibilità che li avvicinava, vi era qualcosa di più:



… Perché io so distinguere morti da morti e vivi da vivi. E Pasolini era veramente un uomo adorabile, indifeso; era una creatura angelica che abbiamo perduto e che non incontreremo più come uomo; ma come Poeta diventa ancora più alta la sua voce e sono sicuro che anche gli oppositori di Pasolini oggi cominceranno a capire il suo messaggio".(3)

La notevole consonanza ideologica e religiosa espressione di un anticlericalismo-marxista - il valore del sacro e la loro visione della fede -;  la sintonia perfetta sul valore di un Cristianesimo tradito da una chiesa troppo distante da esso e troppo coinvolta con il potere politico-economico, verso la quale sia Eduardo che Pasolini spesso esprimevano una critica esplicita e a tratti feroce, li avvicinava ulteriormente. La loro visione religiosa del mondo e il loro rapporto con l'umile e al tempo stesso elevata cultura popolare, li avvicinava affascinati, entrambi, alla figura di Cristo e di San Francesco; entrambi avevano contatti con religiosi, ai quali esprimevano le loro critiche e le loro perplessità sulla storia della Chiesa cattolica. Pasolini aveva rapporti con Don Cordero e dopo la morte di quest'ultimo, con la Cittadella di Assisi, mentre Eduardo aveva come amico Mons. Donato De Bonis al quale, chiedeva un'apertura verso la "Vera parola di Cristo":
"Queste voci che strillano lasciando smarrire le coscienze innocenti delle generazioni di oggi, al mio caro Donato dedico, affinché egli – sacerdote del pensiero limpido, responsabile e cosciente di un futuro aperto verso la VERA parola di Cristo – condanni senza pietà alcuna i remoti peccati commessi da remotissimi responsabili.  Il suo Eduardo (4)

Pier Paolo
Non li toccate
quei diciotto sassi
che fanno aiuola
con a capo issata
la ‹‹spalliera›› di Cristo.
I fiori,
sì,
quando saranno secchi,
quelli toglieteli,
ma la ‹‹spalliera››,
povera e sovrana,
e quei diciotto irregolari sassi,
messi a difesa
di una voce altissima,
non li togliete più!
Penserà il vento
a levigarli,
per addolcirne
gli angoli pungenti;
penserà il sole
a renderli cocenti,
arroventati
come il suo pensiero;
cadrà la pioggia
e li farà lucenti,
come la luce
delle sue parole;
penserà la ‹‹spalliera››
a darci ancora
la fede e la speranza
in "Cristo povero".(5)


I diciotto sassi erano quelli che inizialmente delimitavano, sul terreno dell'Idroscalo di Ostia, il punto esatto in cui fu ritrovato Pier Paolo Pasolini ucciso. Formavano un ovale, a un'estremità del quale era stata piantata una croce sul cui braccio orizzontale era scritto PIER PAOLO PASOLINI )
 Dunque, il "Cristo povero" e la "VERA parola di Cristo" di Eduardo sono un sottile filo che si congiunge con i "ruderi e le chiese", il "Cristo che viene a portare la spada e non la pace" ... "quei famosi duemila anni di "imitatio Christi" e quell'irrazionalismo religioso" di Pasolini. Una consonanza ideologico-religiosa che porta alle stesse conclusioni pur partendo da percorsi differenti. I ragazzi del "Filangieri" di Eduardo e i "Ragazzi di vita" di Pasolini, l'amore per le borgate romane dell'uno e quella per i bassi di Napoli dell'altro, sono esempi di attenzione e amore condiviso verso determinati strati di una società che man mano sta perdendo le sue radici e il suo calore umano, la sua identità.


Pasolini non va spesso a teatro:

"Non vado quasi mai a teatro: gli spettacoli a cui ho assistito in questi ultimi anni si possono contare sulle dita. Una specie di profonda, radicata avversione me ne tiene distante"(6)
"Per una causale eccezione, proprio in queste ultime settimane, sono andato a teatro, invece, tre volte"(7)
"Il secondo spettacolo a cui ho assistito, è stato "Il sindaco del rione Sanità", scritto, diretto e interpretato da Eduardo De filippo. Premesso subito, per il lettore polacco, che si tratta di un testo in dialetto napoletano, non esiterei a definire questa commedia, almeno per tre quarti, un piccolo capolavoro. Vi ho assistito come incantato. Non c’era un gesto, una parola, uno sguardo che fosse in più, che stonasse: nei suoi limiti ristretti, tutto era di un assoluto rigore. Le parole, i modi di dire, le intonazioni del dialetto napoletano, non avevano nulla di colorito, di paesano, di folcloristico, mai. Erano quasi di uno spento grigiore, di una immota tetraggine. Il dramma era passato attraverso un filtro linguistico così rigoroso da depurarlo del tutto, da renderlo materia pura, e, essa sì preziosa. E pensare che la storia del vecchio fuori legge napoletano, assassino a diciott’anni, emigrato in America, tornato a Napoli ricco e potente, a fare giustizia da sé nel sottomondo della camorra napoletana, presentava tutti i rischi possibili per diventare una storia sguaiata e vernacola. De Filippo ha invece dominato stupendamente tutta questa materia, ripeto, fino a renderla quasi impalpabile"(8)
"Il lettore Polacco avrà notato anche, in una graduazione di valori, io darei senza il minimo dubbio il primo posto alla commedia tutta in dialetto, quella napoletana di De filippo"(9)
"Al di fuori cosi delle grandi eccezioni dialettali (De Filippo), o delle piccole o infime tradizioni estrose o sqisite (Franca Valeri, e, adesso, Laura Betti), non vedo futuro per il teatro italiano: non vedo richiesta, non vedo destinatari"(10)
"In questo momento la comicità nazionale coincide in gran parte con quella di Sordi. Totò e Fabrizi invecchiati e cadenti, gli altri quasi tutti fuori moda (a parte, più aristocratico, il caso di Eduardo De Filippo) è Sordi che ha il monopolio del riso"(11)

"Eduardo De Filippo che non è solo il nostro migliore attore, ma un grande attore in assoluto, recita in dialetto. Ma con ciò non fa del naturalismo. Egli parla in realtà, più che il dialetto napoletano, l’italiano medio parlato dai napoletani, cioè un italiano reale. Ma non ne fa una mimesis naturalistica: vi ha creato sopra una convenzione che gli dà assolutezza e lo libera da ogni particolarismo. Quella di De Filippo è una purissima lingua teatrale".(12)

Nel 1972, Eduardo lavora per Pasolini dando la voce ad uno dei personaggi dei Racconti di Canterbury - un vecchio viandante (doppiato da Eduardo De Filippo) molto triste per la perdita della giovinezza. 

Nel 1975, Pasolini scrive ad Eduardo:


 Roma, 24 settembre 1975 



Caro Eduardo,

eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo.

Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. 

Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. 

Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. 

Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa.

Ti abbraccio con affetto, tuo 

Pier Paolo


 Qui Porno Teo Kolossal


 

Dopo la morte di Pasolini, circa due anni dopo, Eduardo dona alla "mamma De Bonis", in occasione del suo ottantesimo compleanno. Una scultura intitolata "Il popolo che vuole Cristo", mostra un Pulcinella, metafora dell’arte, in atteggiamento di supplica su un suolo arido e brullo, che davanti alla Croce chiede misericordia per l’anima dell’illustre letterato ( Pasolini ), scomparso tragicamente in una triste sera di novembre.


(La scultura, opera del romano Virgilio Mortet, sarà esposta nella sala dedicata a Eduardo De Filippo nella Biblioteca Nazionale di Napoli)

El testament Coràn

In ta l’an dal quaranta quatro
fevi el gardon dei Botèrs:
al era il nuostri timp sacro
sabuìt dal sòul dal dover.
Nùvuli negri tal foghèr
thàculi blanci in tal thièl
a eri la pòura e el piathèr
de amà la falth e el martièl.

Mi eri un pithu de sèdese ani
con un cuòr rugio e pothale
cui vuoj coma rosi rovani
e i ciavièj coma chej de me mare.
Scuminthievi a dujà a li bali,
a ondi i rith, a balà de fiesta.
Scarpi scuri! ciamesi clari!
dovenetha, tiara foresta!

Chela vuolta se ‘ndava a rani
de nuòt col feràl e la fòssina.
Rico al sanganava li ciani
e i bruscànduj col feral ros
ta l’umbrìa ch’a inglassava i vuos.
Tal Sil se trovava pissìguli
a mijars in ta li pothi.
Se ’ndava plan thentha un thigu.

In ta la boscheta dai poj
’pena magnàt se ingrumava
duta la compagnia dai fiòj,
e lì spes se bestemava
e coma uthiej se ciantava.
Dopo se dujava a li ciarti
a l’umbrìa da la blava.
La mare e il pare a eri muarti.

De Domènia, òmis dal cuòr gredo,
se coreva via in bicicleta
par loucs de un inciànt sensa pretho.
E na sera mi ài vist la Neta
in tal lustri da la boscheta
ch’a menava a passòn la feda.
Liena co la sova bacheta
a moveva l’aria de seda.

Mi nasavi de arba e ledàn
e dei sudòurs rassegnadi
tal me cialt stomi de corbàn;
e li barghessi impiradi
tai flancs, da l’alba dismintiadi,
a no cujerdavin la vuoja
sglonfa de albi insumiadi
e seri thenta fresc de ploja.

Par la prima vuolta ài provàt
cun chela fiola de tredese ani
e plen de ardòur soj s-ciampàt
par cuntalu ai me cumpagni.
Al era Sabo, e nancia un cian
no se vedeva par li stradi.
Al brusava el loùc de Selàn.
Li luci duti distudadi.

In mieth da la platha un muàrt
ta na potha de sanc glath.
Tal paese desert coma un mar
quatro todèscs a me àn ciapàt
e thigànt rugio a me àn menàt
ta un camio fer in ta l’umbrìa.
Dopo tre dis a me àn piciàt
in tal moràr de l’osteria.

Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs.
Coi todescs no ài vut timòur 
de lassà la me dovenetha.
Viva el coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!


IL TESTAMENTO CORAN

Nel mille novecento quarantaquattro facevo il famiglio dei Boter: era il nostro tempo sacro arso dal sole del dovere.
Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello.
Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle carte, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure, camicia chiara, giovinezza, terra straniera!
In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso, nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo piano senza un grido.
Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti.
Di Domenica, uomini dal cuore rozzo, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. E una sera ho visto la Neta, nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello essa muoveva l’aria di seta.
Io odoravo di erba e letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di corame; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia.
Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni, e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni.
Era Sabato ma per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa dei Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente.
In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue agghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria.



Lascio in eredità la mia immagine 
nella coscienza dei ricchi. 
Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano 
dei miei rozzi sudori.
Coi tedeschi non ho avuto paura 
di lasciare la mia giovinezza. 
Viva il coraggio, il dolore 
e l’innocenza dei poveri!
"La meglio gioventù (1954)
ROMANCERO (1947-1953) 

IL TESTAMENTO CORÀN (1947-1952)"

Note:

1 - El Testament Coran, un componimento di 72 versi da la Suite friulana-ROMANCERO ( 1947-1952) inserita nella raccolta La meglio gioventù, oggi in Pasolini Tutte le poesie, tomo I di "I Meridiani Mondadori", a cura di Walter Siti.

2 - Gennariello, Lettere Luterane.

3 - Eduardo De Filppo, tratto da intervista televisiva dopo la morte di Pasolini.

4 - Lettera-dedica "Le voci di dentro", del 25 dicembre 1977.

5 - Eduardo De Filippo, 1975 - poesia dedicata a Pasolini dopo la sua morte
.
6 - P.P. Pasolini, Il teatro in Italia, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, I meridiani Tomo II,a cura di Walter Siti - cit., pp. 2359-2363

7 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

8 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

9 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

10 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

11 - Cfr. P.P. Pasolini, La comicità di Alberto Sordi: gli stranieri non ridono, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 2, cit., 2245

12 - Ivi ... p. 2784.



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito


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Il Decameron di Pier Paolo Pasolini, di Claudio Oddi.

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"ERETICO & CORSARO"



Il Decameron di Pier Paolo Pasolini,  
di Claudio Oddi.

Le novelle scelte da Pasolini per Il Decameron (1971) sono nove. Il regista, autore del soggetto e della sceneggiatura, ne riduce la composita geografia (Borgogna, Napoli, Toscana, Romagna, Barletta, Messina, Siena) al solo contesto campano. L'episodio di Ciappelletto ha valore eccezionale, avendo nella parte principale, come nel testo originario, un'ambientazione non campana. L'omogeneo corpo linguistico boccacesco, il volgare letterario del trecento, tuttavia socialmente articolato nel registro, diventa espressione vernacolare dominante: i personaggi rilevanti che non parlano il dialetto sono soltanto la giovane siciliana, la badessa, il confessore di Ciappelletto e l'uomo che accompagna Giotto ("l'avvocato"), esponenti di ceti sociali non proletari. 

Le giornate dalle quali l'autore trae materiale narrativo da rielaborare sono I, II, III, IV, V, VI, XIX (una novella) e VII (due novelle; il tema è la beffa). Sono interamente trascurate l'ottava (a tema libero) e la decima (fatti magnanimi, d'amore e non). 
Relativamente all'ordine, alla frequenza, al modo e alla voce narrante delle novelle scelte, Pasolini non adotta soluzioni che si discostano dal testo letterario. La durata degli episodi filmici è invece caratterizzata dall'avvicinamento diegesi/narrazione, dovuto all'omissione delle parti prologiche delle novelle, le quali sempre comprendono un ampio periodo diegetico. Andreuccio L'ordine, ossia il rapporto tra la successione diegetica degli avvenimenti e la loro disposizione narrativa, non presenta anacronie: sono assenti analessi (flash-back) e prolessi (flash-forward). Il racconto della giovane siciliana è riferito ad un passato che mai è realmente stato, e quindi non è propriamente prolettico. La soluzione della linearità cronologica concerne l'intera opera. La narrazione ha una durata di 19' 47'', relativi ad un tempo diegetico di alcune ore: dalla mattina alla notte seguente. Sono presenti otto ellissi, tutte indeterminate, riguardanti elisioni di minuti o secondi. La terza costituisce eccezione, comportando un salto di ore; non è connessa con una variazione locale: lo spazio rappresentato è sempre la casa della siciliana. Ogni cambiamento spaziale implica, invece, un procedimento ellittico.
Le scene, coincidenza di diegesi e racconto, sono tre: la siciliana narra ad Andreuccio la sua falsa biografia; Andreuccio incontra i due ladri; il sagrestano dirige il fallito furto sacrilego. La frequenza, cioè le relazioni di ripetizione tra diegesi e racconto, è come negli episodi che seguono singolativa (quanto è accaduto una volta, è narrato una volta).
 
Il racconto non è focalizzato: all'istanza narrante e al narratario (lo spettatore) è attribuito un livello cognitivo superiore rispetto a quello del protagonista. Andreuccio non conosce l'inganno ordito, mostratoci anticipatamente; crede vere le vicissitudini della giovane. Come negli altri episodi, la voce narrante è extradiegetica-eterodiegetica,
corrispondendo ad una istanza anonima non identificabile con un personaggio. 
Vi è, tuttavia, una narrazione interna (di secondo grado): la siciliana che riferisce il proprio passato ad Andreuccio (racconto intradiegetico di forma omodiegetica, riferendosi ad eventi, fittizi, ai quali chi narra avrebbe partecipato). 
In Decameron II, 5 la vicenda è preceduta da un antefatto, la decisione della partenza e l'arrivo di Andreuccio, omesso da Pasolini. La durata diegetica è equiparabile a quella dell'episodio filmico. Le determinazioni temporali non sono infrequenti: "la mattina" il protagonista è al mercato, "in sul vespro" la donna lo fa invitare per parlargli, "essendo già mezzanotte" il giovane mercante e i due ladri entrano nella chiesa. Le pause descrittive sono assenti; è presente una scena: il racconto della giovane. 

Nell'incontro tra il protagonista e i ladri e nel secondo tentativo di furto vi sono modeste ellissi ("E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero..."; "...dopo una lunga tencione, un prete disse..."). La narrazione non è focalizzata. La voce, di terzo grado (narra Fiammetta), è come in ogni novella intradiegetica/eterodiegetica. Il racconto della siciliana è di quarto grado. Masetto La narrazione ha una durata di 11' 30'', la diegesi riguarda alcuni giorni. 

Le ellissi particolarmente rilevanti, quelle relative ad un tempo superiore all'ora, sono soltanto tre e coincidono sempre con una variazione del luogo e dell'azione. Alla prima, come le altre indeterminata, segue la seconda scena dell'episodio, il dialogo tra le due suore che precede l'amplesso con il giovane ortolano. 
Le inquadrature iniziali del convento, descrittive, hanno una funzione prologica narrativamente marginale. Segue ad esse la scena della zappatura, durante la quale il vecchio ortolano racconta la sua esperienza nel monastero. Il racconto non è focalizzato: tutti i personaggi ignorano che il giovane finge di essere sordomuto (l'istanza narrante mostra al narratario che non lo è); le due suore trasgreditrici (seducono il giovane) non sanno di essere osservate da una consorella. Il racconto del vecchio ortolano è una narrazione intradiegetica- omodiegetica di secondo grado, modesta infrazione alla linearità cronologica. La novella letteraria ha una diegesi di molti anni: il racconto di Filostrato termina con la vecchiaia del protagonista ("... essendo già Masetto presso che vecchio..."); l'explicit segue, quindi, un'ellissi molto ampia (non vi corrisponde un mutamento spaziale), mentre le precedenti non superano la durata di alcuni giorni. Dall'inizio alla fine, lo scarto diegesi-racconto cresce notevolmente e in maniera non graduale (allontanamento assai rilevante dal modello ideale dell'isocronia). 

L'unica scena è costituita dal dialogo tra le due suore desiderose di conoscere i piaceri sessuali. Non è assente una forma assimilabile al sommario ("...prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a trastullare"), che qui indica l'iterazione di un atto (racconto iterativo). 
La soluzione del terzo grado, 
intradiegetica/omodiegetica, è presente: Nuto, il vecchio ortolano, narra la sua esperienza come salariato nel monastero. Peronella La differenza temporale tra diegesi e narrazione è minima: la durata di entrambe è di pochi minuti (il racconto dura 5' 13''). Le ellissi riguardano omissioni presumibilmente inferiori al minuto. Le unità di azione, la consumazione dell'adulterio in assenza e in presenza del marito, e di spazio, l'interno e l'esterno della casa di Peronella (l'adultera), rendono ulteriormente omogeneo l'episodio. Il livello cognitivo dell'istanza narrante e del narratario è superiore rispetto a quello dei personaggi: il marito non sa di essere tradito né lo scopre entrando in casa; lo spettatore sa del suo arrivo anticipatamente. La diegesi della novella, indeterminata, ha un'estensione superiore, inizialmente riferita ad un tempo che antecede la vicenda raccontata ("Avvenne che un giovane de' leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella...si innamorò di lei..."), dalla sceneggiatura omesso. 

La narrazione della beffa subita dal marito, quasi coincide con la diegesi: le ellissi, assai modeste, sono limitate alla parte conclusiva. Ciappelletto Il soggiorno del protagonista nella residenza dei fratelli usurai, è la vicenda principale dell'episodio, diviso in parti. 

La durata diegetica di essa è 10' 32'', quella narrativa alcuni giorni (presumibilmente due). Alla scena iniziale, il colloquio tra Ciappelletto e i fratelli, seguono dapprima una seconda scena (preceduta da una ellissi indeterminata), poi la sequenza della convocazione del confessore, caratterizzata da una rilevante serie di modeste ellissi; infine vi è una terza scena, la parodica confessione. Una nuova elisione, maggiore, conduce alla rappresentazione della predica che esorta alla venerazione di San Ciappelletto. Il racconto non è focalizzato: il confessore e i fedeli che ne ascoltano le parole esortative non conoscono il carattere mendace della confessione. 
In Decameron I, 1, che ha una costruzione del racconto maggiormente articolata, vi è un'evidente antinomia temporale tra l'estesissima scena della confessione (è predominante il discorso diretto) e le restanti unità narrative, fortemente ellittiche ("...riparandosi in casa di due fratelli fiorentini...avvenne che egli infermò"; "Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò..."). 

Il colloquio tra i due usurai, ascoltato dall'infermo, come nel film costituisce una scena. Giotto La narrazione (2' 12'') e la diegesi (alcuni minuti) quasi coincidono, in un esile episodio incentrato sul "soliloquio" dell'avvocato che accompagna il pittore. Le ellissi non hanno particolare rilievo temporale o qualitativo. La focalizzazione è zero: Gennarino, l'uomo che offre ricovero ai viandanti durante il temporale, non conosce la reale identità di Giotto, causa dell'ilarità dell'avvocato, il quale pone in contrasto la grandezza artistica del personaggio con la sua vile apparenza. La parte propriamente narrativa della novella, la quinta della sesta giornata, consta di appena tre capoversi. L'incontro con il "lavoratore" che dà rifugio ai due protagonisti è preceduto da quello degli stessi. Il presunto dialogo dei personaggi è eliso ("...fuggirono in casa di un lavoratore amico...

Ma dopo alquanto...presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci...e due cappelli...cominciarono a camminare."). Mediante una serie avverbiale, l'autore elide il tempo che precede il dialogo tra Giotto e Forese: "...essendo al quanto andati...rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti...". L'istanza narrante, Panfilo, conosce quanto i personaggi ed i narratari. La focalizzazione zero è superata. Riccardo e Caterina Alla durata della narrazione, 8' 19'', corrisponde una durata diegetica inferiore alla giornata. Alle ellissi iniziali, definibili implicite, seguono due scene dialogiche separate da un'elisione modesta. 

La successiva è la più consistente: il tempo omesso è di alcune ore (dal dialogo tra Caterina e la madre, all'arrampicata di Riccardo che raggiunge la fidanzata nel suo balcone). Una nuova serie ellittica anticipa la scena dialogica conclusiva (il padre di lei che impone il matrimonio).. La presenza di una pausa descrittiva è rilevante per il suo valore eccezionale: la cinecamera fissa inquadra per alcuni secondi un paesaggio urbano aurorale, non necessario allo sviluppo narrativo. La focalizzazione rimane interna (i genitori di Caterina non conoscono il vero motivo che la spinge a dormire nel balcone). Le variazioni spaziali, come nei due episodi precedenti, sono poco rilevanti. Gli ambienti (contigui) nei quali è svolta l'azione sono tre: un giardino, una camera nuziale, un balcone. La costruzione della novella è omologa: dopo l'apertura prologica nella quale sono fornite informazioni sul passato dei personaggi, si hanno due scene, divise da un'ellissi di molte ore ("Il dì seguente..."). La narrazione della notte d'amore è estesa, culminante nel dialogo tra Riccardo e il prossimo suocero. Lisabetta La diegesi, che dura tre giorni circa, è raccontata in 13' 52''. Alla sequenza iniziale, debolmente ellittica, è connessa un'elissi che omette il tempo notturno ed è seguita da una scena (i fratelli di Lisabetta che invitano l'amante di lei a seguirli). La sequenza che antecede l'omicidio del giovane è resa attraverso l'alternanza di concisi dialoghi ed ellissi di minuti, seguite da due salti temporali rilevanti (diventa notte; ridiventa giorno). 

Dopo una breve scena dialogica, c'è una nuova coppia ellittica (notte/giorno), seguita da una più ampia scena (il ritrovamento del corpo). Il racconto non è focalizzato ed i livelli cognitivi sono fortemente differenziati. Lisabetta e Lorenzo non sanno di essere stati scoperti dal fratello; Lisabetta, che pure sospetta, non conosce la tragica fine dell'amante, se non dopo, oniricamente; i fratelli non sanno che lei ha saputo il luogo nel quale è stato sotterrato il cadavere. L'immagine onirica del giovane diventa un narratore interno con prevalente funzione di informazione, e per la giovane e per lo spettatore, al quale l'omicidio non è mostrato. La quinta novella della giornata IV ha una diegesi ampia, di giorni o forse mesi, sviluppata in una narrazione non estesa. Le ellissi sono frequenti e mai determinate. Il discorso diretto e quello indiretto sono utilizzati raramente, a conferma del notevole divario temporale storia/racconto. 

Don Gianni L'episodio dura 10' 37'' e comprende un tempo diegetico inferiore alla giornata. Le ellissi, che progressivamente si ampliano, sono alternate alle scene dialogiche (il dialogo tra compare Pietro e don Gianni; l'incontro con la giovane moglie del vecchio Pietro; la richiesta dell'incantesimo da parte dei coniugi; il falso incantesimo che dovrebbe trasformare la moglie in cavalla). La focalizzazione è esterna: l'istanza narrante e i coniugi non conoscono le autentiche intenzioni di don Gianni, che mira a soddisfare il suo istinto sessuale attraverso l'inganno dell'incantesimo. (Allo spettatore queste si rivelano nella scena conclusiva). 

La novella corrispondente è l'ultima della nona giornata. La parte prologica, che è riferita al ripetersi delle situazioni ("...quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava..."; "...quante volte donno Gianni in Tresanti capitava, tante sel menava a casa..."), determina la notevole ampiezza del tempo diegetico, nella vicenda principale limitato ad alcune ore. Il fallace incantesimo è risolto in una scena. Tingoccio e Meuccio L'episodio è bipartito dalle immagini della visione notturna di Giotto e dura 8' 35''; la diegesi non è determinabile, dato che l'elissi che separa le due parti potrebbe comprendere ore come giorni. 

La vicenda consta di cinque scene (la promessa dei due amici; il dialogo tra Tingoccio e la comare; la conversazione tra questi e Meuccio; il funerale di Tingoccio; l'apparizione del fantasma di lui) e di una parte conclusiva con frequenti elisioni. La focalizzazione è interna e il punto di vista assunto è quello di Tingoccio. La descrizione dell'oltremondo assume una valenza di narrazione intradiegetica., con Meuccio come narratario interno. La novella che chiude la settima giornata ha un'estensione diegetica non determinabile. Il racconto non presenta scene: la lunga conversazione finaletra i due protagonisti contiene una breve ellissi, inserita nella forma del discorso indiretto.

Di Claudio Oddi
 RHY.MA. – Rhymers’ Magazine – N. 2 ottobre 2005
Speciale Pier Paolo Pasolini 1975 - 2005

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
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La Pagina Corsara di Maria Vittoria Chiarelli e i suoi saggi e commenti su Pier Paolo Pasolini.

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"ERETICO & CORSARO"



Maria Vittoria Chiarelli è nata a Taranto il 28 aprile del 1959 da una famiglia di operai e di piccoli artigiani. La sua vita è trascorsa tutta nella città pugliese, dove frequenta le scuole dell'obbligo e l'Istituto Magistrale "Vittorino da Feltre". Frequenta negli anni dell'adolescenza gruppi cattolici parrocchiali, ma si avvicina anche ad associazioni giovanili della sinistra studentesca locali, affascinata dal pensiero marxista, come anche dei filosofi della Scuola di Francoforte. Frequenta l'Università di Bari, dove si laurea in Pedagogia nel 1981 con una laurea sul pensiero educativo di Jacques Maritain e dove ha la possibilità di affrontare le tematiche del "personalismo dialogico" . Già dai primi mesi del 1976 comincia la lettura dell'opera di Pier Paolo Pasolini, che continua ancora oggi. Vince nel 1982-83 tre concorsi scolastici e, dopo una breve, ma proficua collaborazione universitaria, sceglie di insegnare nella Scuola elementare per otto anni. Successivamente, nel 1990, entra nel ruolo della Scuola Media. Attualmente insegna negli Istituti Tecnici e Professionali. È sposata dal 1985, ha avuto due figli. Le piace visitare città, leggere, frequentare cinema e teatro, visitare mostre e musei. L'insegnamento e la famiglia le occupano gran parte del suo tempo, ma si ritiene una persona fortunata.

Saggi e commenti
di Maria Vittoria Chiarelli




Pasolini Pier Paolo - Testaccio - Fiera letteraria, ottobre 1951

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"ERETICO & CORSARO"




Pasolini Pier Paolo, Testaccio

(Fiera letteraria, ANNO VI/numero 38 - ottobre 1951, pagg. 3-7)
*****
(Successivamente inserito nel libro di narrativa "Alì dagli occhi azzurri", 1965)






I



I ragazzi che nelle prime ore del pomeriggio scavalcano il muretto e scendono sulla scarpata, vengono da Piazza Testaccio, lungo una delle larghe vie cimiteriali, perpendicolari alla piazza. Non insieme, o in ordine; se partono uniti, in quei cento metri di strada trovano mille occasioni per dividersi, disperdersi. Uno resta indietro, nascondendo certe sue intenzioni dietro una faccia chiusa, scostante; scompare per una via laterale, o torna verso i giardinetti. Due, ad un tratto, si mettono insieme e chiacchierano fra loro in modo da restare isolati nel loro discorso, anch'essi scostanti, offensivi; poi se ne vanno. Succede però che si ritrovino sulla scarpata. Anche li la loro convivenza pare di continuo per disgregarsi; si spargano qua e là, ognuno con la sua fionda (si sono fatti splendide fionde, foderando il manico con del nastro isolante rosso, giallo e verde); se si radunano è per qualche battifondo (colpire un pezzo di carta appeso a un cespuglio) che li rende come pazzi, incoerenti. Ma in ogni fatto o impresa c'è un fondo di ironia: niente deve essere fatto sul serio, perciò ogni loro passione (quella di uccidere lucertole, pescare) scivola su un fondo ironico; che li rende ambigui, nemici; ciò fa parte della lenzaggine del quartiere, dove è necessario non essere diversi. Essi si oppongono sempre a vicenda la noia, la possibilità di poter fare a meno degli altri, la capacità immediata di cogliere gli altri in fallo di credulità, di fede, di impegno: di ingenuità.
Appena scesi tutti sulla scarpata, si mettono subito ad accendere il fuoco. Franco si china in una zona senza erba, raduna un po di stecchi, di pezzetti di legno sporco della più infetta e nauseante delle polveri; manda gli altri (Carlino, Renato) a prendere dei pezzetti più grossi intorno. Tira fuori il fulminante - il fulminante che esce dalle tasche dei ragazzi, insieme a briciole e spaghi, un fulminante cattivo che sa di gabinetti il fuocherello è acceso. Lì presso era pronta una cocuma trovata tra l'immondezza, di una incredibile vecchiaia, pesta, ridicola; la mettono sul fuoco, e Franco vi getta sbadato i pezzetti di piombo usciti dalle sue tasche col fiammifero; tutti stanno chi ni sul fuocherello, agitati, dispettosi, a vedere il piombo che si fonde; intanto Franco arrotola una cartolina non meno lurida della cocuma, a forma di cono, e ne pianta la punta sul terriccio; quando il piombo è fuso lo versa dentro quella specie di imbuto, perché ne prenda la forma; aspettano che si raffreddi; Carlino va a riempire la cocuma d'acqua, e la versa sulla terra intorno alla cartolina per affrettare il raffreddamento: dopo poco il pezzetto di piombo a forma di cono è pronto e Franco se lo mette in tasca: adesso aspettano che si aprano le botteghe per andare a prendere un amo. Il fuocherello continua ad ardere, sui legni secchi come ossame. Romanino ha presa viva una lucertola; pensa di metterla sul fuoco, e tutti si stringono intorno a lui invasati e allegri: Sergio gliela strappa dalle mani e la lega a uno spago, e tenendola così
sospesa corre verso il fuoco, seguito da tutti gli altri. Le fa sfiorare la fiammella per farla arrostire lentamente; la pelle della lucertola annerisce, ribolle; essa muove davanti al muso le zampe anteriori, come braccia umane, in un atroce spasimo.



II



Su Testaccio si vedrà sempre un cielo caliginoso e allucinato. Tepore primaverile ancora gelido; vernice verde degli alberi macchiati dal viola o dall'indaco di alberelli da frutta, con grazia da paesaggio giapponese. Panoramica iniziale - dall'alto, come in qualche classico del cinema francese, René Clair: Porta Portese, Riformatorio dei minorenni   di uno stinto, solido barocco romano - lungoteveri alti, deserti. Ma questo di scorcio: l'obbiettivo si fermerà subito contro la riva di Testaccio. Ponte Testaccio. Argine verde spelacchiato, velenoso, sul l'acqua del Tevere ancora tumido per la piena invernale. Lungo blocco giallastro di case a cinque, sei piani del primo novecento, balneari, nordiche. Asfalto delle strade intorno al fiume.
Veduta lontana e nebbiosa della zona portuense, del gasometro.
Lotto; strada, muretto, scarpata, fiume. Cinquanta metri a destra, il ponte. Vengono spesso dei pescatori con l'amo, e anche con una piccola rete appesa ad una stanga, come in un posto abbandonato, mentre sul ponte passa con fragore afono la circolare. Lucertole sulla scarpata cotta dal sole; feci, immondizie; erba ancora abbastanza pulita e fresca.
Lungo la scarpata, fino al livello dell'acqua sono scavate delle buche molto lunghe (sei o sette metri; perpendicolari al fiume; forse per lo scolo) e larghe solo poco più di mezzo metro. Lì dentro Soncino e suo fratello hanno rinchiuso i loro tre gattini, costruendo una specie di recinto. Portano ogni giorno un po' di carne e un po' di latte. Li curano. Ma forse il man giare non basta. I tre gattini sono scheletrici, si coprono di croste. La prigionia li ha resi rabbiosi. Il gatto mezzano rode un orecchia e il collo al gatto più piccolo, e a sua volta ha divo rate le zampe dal più grande.



III



Sullo sfondo di Piazza Testaccio, coi giardinetti dalle aiuole tetramente rasate e i pisciatoi disinfettati e fetidi, sparsi qua e là a indurire l'aria povera e provinciale, si dispongono nei vuoti dell'anonimo più fitto e normale le famiglie dei ragazzi. Il padre di Sergio è disoccupato (alto, disossato anche moralmente - abbiezione « naturale » - occhi lucidi come quelli del figlio, non più però come quelli di un animale, di un uccello, ma piuttosto da ubriaco, un poco come lacrimosi, che ridono sempre con viltà agli altri). Il padre di Nando lavora ai Mercati Generali; il padre di Renato è un salernitano che fa il brigadiere; il padre di Carlino è disoccupato - di nascosto dalla famiglia va alla carità per bere - è gonfio, per qualche malattia ghiandolare, o mal di cuore - l'enfiagione del viso rossiccio - pelle lucida, da infezione, da foruncolo, con rada barba bianca e sporca - berretta...
Ma a presentarsi con più disprezzo e violenza saranno le figure dei fratelli maggiori: il fratello di Carlino - di cui si sa tra i ragazzini che è ben noto nei cinema e nei lungoteveri dei peccatori notturni, per le dimensioni del segreto affidato ai suoi minacciosi calzoni di ladro - compare nei vanti di Carlino, che ha una particolare affezione per lui. Benché sprezzantemente lontani, veduti di scorcio, i fratelli grandi, verranno a restare incisi con brutalità. Modelli assoluti di vita del Testaccio, dai Mercati Generali alla stazione di Ostia, dalle officine del lungotevere verso Porta Portese al cinema del rione.


IV




Riflesso di quella vita sui fratelli minori: le scarpe di Franco e di Romano, di moda nelle vetrine rionali, senza lacci, oppure con lacci a fiocchetto; lisce, a punta. Accenno che fa Romano, ogni tanto, sulla scarpata, calzando un vecchio paio di quelle scarpe femminee e insolenti, a un passo di samba: proprio se condo il più nuovo modo di ballare la samba alla sala Brusco-lotti, o in qualche sala da ballo di Partito.




V



In uno studio per quel « passo di samba di Romanino »bisogna anzitutto osservare la sua iniziale distrazione: il mo mento in cui non esprime niente, benché, già inconsciamente cattivo, il pensiero gli corra per la mente senza lasciar tracce nel suo viso tenero di ragazzetto; dal colore bruno, appuntito; c'è qualcosa di tarato in quel viso, di volpino, di moralmente ma cabro, ma nella pura epidermide, nel disegno più superficiale dei lineamenti, nella voce femminile e un po' nasale. Vive dentro di lui una vita « doppia » di lenza, un patrimonio di convenzione rionale: una assoluta mancanza di pietà. L'istinto di difesa ha compiuto in lui, debole, un irrigidimento insolu bile; ormai non può più tornare indietro dalla sua immoralità, dal suo inconscio e tremendo pessimismo. Mentre è proprio un debole; gli altri potrebbero fare spietatamente presa sulla sua natura femminile, sulla sua possibilità di tradire vergognosamente la vita di Testaccio. Egli però ha trovato il modo di resistere ad essi, rendendosi imprendibile, chiudendosi in una provocante impassibilità: librato in uno stato d'animo indefinibile, fatto in fondo di felicità, e di malignità ancora fresca. Scompare sempre dal gruppo: come entrasse nel suo non esistere. Si volgono gli occhi a caso e lo si vede sull'argine a venti o quaranta metri lontano, occupato a scrutare tra l'erba in tiepido fetore con il manico della fionda stretto nella destra e l'elastico, allentato ma pronto a guizzare, nella sinistra. E senza espressione: se non quella sua abituale, volpina, assente. Ci mette un'attenzione fissa quanto priva di interesse.
Ha una testa un po' lunga, il ciuffo nero gli sporge sulla fronte; la pelle molle e nerastra; nella bocca e nell'attaccatura del naso c'è qualcosa di malato, di abbiettamente animalesco. Ha bellissimi occhi, invece, tagliati in modo capriccioso, lunghi e appuntiti, con le palpebre tenuamente ed elegantemente gonfie. Il flusso continuo di informe e naturale felicità che passa per lui - tenendolo sospeso a una gaiezza di gesti che è la sua ossessione - e la sua acutezza maligna, danno alle sue parole una chiarezza particolare, una tensione, una perfezione nel l'aderire ai modi della parlata, di cui i compagni sono dotati ma in modo più solido e meno appariscente. Certe sue frasi ironiche sono brevi e pulite come fucilate.
Nel caos della loro convivenza sulla scarpata egli rimane al margine - solo con improvvise puntate nel cuore della compagnia. Le sei o sette loro figure, scosse come da un vento pazzesco e ingrato, leggero e volgare, mancano di qualsiasi coesione: niente riuscirebbe più falso che comporle, basterebbe un solo attimo di immobilità per falsarle senza rimedio. Sono continua mente esposti all'imprevisto disordine: hanno l'uno per l'altro, l'inimicizia che devono provare i reclusi nella stessa cella, un inimicizia nevrotica. Diffidano senza interruzione, non sanno cosa sia simpatia, affetto e nemmeno omertà. Si deprimono con voltafaccia continui, con tradimenti inaspettati, con sordide esclusioni... Ecco perché il « passo di samba » di Romanino è labile, sfuggente come un'ombra, praticamente nullo.
Se ne viene e se ne va irrichiesto, inosservato e inutile. L'espressione di Romanino non cambia minimamente. E un attimo; in una discussione vivace - magari mentre Franco accende il fuoco per fondere il piombo, se ne sta chino sui pezzetti di legno lurido - Romanino canta una samba e contemporaneamente ne allude il passo; incrocia le gambe con un lieve scatto, mandando successivamente un piede dopo l'altro a colpire con un gesto sprezzante e appena abbozzato l'aria dietro di lui; mentre tutto il corpo sta proteso in avanti. In quel gesto c’è una interna aria di sfida verso gli altri, verso chi lo sta a guardare: l'esibizionismo è minaccioso, provocante, proprio come nel modello ideale dei fratelli grandi del Testaccio. La presunzione non consiste solo nel considerare se stesso fredda mente insuperabile nel modellare quel gesto dell'ultima moda, ma nel sentirsi partecipe di un mondo aggiornato fino all'infiammazione, di condividere con pochi privilegiati un primato irraggiungibile agli altri per definizione, per diritto. D'altra par te l'aria di sfida, necessaria per far tacere negli altri l'istinto a sfottere chi sia pure con l'ironica sufficienza del dritto ceda a una tentazione. « Ecchime, sto a ballà - dice l'espressione (se in lui ci fosse, ma appunto con la sua assenza) di Romanino - che? ve fa rabbia? ma quanto siete micchi. » Tuttavia l'accenno non dura che un attimo, deve essere una delibazione, una primizia, una pallida idea di quanto, in altre circostanze, con al tra gente, in altra atmosfera (nel centro ideale e inimitabile del Testaccio) egli sarebbe in grado di fare. Per ora del resto non è che l'imitazione del modello imposto dai fratelli maggiori, sanguinante di una soggezione che distrugge.



VI




Sarà Romanino, in una delle sue sparizioni, a scovare la buca dove è tenuto prigioniero il gatto.
Carlo sarà invece il primo ad avere l'idea di ucciderlo a fiondate. La buca è piccola: essi si mettono intorno, e tirano con furia, perché ognuno vorrebbe essere il primo a dare al gatto il colpo mortale, e per precedere gli altri, o lasciarsi precedere, è questione di un attimo. Perciò essi sono come impazziti dalla fretta, sbagliano i colpi, non trovano i sassi vicino. Il gatto dentro la buca è spaventevole.




VII



La luce delle quattro del pomeriggio è insana, impura... L'abituale cielo lattiginoso e accecante. Sul Tevere torbido, il ponte - rosso mattone e bianco - isolato nella vastità della luce. Sempre incise scialbamente contro il cielo le figure di Porta Portese, a sinistra, dell'Aventino, a destra in ombra, di un verde acido e marcio. Naturalmente, domina la parte del Tevere più a mare, col gasometro nebbioso, le scarpate miserabili, pie ne di immondizie (i canili, la baracche dei Battaglioni M.).
Cadavere del gatto: i suoi peli sono a mazzetti, per il sangue che li incolla, è pieno di lacerazioni, croste. La bocca rimane aperta, con le enormi gengive di un rosso pallido, e i dentini bianchi; le labbra, tenere e quasi infantili, restano aperte, rattrappite e ingommate sopra le gengive e i denti. La piccola te sta ammaccata e rossa di sangue quasi nero è tutta bocca. La coda è incollata sul fango asciutto.
Al ragazzi tutto questo esce subito di memoria: come un fatto necessitato, dovuto, tanto coesistente con loro da non poter essere colto, tanto incarnato nella loro distrazione da non distinguersene: insomma, non è un fatto ma una creazione della loro coscienza comune, in cui si agitano, corpi nel mondo (nel Testaccio) e ombre dentro di sè... E’ pari a loro, caso nel caso. Non lo vedono nella sua estensione oggettiva. Non possono restarne impressionati: lastre dove nemmeno un minimo del le loro azioni posteriori ritiene un'influenza di quell'azione. Non c'è interruzione. Passano esattamente come le ore. Del gatto si ricorderanno per caso, poco dopo, quando ripasseranno vicino alla sua carogna ancora fresca cacciando lucertole. Ma sarà una fase del tutto nuova. Qualcuno lo prenderà per la coda e lo getterà nel Tevere. Ma anche questa azione resterà alle loro spalle inattiva, casuale e volgare; essi fanno parte del tempo come l'acqua del Tevere fa parte della corrente. Il ricordo si farà immediatamente logico: una vaga nozione rispondente a precise parole.
Quando Soncino e suo fratello piccolo scenderanno, e si renderanno conto del martirio del loro gatto, gli altri avranno già perso coscienza della concretezza della cosa: ne parleranno come di dati di fatto reali solo per il loro aver fatto i dritti con degli altri ragazzini... Non essendoci in essi nessuna ragione per fare dei confronti, degli esami di coscienza ecc. ... finiranno naturalmente per bastonare i maschietti che protestano, a conclusione della lite...
Soncino e il fratello sono già abbastanza incalliti alla vita di Testaccio benché vi abitino ai margini nelle enormi tombe di fa miglia degli impiegati (appena scoperta la manomissione del rifugio del gatto non avevano detto niente; si erano messi in di sparte, intorno alla compagnia degli assassini, guardandoli con aria cupa, con un nodo alla gola. Con sufficiente viltà, però, per non recriminare se non col silenzio carico di risentimento); e la li te nasce un po' alla volta, per provocazione degli stessi colpevoli, più tardi. E’ già l'ora del crepuscolo, l'argine trasuda in una malsana freschezza, una velatura blu inacidisce le prospettive azzurre verso il gasometro, il caos dei baraccamenti lungo le scarpate...



VIII



La sera scende sul Testaccio come un temporale; per le strade squadrate intorno alla piazza dei giardini, si sentono le saracinesche abbassarsi con schianti improvvisi; ombre di ragazzi corrono con le bottiglie del latte, e i garzoni lanciano a tutta forza i loro tricicli in mezzo alla confusione di gente che rincasa svelta, come se, appunto, fuggisse un improvviso scro scio di pioggia; l’aria è più sporca, torbida, che buia, i fanali di una macchina, già accesi, aspri, bruciano a una curva, sul l'asfalto ancora chiaro e diurno: pare che un vento carico di odori e di umidità sbatta le finestre, le porte a vetri, agiti gli alberelli morti dei giardinetti, e metta in allarme tutto il rione; invece è la calmissima ora della cena che sta scendendo.
(1951)


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Lied, un racconto di Pier Paolo Pasolini - L'APPRODO, anno III - Numero 2 - Aprile-Giugno 1954

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Lied, un racconto di Pier Paolo Pasolini
L'APPRODO, anno III
Numero 2
Aprile-Giugno 1954








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Lied - Da una poesia ad un racconto "dimenticato" di Pier Paolo Pasolini

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Se si pensa ormai di conoscere tutto o quasi dell'immensa produzione letteraria di Pasolini, si cade facilmente in errore: ecco un racconto non inedito, perché è già stato pubblicato dalla rivista di lettere ed arti "L'Approdo" nel 1954, ma sconosciuto ai più, considerato che non fa parte di alcun volume critico dedicato alla narrativa del Poeta, né di alcuna antologia. È un gioiellino incastonato nella realtà contadina friulana con i suoi suoni, colori, sapori, che acquista consistenza in un humus letterario in cui si alimenta uno stile di scrittura perfettamente aderente alle situazioni di vita vissuta, mai avulse dalla storia intima, semplice, cadenzata dai rituali consueti che scandiscono le stagioni naturali come l'esistenza dei protagonisti del racconto.
Il titolo è sicuramente di natura sonora, "Lied", che dal tedesco significa "canzone" : e il racconto è pervaso da un continuo vociare, dai rintocchi delle campane che sembrano richiamarsi da un paese all'altro, dal coro finale cantato in chiesa.
Eppure è un racconto che ha lasciato perplessi me e l'amico Bruno Esposito, perché non emergeva subito il suo contesto, a parte che fosse di argomento friulano, per collegarlo ad una fase della produzione narrativa pasoliniana.
Ne è nato un simpatico "dialoghetto" contemporaneamente ad una ricerca immediata, in seguito a nostre intuizioni, che speriamo abbia sortito dei risultati positivi. I nostri amici lettori possono naturalmente esprimere le loro opinioni a tal proposito:


Bruno:"Sai qualcosa del suo racconto Lied"?
Io:"Ho letto qualcosa di simile, non mi è nuovo nuovo il titolo, può darsi che l'ho visto da qualche parte...ora controllo, Bruno!"
( Vedo l'anteprima del post).
Io:"Periodo friulano, quindi!
Bruno:"1954"
Io:"Come argomento, intendevo"
Bruno:"Sì.Tra un po' lo posto".
Io:"Allora , Bruno: tra i testi che ho attualmente non ho trovato questo racconto.
La data di pubblicazione è del 1954: non si trova nei volumi dei Romanzi e Racconti curati da Siti, ho controllato.
Può darsi che sia citato in qualche saggio...Volevi notizie per una maggiore contestualizzazione?
Io:" La famiglia dei Faedis è de "Il sogno di una cosa": non è che è un racconto interno al romanzo?"
Bruno: "Vedo".
Bruno:"No"
Io:"C'è la presenza di Nisiuti e potrebbe far parte di Atti Impuri!"
Bruno:"Vedo"
Bruno:"No"
Io:"Bruno, c'è la figlia dei Faedis, Ilde, che è presente in "Il sogno di una cosa"!"
Bruno:"Controllo tutte le parole".
Io:"Se troviamo pure Leonina, allora può darsi che sia un racconto che Pasolini aveva conservato e che per il romanzo ha rimaneggiato. Può darsi che i personaggi siano quelli, ma i racconti diversi: tipico di Pier Paolo fare di questi travasi!"
Bruno:" La parola Lied nel Sogno non c'è".
Io:" Ne "Il sogno di una cosa" compare anche Nisiuti, che si era fatto ormai giovincello!"
Bruno:"Mah, sarà un racconto dimenticato".
Bruno:"Se lui ha dato questo titolo, ( Lied ) significa qualcosa... ma adesso faccio un'analisi di tutte le parole".
Io: Sarebbe il caso di rileggere Il sogno: sono convinta che il periodo è quello della composizione del romanzo. Può darsi che il racconto a sé stante, faccia parte dello stesso materiale del romanzo, ma Pasolini ha ritenuto opportuno non inserirlo. Ma lo stile e i personaggi sono quelli..."
Bruno:"Leonina nel Sogno non c'è".
Bruno:"La località Arzene, non c'è.
Che lo spunto sia simile, sembra evidente..."
Bruno:"Ho un formato digitale un po' speciale del Sogno e con "trova parole", faccio in fretta a fare ricerche".
Io: Infatti...quindi solo Ilde e Nisiuti...Lo stile è quello del romanzo, però. Credo che il racconto sia stato scritto con l'intento di inserirlo nel romanzo, ma poi Pasolini si è accorto che lo scopo comunicativo del romanzo era indirizzato verso un'altra direzione e così non l'ha più considerato. L'ha poi pubblicato come racconto autonomo sull'Approdo".
Bruno:"E pare che nessuno se ne sia accorto".
Io:"Sull'Approdo non c'è nessuna introduzione, vero?"
Bruno:"No, sono tre racconti di tre autori diversi".
Io:" Voglio dire: non c'è alcuna introduzione al racconto di Pasolini?"
Bruno:"No! A mio avviso gli è stato richiesto e lo ha buttato giù in fretta..."
Io:" No, Bruno! Era meticoloso Pier Paolo! Se non era convinto della perfezione formale, non dava nulla! Ne sanno qualcosa gli intervistatori!
Per la questione della parola Lied: è un canto, infatti il racconto termina con un canto corale!"
Bruno:"Non parlo della forma..."
Io:"Del contenuto? È da leggerlo con attenzione, ma io respiro la stessa aria del Sogno!
Possiamo anche porre la questione agli amici lettori : secondo voi a quale periodo può essere ricollegato questo racconto? Rimanda ad altre opere per caratteristiche stilistiche, scelte lessicali...e soprattutto perché Pasolini avrebbe scelto di non inserirlo in un'opera più ampia?
Quale compiutezza esprime, se si può definire qualcosa di compiuto?"
Bruno:"A me viene in mente una poesia che ha lo stesso titolo":
Lied

Sotto i pioppi una vecchina
si muove nell'ultima luce,
lontana dal paese,
a raccogliere sterpi.
Che Domenica tranquilla!

L'alba la vedrà,
piegata con quella fascina,
sul suo sperduto fuocherello:
ultimi giorni incantati
di un vivere sconosciuto.

Bruno:"Lied, una poesia in friulano tratta da "La meglio gioventù" (1954)".
"Quindi, il racconto è ispirato alla poesia".
Io:"Sì, la rileggerò attentamente! Volevo chiarire meglio il significato di Lied! "
Bruno:"Canzone".
Io: "Spesso le vicende contadine sono accompagnate da canti...
C'è anche un suo dipinto Campagna casarsese ,del 1947 , che rimanda moltissimo al racconto, come tutti gli altri paesaggi campestri, e come anche le fotografie di Elio Ciol, che aveva compreso perfettamente l'essenza estetica di Casarsa e il mondo poetico di Pasolini : evocativa la foto che ritrae una vecchina in fondo ad una stradina di campagna, alle prime luci dell'alba o al tramonto...È indefinibile!"
Ecco perché parlo di arte totale in Pasolini: si rileva una fortissima impronta figurativa nei suoi scritti.
È un suono...una lingua...una luce..."
Bruno:"È una parola tedesca, che si diffuse in Friuli a partire dal XV secolo - canzone".
Io: "Perfetto..Anche "Il sogno di una cosa"è pieno di suoni...di canti..."

Qui potete leggere "Lied", il racconto dimenticato e che noi abbiamo ritrovato, di Pier Paolo Pasolini:



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"La terra vista dalla luna"- Serafino Murri, ed. Il Castoro.

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"La terra vista dalla luna"
Regia: Pier Paolo Pasolini
Attori: Totò, Ninetto Davoli, Silvana Mangano
Durata: h 0.30
Nazionalità: Italia 1966
Genere: commedia

Nell'ottobre 1966 Dino De Laurentis propone a Pasolini di partecipare con un episodio a un film che sta producendo, Le streghe: gli altri episodi sono affidati ai registi Luchino Visconti, Francesco Rosi, Vittorio De Sica e Mauro Bolognini.
Pasolini, per questa occasione, riprende una storia già scritta e non ancora realizzata, Il buro e la bura. L'epigrafe del film porta la seguente scritta del regista: "Visto dalla luna, questo film che s'intitola appunto La Terra vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Pasolo Pasolini".
Nel film sono narrate le avventure donchisciottesche di un padre e un figlio (Ciancicato Miao e Baciù) che, dopo aver pianto la morte della moglie-madre Crisantema, deceduta per avere ingerito funghi avvelenati, partono alla ricerca di una Donna ideale, che possa diventare l'anima femminile della loro baracca, sperduta in una radura piena di altre catapecchie.
I due incontrano dapprima una vedova isterica che li prende a ombrellate, poi una prostituta; a un certo punto pare che, infine, dopo tanto girovagare, abbiano trovato la donna perfetta, ma si accorgono che si tratta solo di un manichino. Disperati, padre e figlio continuano un viaggio senza più alcun senso, finché incontrano una donna bellissima (Assurdina Caì, nel film interpretata da Silvana Mangano) che appare ai due come una vera e propria dea. La donna non risponde ad alcuna domanda e Ciancicato pensa che sia sordomuta. Alla fine, Ciancicato le rivolge una richiesta di matrimonio alla quale Assuntina acconsente.
Tornati tutti nella baracca, in breve, grazie alle "virtù femminili" della donna, tutto si trasforma e in breve la baracca appare come una ordinata e graziosa casetta. Cedendo alla logica consumistica, però, Ciancicato e Baciù architettano un "lavoro" che consentirà loro di farsi una bella casa. Tale lavoro consisterà in questo: Assurdina, dall'alto del Colosseo, minaccerà di suicidarsi se non verrà aiutata a sopravvivere. Padre e figlio, intanto, raccoglieranno quattrini fra coloro che stanno assistendo alla scena. Tutto procederà in questo modo, fino a quando la donna, scivolando su una buccia di banana, precipiterà nel vuoto.
Ancora disperazione per Ciancicato e Baciù che, dopo aver sepolto la donna, tornano alla loro bicocca: in essa ritrovano Assuntina, muta e sorridente, che li aspetta. I due, felicissimi, constatano che Assurdina, anche da morta, può così continuare a svolgere tutte le funzioni che già assolveva, e gioiscono: "È la felicità, è la felicità!" Appare a quel punto la didascalia finale: "Essere morti o essere vivi è la stessa cosa".
"La morale del film", scrive Serafino Murri (Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano), "che l'autore ci dice essere tratta dalla filosofia indiana, non è, come parte delle critica militante fu portata a scrivere, 'rinunciataria o nichilistica', poiché non c'è nessun accenno di pessimistico consenso con quella affermazione: semmai, con fin troppa ironia, vi si ritrova un malcelato invito a non accettare la logica imperante, ad essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette. La forma fiabesca stigmatizza dunque la falsità della vita, una vita perduta, sepolta in un mare di grotteschi comportamenti e necessità secondarie […]"
Nel gennaio del 1967, scrivendo a Garzanti, in quel momento editore dei suoi libri, Pasolini gli annuncia: "Infine c'è il progetto di un libro molto strano. Si tratta di questo: ho in mente una dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto [i due interpreti di  Uccellacci e uccellini], ma forse non potrò farlo per i troppi impegni. Ora, la sceneggiatura dell'ultimo episodio La terra vista dalla luna, l'ho stesa sotto forma di fumetto a colori (ripescando certe mie rozze qualità di pittore abbandonate). Stando così la cosa, mi piacerebbe, piano piano, di mettere insieme un grosso libro di fumetti – molto colorati e espressionistici – in cui raccogliere tutte queste storie che ho in mente, sia che le giri, sia che non le giri". In effetti Pasolini non scrisse una vera e propria sceneggiatura dell'episodio La terra vista dalla luna: elaborò le scene del film, girato verso la fine del 1966, disegnandole in forma di fumetti.

[Scheda tratta da "Pier Paolo Pasolini" di Serafino Murri, ed. Il Castoro].

RHY.MA. – Rhymers’ Magazine – N. 2 ottobre 2005
Speciale Pier Paolo Pasolini 1975 - 2005


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Pasolini - Roma, stupenda e misera città.

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Roma
[...] 
Stupenda e misera città, 
che m'hai insegnato ciò che allegri e feroci 
Gli uomini imparano bambini, 
le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa... Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare 
esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo.

Però, da cinque o sei anni tutto questo è finito. 

[...] Perché finché il protagonista della vita romana era il popolo, Roma è rimasta una metropoli, una metropoli scomposta, disordinata, divisa, frazionata, ma comunque una grande, confusa, magmatica metropoli. Nel momento, invece, in cui s'è compiuta l'acculturazione, attraverso soprattutto i mass-media, il modello del popolo romano non è più nato da sé stesso, dalla propria cultura, ma è stato un modello fornito dal centro: e da quel momento Roma è diventata una delle tante piccole città italiane. Piccolo borghesi, meschine, cattoliche, impastate di inautenticità e di nevrosi. 

[...] Questo processo di acculturazione, cioè di trasformazione delle culture particolari e marginali in una forma di cultura centrale che omologa tutto, è avvenuto pressoché contemporaneamente in tutta Italia. A ciò hanno concorso diversi elementi. Lo sviluppo della motorizzazione, per esempio. Quando cade il diaframma delle distanze, vengono meno anche certi modelli umani. Oggi il ragazzo della borgata inforca la motoretta e viene "al centro". Non si dice neanche più, come si diceva, "vado dentro Roma". Il centro li ha raggiunti. È finita l'avventura. Il ricambio tra centro e periferia è rapido e continuo. 

[...] C'è un diaframma tra il centro e la periferia. Fino a qualche anno fa erano addirittura due città diverse. Adesso in apparenza un po' meno. 

[...] Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso di inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d'aderire alla loro filosofia. Oggi, invece, sentono questo complesso d'inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un'aria da "classe superiore".

(Da un'intervista di Luigi Sommaruga, Il Messaggero, Roma, 9 giugno 1973)



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LA LUNGA STRADA DI SABBIA - Pasolini, giro d’Italia in Fiat 1100

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"ERETICO & CORSARO"



LA LUNGA STRADA DI SABBIA
Pasolini, Giro d’Italia in Fiat 1100
Di Massimiliano Sardina
Letto e recensito daAmedit


   Quando s’incammina sulla lunga strada di sabbia Pasolini ha da poco compiuto trentasette anni. Siamo alla vigilia dei mitici anni Sessanta, precisamente tra il giugno e l’agosto del 1959, e al volante di un’agile e scattante Fiat 1100 lo scrittore si lancia in un avventuroso tour lungo le coste della penisola italiana, dal confine con la Francia fino a Trieste. Una U che arriva ad abbracciare anche la Sicilia (e che per ragioni logistiche lascia fuori la Sardegna), un’ellisse che risalendo il suo tracciato sulla via del ritorno – quando Pier Paolo rivisita i luoghi e le sabbie della sua infanzia – sembra virare nella geometria simbolica di un cerchio che si chiude. Scopo dell’insolito viaggio è la realizzazione di un ampio reportage per la rivista Successo, un documentario sull’estate degli italiani (dal nord borghese dei moderni stabilimenti attrezzati al sud preumano, incantevole e primitivo); Pasolini ai testi e Paolo di Paolo alle immagini: data la corposità il reportage venne suddiviso in tre parti (la prima di dodici pagine, la seconda di dieci e la terza di nove, per un totale di ben trentuno pagine) e pubblicato a puntate nei mesi di luglio, agosto e settembre 1959.

   Al suggestivo titolo La lunga strada di sabbia gli editori aggiunsero un più esplicativo sottotitolo “Viaggio da Ventimiglia a Trieste”. Dal dattiloscritto originale la redazione di Successo tagliò circa una decina di fogli (versione poi confluita nei Meridiani Mondadori Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti 1946-1961, 1998). La versione preliminare, comprensiva di quei passaggi omessi, vede oggi la luce anche in anastatica grazie al prezioso prestito di Graziella Chiarcossi (che ha curato anche la supervisione dell’opera); questa nuova pubblicazione, edita da Contrasto in una splendida veste grafica, nasce da un progetto del fotografo francese Philippe Séclier. Al lungo e sabbioso testo pasoliniano Séclier decide di affiancare una serie di sue fotografie in bianco e nero, immagini scattate ripercorrendo tappa dopo tappa l’itinerario intrapreso decenni addietro dallo scrittore; ne sortisce una lunga strada di sabbia a due corsie, quasi un inseguimento, e i percorsi talvolta sembrano incontrarsi, incrociarsi, sovrapporsi.


 Al Pasolini sedotto dal “demone del viaggio” si affianca un Séclier preda di una sorta di incantesimo: il percorso ripercorso assume quasi il significato di un cammino iniziatico, di una passeggiata a due, in un susseguirsi curioso e talvolta inquietante di segni e coincidenze. «… Ho voluto mettere i miei passi dietro ai suoi, vedere ciò che lui aveva visto, capito e sentito, lanciarmi a mia volta su quella strada in sua compagnia, per percorrerla come lui l’aveva descritta.», sono parole innamorate quelle di Séclier, e sarà questo il suo stato d’animo prima, durante e dopo l’impresa. Nell’estate del 2001, a quarantadue anni di distanza da quel fatidico 1959, il fotografo ingrana la marcia e parte (con due documentaristi al seguito). Già dopo i primi chilometri Séclier comincia ad avvertire una sensazione di vicinanza, quasi che lo scrittore attraverso lui si stesse lentamente riappropriando di quell’itinerario antico (non una presenza invasiva, ma quella di una guida intermittente, una eco, un richiamo). «Spesso indizi diversi mi conducono in un luogo piuttosto che in un altro e sempre rispondo senza esitazione a questi ripetuti richiami che diventano appuntamenti sconvolgenti.» Quei luoghi – pur così lontani nello spazio e nel tempo, ora completamente trasformati ora incredibilmente intatti – sembrano aver trattenuto gli sguardi e le parole del poeta, incisi sulle pietre degli edifici, sparsi sull’asfalto delle strade, aggrappati ai corpi nuovi dei bagnanti o gettati oltre le immagini da cartolina di quegli orizzonti.

   Il testo de La lunga strada di sabbia diviene per Séclier una sorta di mappa del tesoro, uno stradario interiore, la chiave per carpire il segreto dell’andata e quello del ritorno. Le foto – mai nitide, sempre un po’ agitate, stinte e lontane – cercano di riportare alla luce ciò che è sopravvissuto e ciò che si è irrimediabilmente riformulato: che cos’era l’Italia allora e cosa è man mano diventata? I fotogrammi più struggenti sono forse quelli dell’Albergo Savoia di Ischia, un grande edificio in rovina abbandonato al sole e alle rampicanti, dove la figura di Pier Paolo sembra far capolino dall’ombra come uno spettro della tradizione. Le immagini allegate al presente articolo non sono quelle di Séclier – invitiamo il lettore a scoprirle all’interno di questa nuova edizione Contrasto – ma semplici vedute d’archivio che ben però contribuiscono a restituire certe atmosfere di quei luoghi.

   La lunga strada di sabbia, a torto spesso relegato tra gli scritti minori, è un documento cruciale nel corpus pasoliniano. In questo periplo che si srotola dalle coste di Ventimiglia a quelle di Trieste c’è tutto Pier Paolo Pasolini. C’è la sua sete di umanità, quel bisogno tutto suo di preservare, di proteggere, di custodire: il pugno puntato contro l’orrore incalzante del nuovo impero borghese è come lenito, stemperato dalla carezza elargita ora alla piazzetta di un paesino, ora alla sagometta di un mariuolo ischitano, ora a uno scorcio o a un tenue riverbero di luce. In questo suo perimetrare, sostando a piacere o a caso in un luogo piuttosto che in un altro, Pier Paolo è felice, e lo scrive più volte. In certi passaggi la sua felicità è tangibile, ingenua, bambina. È la gente, la sua gente, a renderlo felice. Quella stessa gente per cui spenderà parole forti, così spesso travisate e strumentalizzate.

   Nel ’59, quando Successo gli commissiona il reportage, Pasolini ha già alle spalle la breve ma intensa esperienza della rivista Officina (con Fortini, Roversi, Leonetti e Romanò) e la pubblicazione, nel ’55, del suo primo romanzo Ragazzi di vita (che fu un grande successo letterario). Del ’59 è anche Una vita violenta, romanzo che rese famoso lo scrittore anche oltre i confini dell’Italia. La lunga strada di sabbia fa anche un po’ da spartiacque tra il Pasolini cinematografico e quello pre-cinematografico (Accattone arriverà nel ’61). Come Goethe (in Italia tra il settembre del 1786 e l’aprile del 1788), o come von Riedesel (il barone prussiano che, attraversando l’Italia nel 1767, stilò l’archetipo del diario di viaggio, qui nel caso specifico nei luoghi archeologici del sud), o ancora come Octave Mirbeau, tra i primi a redigere un diario durante una “spedizione” a bordo di un’automobile (esperienza poi confluita in La 628-E8 – Attraverso l’Europa in automobile. 1907), ma di esempi potremmo enumerarne tantissimi…, Pasolini si lancia nel suo personalissimo grand tour stilando ben di più di un reportage destinato a una rivista estiva: queste quaranta pagine dattiloscritte (ora così tristemente ingiallite) sono pagine di un diario di viaggio, pagine vergate sulla sabbia e con la sabbia, una sabbia di clessidra che oggi, a dispetto del tempo, continua a risalire e a ridiscendere.

   Dal nord-ovest all’area partenopea e poi giù, sempre più giù fino alla Calabria “bandita” e a quei miracoli tra terra e cielo che rispondono al nome di Sicilia e Puglia. Poi di nuovo su dal Salento al Gargano, e poi Pescara, Ancona fino alla Riccione delle vacanze d’infanzia, e più su, su fino a Jesolo, Chioggia e ai temporali di Trieste. Pasolini sfreccia con la sua Fiat 1100, si ferma, guarda tutto da una certa distanza e poi entra, penetra, si getta dentro. Il suo sguardo autoritario e paterno sorvola lunghe distese di spiagge attrezzate, stabilimenti con cabine, ombrelloni, sdraio, juke box… tutti al sole, come un esercito di cetacei spiaggiati. «… Alassio ingoia il visitatore in una matrice d’alberghi, protesi sul mare avaro. […] Genova fuma, sfuma in un guazzabuglio supremo» e fino a Camogli è tutto «un vaporoso arresto della terra sul mare, che fa pensare alle grandi partenze, ai grandi sbarchi.» A Rapallo si erge mostruoso e imponente l’albergo della società che conta, l’Excelsior (che lo scrittore definisce «Dio della Grande Borghesia»), in stile liberty, di «una solennità che rasenta il sublime.» A Cinquale osserva «una banda di giovinastri emiliani distesi a pancia in giù a guardare una tedesca, tutti un po’ grassi spennacchiati, con uno che fa l’epilettico per buffoneria.» A Forte dei Marmi «la sabbia è liscia, sembra il pavimento di una sala da ballo.» A Livorno «lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici.» E aggiunge che Livorno, dopo Roma e Ferrara, è la città italiana in cui gli piacerebbe più vivere. Il viaggio prosegue, dalla Toscana al Lazio, con soste a Fregene e a Ostia (qui, emblematicamente, scrive «Il Grande Formicaio s’è mosso.»). Arriva poi al Circeo:  «Il cuore mi batte di gioia, di impazienza, di orgasmo. Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia.»

   Il viaggio prosegue ancora, dalla «furberia guappa e inespressiva dei napoletani» alla dolcezza primordiale dei triacusi siculi. In Sicilia lo sguardo di Pier Paolo si colora d’incanto. «Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. […] Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa.» A Pachino interagisce con «la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce.»

   Risale poi dalla Trinacria bedda all’Apulia federiciana, fermandosi in una Taranto «che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi.» Poi è tutta una risalita, sotto un Sole primitivo che è costretto a illuminare l’italietta del domani (quella delle fabbrichette, delle settimane bianche, degli hotel-alveare stile Jesolo e Riccione, l’italietta un po’ americana e un po’ parrocchiana, quell’italietta che quindici estati dopo l’avrebbe barbaramente ucciso, schiacciato, abbandonato sulla più brutta delle spiagge). A Trieste, finito il viaggio e finita l’estate, lo accoglie lo spettacolo presago di un acquazzone.

Massimiliano Sardina




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Pasolini a Ravello

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Pasolini a Ravello

E' il 1959, ha appena pubblicato "Una vita violenta" e, con una Millecento, gira l’Italia per il settimanale “Successo” (diretto da Tofanelli) che, dal 4 luglio 1959, pubblicherà a puntate "La lunga strada di sabbia". Partito dalla Liguria, traccia nel suo viaggio una linea continua: scende l’Italia e arrivato a Napoli (“che ebbrezza partire da Napoli”), gira in semicerchio alle falde del Vesuvio ( “orrendo, informe spettro controluce. Percorro la costa che il Boccaccio, settecento anni fa, in una sua novella ha chiamato la più bella costa del mondo”) e raggiunge Castellammare di Stabbia, porta principale per arrivare a Sorrento - Amalfi - Ravello.
 

[…]Lascio la strada sul mare, e mi arrampico su, tra colline fitte di pergole di vigneti, di fichi d’India, più verdi del verde. Ecco a sinistra Scala, e, dopo un’ultima curva da vertigini, una piazzetta con una fontana moresca: sono a Ravello.

Sbaglio tutto: contrariamente al solito, che indovino subito dove devo andare, prendo, a sinistra anziché a destra, lasciata alla fontana moresca la macchina. E vado per un paese anonimo, in fondo, che si allunga come una serpe sulla cima stretta d’un monte: eppure c’è qualcosa di nobile, di misterioso, intorno. Sento puzza di novità. Arrivo in capo alla striscia di paese. “Ma gli alberghi, dove sono?” chiedo a delle donne sedute sui gradini rosicchiati delle povere case.

“Non stanno qui! – fanno, smarrite, dolenti, dolci. – Stanno dall’altra parte!” Ridiscendo di corsa la lunga strada, sorpasso la fontana, e entro, dall’altra parte, nel vero paese. Lì ho passato le due ore più belle di tutto il viaggio, e, sicuramente, tra le più belle della mia vita. È venuta quasi l’ora del tramonto, intanto, e il sole, ancora limpido carico, rade le cime delle colline dense di piante pure, secche, nette come cristalli e insieme piene di umile tenerezza.

Per le strade del paese non c’è quasi nessuno: solo la gente che si vede nei paesi veri, di tutto il nostro mondo, nell’ora del tardo meriggio estivo: ragazzi, soli, che rincasano dal catechismo, donne che tornano al lavoro. E le strade sono pulite, ben selciate, nobili come nel più eletto paese di Lombardia o delle Venezie. Le costeggiano palazzetti barocchi, settecenteschi, d’una discrezione e d’una eleganza mai vista: ogni tanto, le case s’interrompono, c’è un muretto, da cui si intravedono, sotto, abissi caldi di verde.
 È tutto pieno di chiese, di monasteri: il monastero di Santa Chiara, la chiesa di San Francesco, il santuario dei SS. Cosma e Damiano: è una città sacra, una piccola Assisi, dimenticata.

Vedo un frate giovane, rosso, che cammina in fretta giù per gli scalini della strada, tra due muretti sospesi nel vuoto: lo chiamo, gli chiedo quasi allarmato come mai tante chiese in un così piccolo paese. Mi risponde in un greve, gretto napoletano: “Anticamente qui ci stava ‘nu popolo molto numeroso!”. Scompare dietro un portone di quel barocco umile che si vede nei paesi.

Ravello è come in uno sperone, sospeso nel vuoto, in fondo a cui si stendono colline che strapiombano sul mare. Ma te ne accorgi solo alla fine, quando giungi alla Villa Cimbrone, che è il punto supremo di Ravello. In capo alla strada ti si para davanti un portoncino, entri, e non puoi gridare dalla meraviglia: subito, a sinistra uno stupendo chiostro, poi un delizioso palazzetto, e davanti un viale per un giardino favolosamente neoclassico, che finisce di colpo, laggiù, contro il cielo.

Entro nella cripta, esulto davanti a un Della Robbia, a dei bassorilievi anonimi, del primo Quattrocento, i Sette Peccati Capitali, e i nove, meravigliosi, Guerrieri Normanni. Scendo ancora giù, per una scaletta che mi porta a un’abside, una selva di colonne, come dalle mie parti, gotiche; ma, davanti, è aperto, c’è il precipizio, il vuoto, il mare.

Sperduta tra le colonne, un’antica sedia di legno, ecclesiastica, mi siedo, c’è tanta pace, che qui vorrei morire, finirla così dolcemente.
Ma mi rialzo, corro sul giardino, filo lungo tutto il viale, profumato da ubriacare, arrivo in fondo alla terrazza, sospesa nel cielo, con una fila di nobili teste di marmo, e una dolce ringhiera. Ci sono dei turisti, estasiati. In realtà, la situazione è di quelle che non si possono facilmente esprimere: tutto il golfo da Amalfi a Salerno è ai tuoi piedi, e tu voli. Riannodo le fila che mi parevano perse, con la grande Italia cristiana e comunale: non c’è Borbone che riesca a cancellarne lo spirito.

Come Lawrence – che anche lui, avrebbe voluto morire qui, di troppa pace – non riesco a staccarmi da questo angolo di cielo : un luogo deputato all’estasi.[…]

(Philippe Séclier, 
Pier Paolo Pasolini 
La lunga strada di sabbia 
Contrasto 2005)


Nel 1970 Pasolini gira a Ravello  alcune scene del Decameron. Pasolini sceglie il convento annesso alla Chiesa di San Francesco, con suo Chiostro duecentesco di stile gotico e la sua balconata che apre ad un panorama mozzafiato. Perchè  Pasolini abbia scelto Ravello, non si sa: ma è certo che anche il Boccaccio amava questi luoghi.



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Perché Pasolini era “Eretico e Corsaro”

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La copertina del volume di Carlo Picca - 106/110 Sandro Penna.

Perché Pasolini era “Eretico e Corsaro”

Di Carlo Picca

Carlo Picca, pugliese, si è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Bari. Dopo esperienze in campo scolastico come insegnante, ed editoriale come consulente letterario, attività che ancora svolge per alcuni autori ed editori, nel 2011 ha deciso di aprire una libreria a Rutigliano (Ba), che conduce con passione organizzando eventi letterari ed artistici rivolti al pubblico di ogni età, fra cui laboratori didattici, letture animate, incontri con Autori. Dal 2011 è iscritto come pubblicista all’Ordine dei Giornalisti di Puglia ed ha collaborato per quattro anni, come caporedattore, con il network pugliese La Voce del Paese. Attualmente scrive articoli per alcuni magazine nazionali che si occupano di cultura e ha da poco pubblicato, per FaLvision Editore, un saggio critico sperimentale sul Poeta italiano Sandro Penna.

Ha deciso di intraprendere l’esperienza di blogger su Libreriamo intendendo proporre spunti di riflessioni sul mondo dei libri e dell’editoria, nonché recensioni e consigli per la lettura.

(L'opera è di Dimitris Lamprou. L'artista prossimamente esporrà le sue opere ad Atene) 


Cari Amici, questo mese abbiamo incontrato Bruno Esposito, per scambiare con lui qualche battuta sulla sua vita e sulla sua attività di curatore del Gruppo Fb Pasolini Eretico & Corsaro, luogo virtuale di condivisione attenta e di testimonianza importante sull’intera produzione del poeta di Casarsa.


Bruno, come, quando e soprattutto perché nasce questo spazio?


Le pagine Eretiche e Corsare, dedicate a Pier Paolo Pasolini, nascono da un incontro casuale in rete. Nel 2007-08, attraverso una serie di commenti sui nostri rispettivi blog, incontrai Angela Molteni che, nel 2010, mi convinse ad entrare a far parte della comunità di facebook. Da quel momento iniziò una collaborazione molto stretta. Nel 2012 Angela mi inserì come curatore in “Pasolini.net“, il più grande sito web, da lei creato, interamente dedicato all’intellettuale (dopo la morte di Angela, è sparito dalla rete) e sempre nel 2012, Angela ed io abbiamo dato vita al blog “pasolinipuntonet.blogspot.com” che oggi è ospitato presso il Centro studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Alla fine del 2012 le nostre strade si sono separate, ma la passione è rimasta e, quindi, alla fine di quell’anno è nato Eretico e Corsaro, sia come pagina Facebook che blog. La pagina Facebook che oggi è curata da un gruppo di editori ( Io, Giovanna Caterina Salice, Daniele Cenci, Daniela Tuscano, Maria Vittoria Chiarelli, Loretta Fusco, Lucia Genito, Alessandro Barbato, Simona Zecchi, Franceca Tuscano ecc…) nasce con l’intento di far conoscere e mantenere vivo il pensiero, attraverso la sua opera, di uno dei nostri maggiori intellettuali del trascorso secolo. Il nostro principale obiettivo sono i giovani che poco conoscono, per i motivi che tutti sappiamo, questo attualissimo intellettuale tanto ostacolato nel suo lavoro dal potere. Pasolini poeta, narratore, saggista, giornalista, regista… personaggio scomodo, amato… odiato… processato, perseguitato con sistematico accanimento giuridico, infangato, barbaramente ammazzato per quella sua grande capacità di saper essere contro, può ancora dire qualcosa soprattutto ai giovani. Per questa ragione, la rete è il luogo perfetto per quest’incontro e i social offrono la possibilità, attraverso il loro linguaggio diretto, sintetico, di comunicare con tanta gente ed in modo particolare proprio con le nuove generazioni. Lo scopo del nostro lavoro è generare curiosità, voglia di approfondire.

Personalmente trovo preparatissimo il lavoro che fai e fate nella diffusione dell’opera di Pasolini, di tutti i suoi centomila e passa aspetti, e lo fai e fate con una umiltà ed eleganza che apprezzo molto, qui vorrei farti la domanda difficile, e forse banale, ma provo ugualmente a portela, se dovessi raccontarci la lezione più grande che Pasolini ci ha lasciato ?


La lezione più grande che abbiamo ereditato da Pasolini è saper comunicare per essere veramente compresi: “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Oggi, nell’era della comunicazione, in quanti riescono comunicando ad essere veramente compresi? Pasolini ci ha anche prospettato la sua grande visione critica rispetto al mutamento politico-economico, che tutti noi oggi possiamo constatare nei suoi molteplici nefasti aspetti. La sua denuncia dei cambiamenti antropologici generati dalla cultura consumistica, restata inascoltata allora, oggi viene ripresa e riconosciuta ovunque. Tutti riconoscono il potere devastante che esercita la comunicazione dei media e l’effetto omologante che detto potere produce sulle masse : Pasolini aveva previsto, con straordinaria capacità di analisi, il passaggio da persona a consumatore e tutte le conseguenze che questo passaggio comportava. Può essere considerato pertanto un grande osservatore e non certamente profeta . In sostanza ci ha fatto comprendere che tutto nella vita è poesia, e che tutto può essere guardato ed espresso poeticamente.
...

Per continuare a leggere l'intervista, clicca QUI.



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Pier Paolo Pasolini - Come leggere Penna

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Come leggere Penna
Pier Paolo Pasolini
Tratto da Passione e Ideologia
Garzanti -1960.


   Un esame critico della poesia di Penna, abbastanza esteso, sulla rivista «Paragone» l’abbiamo scritto a proposito della plaquette Una strana gioia di vivere (Scheiwiller , 1956) ora inclusa nelle recenti poesie (Garzanti, 1957, e uno dei premi Viareggio dell’anno): a proposito di queste poesie, dunque, che sono gran parte della produzione di Penna, non ci resterebbe qui che riassumerci: perciò preferiamo fare alcune osservazioni marginali ma nuove. 
   
   A dire la verità, tra i suoi lettori, Penna conta un assai maggior numero di amici che di nemici: crediamo che siano pochi coloro che non stimino la poesia di Penna. Pubblicamente, a dirne male, sono stati i fascisti. Ma è famoso il caso dell’elezione del federale di una città emiliana, scelto tra coloro che si facevano più onore in un bordello. Questa mitizzazione della virilità canonica è uno dei dati psicologici più tipici del fascismo: i piccoli, i colpevoli, gli impotenti, hanno creato il mito di uno… stato grande, conformato e potente. Dell’eros della poesia di Penna la gente di quest’orbita ghigna, e ne approfitta per fondarvi una nuova patente di apodissi etica di spesso e grasso empirismo, bisognoso sempre di disperate conferme. 
   
   Gli altri – quelli che arricciano il naso, pur senza ghignare, o, freddamente, con secca denegazione tratta dai gloriosi effati atti a esprimere l’ineffabile, lo respingono – sono il minimo che si potesse preventivare per un libro come questo di Penna. Del resto, chi non comprende la sensualità altrui, significa che non ha capito o risolto o appagato la propria. 
   
   Resta l’aliquota maggiore: coloro che amano Penna, e, indulgenti, sorridono all’oggetto della sua poesia, prescindendone, magari con illuminata saggezza di laici o spirito di veri cristiani. Non è detto però che il loro modo di leggere Penna sia, in tali termini, attendibile. Intanto: questo libro è stato generalmente letto tutto d’un fiato (anche magari non per intero) oppure lasciato sul comodino, perché può essere – e lo è assai spesso – un livre de chevet. In tal caso viene delibato a raterelle serali. Due modi equivoci di leggere Penna, perché in qualche modo troppo affettuosi. Bisogna invece cominciare col non prescindere troppo, e col non essere troppo caritatevoli. È vero che si può dare un eccesso di reazione: e piuttosto che gettare la prima pietra, si preferisca far finta di niente: ma è questa una vera comprensione? Diciamo che non bisogna prescindere troppo, e non essere troppo caritatevoli, non a proposito dell’oggetto dell’eros penniano, no certo: ma a proposito dei fenomeni di questo eros: che sono da una parte ossessivi, e quindi, per definizione, monotoni (sicché, chi legge tutto d’un fiato rischia di trovare, ingiustamente, questa poesia priva di una storia psicologica), e, dall’altra, sono eccessivamente eletti, tendono a precipitare in singoli momenti linguisticamente felici e leggeri, che parrebbero esaurirsi poesia per poesia (altro rischio di vedere in Penna un poeta senza storia interiore). 

   Gli uni e gli altri di questi lettori (che possono coesistere in una medesima persona) finiscono col saper dire soltanto del libro di Penna che è delizioso: quasi che per lui fosse lecito sospendere ogni giudizio critico, con quanto di psicologico, ideologico e morale esso comporta dietro l’analisi stilistica, e arrestarsi a una sorta di irrelata coscienza del suo valore. Della sua grazia. Questo è stato il limite della critica ermetica alla poesia di Penna, e pare sussistere anche oggi. 

   In realtà a noi sembra che la poesia di Penna sia infinitamente più drammatica e complessa di quanto non sembri: intanto, tanta felicità d’ispirazione, tanta euforia, è dovuta, originariamente, alla scoperta di un eros che – per spontanea rigenerazione dello stupore – rende continuamente meravigliosa l’esistenza: mentre, al contrario, avrebbe dovuto renderla, secondo i canoni sociali e religiosi vigenti e correnti, inaccettabile, orrenda. Ma la gioia – o diciamo piuttosto la joi, secondo l’idealeggiante formula provenzale – o meglio, secondo il termine mistico tout court, l’enthousiasmos – che inonda la vita di Penna e rende estatici e ridenti i suoi versi, spesso come certe inanalizzabili quartine popolari (di cui condivide insieme la normalità linguistica stilizzante, e l’assoluta, gratuita inventività) è una forma della religiosità, o della morale religiosa, che in Penna è rimasta schiacciata o mistificata dalla nevrosi. 

   L’angoscia che, insieme alla gioia, serpeggia in tutto il libro, il disperato bisogno d’elezione – si guardi, nella fattispecie, l’assoluta elezione linguistica: la carenza di barocchismi (se non limpidissimamente ironici), di dialettismi ecc. – confermano che Penna non è per nulla, nel fondo, come usa dire in tali casi, greco: e che anche il suo male è un male del nostro secolo, un caso di dolore, non di grazia. 

   Si può dire che tutta la poesia di Penna, derivando da una mancata religiosità (di tipo mistico, s’intende, piuttosto che etico), sia uno sfogo, un transfert di quella mancata religiosità, fattasi, nell’intima confusione, religione dei sensi. Infatti ogni fenomeno dell’eros, ogni sguardo, ogni atto, ogni desiderio, ogni situazione, anche la più imbarazzante ed eccitante, sono – senza mai però stingere nell’astratto – depurati da ogni determinazione temporale, da ogni idiomaticità. Divengono prove: quasi fulgurazioni di tratto in tratto deliziosamente ritornanti nella vita, a dire di un fatto sempre uguale e sempre presente: l’amore dei sensi, con tutti i suoi profondi echi nello spirito sia pur cieco e smarrito. 

   Da ciò deriva, nella poesia di Penna, un’assoluta mancanza di sensualità – o addirittura, come direbbe un critico novecentesco, di sensuosità. Esse sono in nuce delle parabole, attestanti una verità, folle, ma stupenda. 
1958

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