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Pasolini: Massacro di un poeta. Storia dell’incomprensione di un dramma intellettuale

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"ERETICO & CORSARO"



Pasolini: Massacro di un poeta.
Storia dell’incomprensione di un dramma intellettuale

“La morte non è nel non poter comunicare 
ma nel non poter più essere compresi.” 

   Lo scrisse Pier Paolo Pasolini e in questa frase, in un certo senso, è egli stesso a delineare la complessità del suo grande dramma. L’intellettuale friulano – ci dice Simona Zecchi, giornalista romana che a lungo si è occupata della sua morte – aveva una sola ossessione: la verità. Ma questa “verità” come si deforma dopo la sua morte? Quali forze agiscono e perché nella sua deformazione?

   Ciò che avviene dopo il delitto dello scrittore corsaro prende i tratti di una fiction, di una finzione degna di un thriller, che si narra post mortem: il vero copione si recita dopo l’assassinio e non all’atto stesso. È il segno che l’ossessione aveva le sue ragioni, che l’intellettuale – in quel momento più che in altri – doveva, seguendo l’accezione di Said, “dire la verità” ma non “al” bensì “sul” potere. Pasolini, nel corso della sua breve ma tormentata vita, non si rivolse infatti mai “al” potere ma incentrò il discorso sulla sua ontologia, sul suo tratto non tanto materiale – identificabile in qualcuno o qualcosa – quanto piuttosto su quello immateriale, intangibile, sul processo, subìto e non compreso, che produsse la tanto discussa “mutazione antropologica” in coloro che ne erano, in un certo qual modo, vittime e prodotti. In questo senso “Il Palazzo” assumeva i connotati di una “conseguenza” della società basata sulla costrizione dei consumi, sul desiderio, incontrollabile e violentemente impulsivo, dell’accumulazione.
   Il potere da un piano più alto – il “palazzo” appunto – via via si confaceva al corpo, i cui segni, sosteneva Pasolini, erano evidenti. I capelloni, si, ma anche il linguaggio – il “vero potere”, con accezione foucaultiana – del “politico” Moro era il segno evidente della trasformazione. Quel registro linguistico, così macchinoso e logorroico, del “meno implicato di tutti” (e ci sarebbe da scrivere un saggio solo su questa espressione) che si dissolve nella consapevolezza della morte e della prigionia. Pasolini, nei 55 giorni in cui l’Italia visse su di un filo ad alta tensione, però non c’era. Era già morto. La parabola dell’intellettuale – che, al contrario dell’amico Calvino, si rendeva palese – era arrivata a compimento all’idroscalo di Ostia tre anni prima. A pensare al linguaggio del Presidente della democrazia cristiana – mutatosi, quasi per un paradosso letterario, da uomo del potere a vittima del potere – ci pensò, come fosse un’eredità acquisita, l’intellettuale con cui Pasolini meglio s’intese in vita: Leonardo Sciascia. Moro, scrisse l’intellettuale siciliano, si era “spogliato” del potere, era diventato un uomo solo e – guarda caso – incompreso nel suo percorso. Dall’uomo dei macchinosi discorsi della politica all’uomo dei commoventi discorsi familiari. Come vedrete nell’intervista, si parlerà di “convergenza di destini” tra l’intellettuale e lo statista. Si vedrà, come ci dice Simona, che Pasolini è stato incompreso persino nell’interpretare Moro. Ma è il caso di fermarci: lasciamo parlare l’autrice. In un’intervista densa di riflessioni come questa si trova il nucleo originale del suo lavoro: Massacro di un poeta, (Roma, Ponte Alle Grazie, 2016).

   Il tuo libro è un libro d’inchiesta ma, per quello che mi riguarda, l’ho trovato interessante per un punto nodale, che mi sembra rappresenti l’anima del tuo lavoro: la critica alla cattiva propensione ad analizzare, interpretare e forzare la morte di un uomo di lettere, immensamente complesso e dai poliedrici spunti intellettuali, attraverso quello che mi sento di definire il “paradigma dell’omosessualità”. Non credo di sbagliare accezione o di traviare il tuo pensiero nel definire tale un modello che ha spinto anche bravi critici (mi ha colpito la critica che fai a Belpoliti) a declinare la “tragedia” pasoliniana o a coniugare l’intera sua parabola attraverso la categoria dell’omosessualità estetizzante. Penso che, invece, l’intero percorso intellettuale pasoliniano abbia una costante: l’incomprensione. D’altronde lui stesso scrisse che “la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.” E’ sbagliato affermare che non aver capito Pasolini possa aver generato una trappola interpretativa come quella dell’omosessualità? Potresti spiegare al lettore perché si tratta di un paradigma e per quale motivo ritieni che la stragrande maggioranza dei commentatori incappi in questo errore?

 
 Sì, mi sento di condividere questa tua sintesi espressiva su ciò che parte della intellighenzia ha perpetrato contro Pasolini e che ricade in pieno nella trappola, da te menzionata, in cui sono caduti alcuni involontariamente, altri per quello stato di conto in sospeso che con Pasolini avevano. Questo è successo e tuttora succede sia a destra che a sinistra. Entrambi “gli schieramenti” non ne sono stati esenti. E’ evidente, come ho dimostrato nel libro, che ciò che ha perpetrato soprattutto l’estrema destra contro di lui e la cultura conservatrice ha avuto quasi un pareggio di conti a sinistra dove l’incomprensione è stata per certi versi peggiore. E anche in questo senso nel mio libro vi è un abbozzo d’inchiesta culturale, verso la fine, nelle pagine dell’epilogo ma che riprenderò insieme ad altro. Perché prima di tutto ho creduto fosse necessario, e mancasse, un lavoro investigativo di sintesi nuovo e unitario sul “cosa” ha portato al massacro Pasolini e sulle modalità specifiche attraverso un lavoro di inchiesta abduttivo non deduttivo né induttivo. Poi è stato inevitabile, a 40 anni da quel massacro, fare qualcosa che un giornalista non dovrebbe fare: avanzare anche le ipotesi sul “chi” e non parlo solo dell’aver delineato i diversi livelli operativi coinvolti. Il “chi” infatti spetterebbe ad avvocati e magistrati, soprattutto a questi ultimi. Un lavoro questo che è mancato anche nelle ultime indagini preliminari aperte dalla Procura di Roma e durate 5 anni. Torno al cuore della tua domanda. Nella raccolta postuma Lettere Luterane del novembre ’76, nella serie dedicata a Gennariello rimasta incompiuta, il ragazzo immaginario a cui Pasolini indirizza un piccolo trattato, è lo stesso scrittore che risponde alla tua domanda parlando di “tinta”: mantello di pregiudizi ai quali nemmeno gli
intellettuali si sono sottratti, e con i quali ricoprivano ogni sua analisi e critica, una su tutte quella sull’aborto. Lì Pasolini riferiva come la sua figura fosse paragonabile a quella dei neri, rinchiusa cioè in un ghetto mentale a cui vengono assegnati tutti coloro che appartengono a una minoranza. La polemica sull’aborto che lo travolse, in particolare, era stata appunto ammantata (cito) da una “tinta che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale”. E’ il paradigma che lo ha inseguito fino a oltre la morte. Per anni, ma anche adesso. A partire dal ’92, il capitolo in Petrolio, sui Pratoni della Casilina, ha impregnato molte pagine culturali come in un istinto voyeristico incontrollabile, rinnegando il ruolo specifico invece dato da Pasolini al sesso in quell’opera letterario-giornalistica che proseguì a rappresentare nel film Salò, rimasta anch’essa incompiuta. Concludo ricordando le parole che usò Pasolini nel maggio del 1969 per definire il “caso Lavorini” che mi sembra emblematico e precursore di tutto ciò che sarebbe avvenuto durante la strategia della tensione. E’ la prima volta che lo cito perché vi ho ragionato solo di recente ma è un fatto questo che andrebbe anche attraversato. Ermanno Lavorini è stato
una giovanissima vittima di un omicidio avvenuto a gennaio del ’69 in un primo momento fatto ricadere all’interno di un contesto di pedofilia omosessuale. In Caos, Pasolini scrive: “L’uomo medio rappresentato e officiato dai giornali richiede ancora come nel profondo dei millenni, il “capro espiatorio”: sente cioè il bisogno del linciaggio. Le vittime da linciare continuano a venire regolarmente cercate tra i diversi…”. Poi le indagini sull’omicidio portarono a individuare due neo fascisti e a un monarchico che avevano montato inizialmente il tutto. E’ emblematico se pensiamo alla sua sorte dopo e agli schemi della strategia della tensione.

Il nuovo libro di Simona Zecchi,
Pasolini Massacro di un poeta
(Ponte delle Grazie, 2016)
   
   Quando ho letto nel tuo libro la parte relativa allo “schema perfetto” non ho potuto non pensare ad una sceneggiatura (la preparazione della morte) e alla messa in scena (la morte). Il delitto Pasolini è un po’ un film, è letteratura (nel senso che Pasolini diventa egli stesso un personaggio da costruire), diventa un personaggio letterario in una fiction in cui il dominus non può che essere rappresentato dall’erotismo. Infatti, come tu sottolinei, i primi resoconti sono colmi di dettagli scabrosi. Ma l’eros, in realtà, che ruolo aveva nella parabola pasoliniana? E parlo della parabola reale, non nella fiction.

   Lo “schema perfetto” è il “film” che non si potrà mai girare credo sulla morte di Pasolini, l’unico film rispetto ai tanti che si sono già girati – eccetto uno quello di M.T. Giordana, Pasolini, un delitto italiano (1995) solo ovviamente datato – perché di fatto è la dinamica reale e più vicina al vero che lo ha condotto alla morte. Per ricostruirlo ho dovuto attraversare mille cavità buie e affrontare un lavoro complesso, tagliando i rami delle suggestioni o dei depistaggi a volte autoinflitti da chi indaga su questi fatti. Non ci sono abbastanza coraggio e capacità oggi per realizzare un film senza trasformare quei fatti che ve l’hanno condotto appunto, e Pasolini stesso, in una materia da macchia per fiction (non film).
D’altra parte come spiego nel libro, Pasolini diventa “personaggio” da character assassination (C.A.), buono per comminargli una strategia del linciaggio in cui tutti cadono (salvo poi per alcuni di essi tornare indietro e fare finta di non esservi mai caduti). Tipo di tecnica, questa del C.A., creata appositamente dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distruggere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di una figura che emerge dalla società in contrasto con il sistema, deformandone i tratti e trasformandolo appunto in un personaggio, una macchietta. E’ una questione reale non una definizione letteraria. L’eros è stato uno dei filtri da lui usati per entrare nelle viscere della realtà e indagarla o anche soltanto rappresentarla, oltre che parte spiccante, indubbiamente, della sua intima personalità. Quell’eros speculare al sesso il quale è usato invece da Pasolini come altro filtro, come accennavo prima, per raccontare la perversione del potere nel film Salò. Il punto vero è che in Italia non c’è un Pasolini: permangono invece ancora qualche volta i metodi. Perché non è vero – come si percepisce- che si è smesso di uccidere le persone dannose per il sistema: è meno frequente e si riesce a confondere queste morti con le altre casualità della cronaca ma non impossibile. Ma questa è un’altra questione.

   Ritornando all’incomprensione. Mi sembra che l’ ”ossessione per la verità” di Pasolini determinasse anche l’incomprensione. I fascisti, certo, che giocano un ruolo principale, di esecutori, nel tuo libro ma ci sono anche quelli che, per un periodo, furono i “compagni politici” del poeta friulano: i comunisti. Senza entrare all’interno della rottura, che ruolo hanno avuto i personaggi del PCI (ricordi le censure di Togliatti) nella costruzione del “paradigma” omosessuale?


Simona Zecchi,
giornalista, collabora con numerose testate nazionali,
quali il Sole 24 Ore, il Fatto Quotidiano,
il Messaggero Veneto e il Manifesto.

   Quando uscì Ragazzi di Vita (1955), il romanzo che lo consacrò al successo letterario e per il quale fu anche accusato di oscenità e pornografia, gli attacchi più profondi arrivarono dal PCI. Il fratello di Berlinguer, Giovanni, deputato del partito per tre legislature, scrisse un lungo articolo sull’inopportunità di vedere rappresentata la borgata come una classe abietta e infima mostrando di non aver voluto capire la profonda svolta che nel mondo della letteratura con quel romanzo avveniva. La periferia e le borgate si presentavano infatti per quelle che erano senza falsi moralismi fra pure cattiveria e bontà e situazioni sociali ed economiche fuori da ogni decenza. Quindi anche una denuncia. Al suo funerale gli unici due politici che inviarono un telegramma di condoglianze alla famiglia di Pasolini furono il Berlinguer segretario, Enrico, e Aldo Moro il cui fratello fu giudice di primo grado del processo contro Pino Pelosi, l’unico che riconobbe il “concorso con ignoti”. Come riporto nel mio libro, in un messaggio pubblicato su L’Unità all’indomani della morte c’è tutta la cecità di quella parte politica a cui comunque Pasolini pur avverso e contrario apparteneva:

   “La «vita violenta» su cui egli ha indagato con una vivacità intellettuale forse senza eguali nel nostro paese, è divenuta ora causa terribile della sua scomparsa. Quasi che egli avesse teso a cercare questo epilogo.”

   Quest’ultimo periodo può fare il paio con ciò che fino al ’93 Giulio Andreotti aveva sempre dichiarato “Se l’è cercata”. Nel 1979 Giovanni Berlinguer forse a scusarsi per alcuni attacchi da parte del PCI
presentò interrogazione parlamentare affinché si istituisse una Commissione d’inchiesta sulla morte, andata come le recenti richieste in merito: nel vuoto. Seppure queste siano state seguite da vere e proprie richieste parlamentari con un iter preciso a cui però il mondo politico non ha saputo o voluto dare corso. Poi c’è l’esempio che hai fatto tu di Togliatti riportato sempre nel libro, ma si potrebbe ben andare a ritroso fino allo “scandalo” che lo vide protagonista nel ’49 e che gli causò la cacciata dal partito. Tessera che non fece più. Uno scandalo architettato a bella posta dalla DC e in cui il PCI ben volentieri cadde. Anche qui…
   “Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. E’ più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità.” 
   
   Questo pensiero subentra subito dopo una critica a Calvino, reo di aver “taciuto” o “forse un po’ mentito”, a proposito del modo con il quale affrontare l’attualità. Nel tuo libro hai affermato che “Pasolini aveva un’ossessione: la verità”. Come interpreti, allora, questa frase?

La lettera aperta di Calvino
a Pasolini dopo la morte dell’intellettuale friulano.
La profonda amicizia fra i due si era rotta
all’inizio degli anni Settanta.
   E’ un periodo estratto dal suo saggio sull’opera di Italo Calvino, Le Città Invisibili (’72), contenuto in una raccolta più ampia di scritti fra il 72 e il 75, pubblicati di volta in volta sul settimanale Il Tempo. Scritti “poetici”, letterari rispetto a quelli composti nello stesso periodo che invece vedranno la luce unica negli Scritti Corsari (75). Nel momento in cui scrive, Calvino e Pasolini sono lontani tra di loro, lacerati da una polemica che ha messo a dura prova la loro bella amicizia. Questa affermazione in realtà deve essere letta all’interno di quelle pagine come un qualcosa di polemico contro il suo ex amico, pur recensendo le Città Invisibili in modo favorevole. Secondo questa affermazione, infatti, resta netta la contrapposizione che Pasolini fa tra lui stesso, che gridava “a tutti i venti il ristabilirsi della verità come una gallina spennacchiata“, e Calvino su cui Pasolini non sapeva, scriveva, “cosa è passato realmente dentro la testa in questi ultimi anni, perché Calvino forse diplomaticamente ha taciuto o ha un pò mentito”. E’ un
allontanamento che inizia ben prima con la polemica fra i membri del Gruppo 63 e l’Avanguardia Letteraria (a cui Calvino si avvicinò) e lo scrittore corsaro e che proseguirà fino alla morte stessa con l’altra polemica: quella che vedeva contrapporsi l’accusa di “nostalgia per l’Italietta” fatta da Calvino a Pasolini, e la risposta dello scrittore che si riteneva incompreso, in quanto, come più volte dichiarò, la sua non fu affatto nostalgia per l’italia fascista ma per quei valori che hanno cessato di esistere dal momento in cui senza graduale progresso si stava giungendo a uno sfrenato sviluppo. All’indomani della morte del poeta, Calvino anche si scusò, in un certo senso, con una lettera aperta. Pasolini denunciava la mancanza di urgenza presente tra giornalisti e scrittori del suo tempo e del suo cerchio magico, (lo fece anche con Furio Colombo, durante l’ultima intervista a lui rilasciata, che fu tra i fondatori del Gruppo 63). Si sentiva solo anche in questo per questo polemizzava per incitarli. Su Calvino a un certo punto scrive:

“ha mantenuto tutto il suo credito, mentre io screditato due volte…continuo a godermi il discredito, ma anche la antipatia di chi non sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire”.

   Paradossale che Pasolini, abile creatore del “personaggio” Moro, abbia avuto, in un certo senso, il suo stesso destino. In un certo senso, sono due narrazioni differenti ma complementari: entrambi incompresi e narrati, nel discorso pubblico, come personaggi letterari. Come spiegheresti questa “convergenza di destini”?

Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro
 insieme a Venezia.
Moro fu, assieme a Berlinguer,
l’unico politico italiano
di grande rilievo
 a presenziare ai funerali di Pasolini.
   So che questa convinzione, che Pasolini abbia creato il personaggio Moro, è sempre più comune soprattutto tra gli storici, ma con la quale non concordo. Questo succede perché delle opinioni su Moro avute dallo scrittore si conosce soltanto la più nota comunque vera, la definizione del “meno implicato”. Come se questa definizione avesse in qualche modo sollevato Moro dalle colpe che invece la DC il suo partito aveva tutte. Da quel “meno implicato” alla morte di Moro passano 4 anni compreso il massacro a Pasolini. Nei saggi contenuti in Empirismo Eretico del 1972, e pubblicati però fra gli anni ’64-’71, in uno di linguistica (1965) Pasolini stigmatizza il linguaggio di Moro come quello che inaugura la tecnocrazia nella lingua italiana, un artificio quello usato dai politici per parlare delle cose e non farsi comprendere dai cittadini e che Aldo Moro dunque utilizza, nella fattispecie parlando della inaugurazione di un’autostrada e trasferendo così a un pubblico normale, non a dei tecnici, il concetto dell’importanza di superare le congiunture del momento e cooperare allo sviluppo (quello sviluppo che Pasolini chiamava senza progresso).
A creare il “personaggio” Moro fu Moro stesso, invece, più avanti quando cominciò a capire che le forti fratture sociali che investivano soprattutto i giovani e le istanze dei più illuminati giovani a sinistra dovessero essere sempre più prese in considerazione da parte della politica e in particolare dalla DC. Istanza a cui ovviamente la DC di Moro non intese rispondere. Un cambiamento profondo di Moro che si innesta tra i motivi che lo portarono alla morte, per mano non solo delle BR, ma che non alterava l’indole di mediazione tra i poteri che gli apparteneva e la forte appartenenza al Partito nonostante tutto. Mediazione e appartenenza che con molta probabilità lo hanno portato, per non aggravare secondo lui lo stato delle cose, a nascondere in un primo momento la pista nera che poteva emergere nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Un uomo diverso, che da un certo punto in poi resta dunque “il meno implicato”. La convergenza di destini che giustamente tu vedi è tutta sintetizzata nei loro ruoli opposti e rivoluzionari ognuno a modo loro e che potevano a maggior ragione avere entrambi su due percorsi diversi per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese un’influenza enorme.
A cura di
Enrico Ruffino

Fonte:
http://aggiornamentistorici.altervista.org/pasolini-simona-zecchi/


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Affabulazione di Pier Paolo Pasolini - Regia: Vittorio Gassman.

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"ERETICO & CORSARO"



Affabulazione di Pier Paolo Pasolini 
Regia: Vittorio Gassman.

Tratto da Il Dramma
Mensile dello spettacolo
numero 9-10 novembre-dicembre 1977
da pag. 46 a pag. 48


Interpreti: Vittorio Gassman, Corrado Gaipa, Silvia Monelli, Luca Dal Fabbro, Roberta Paladini, Attilio Cucari, Vanna Polverosi, Alviero Martini.

Allestimento scenico: Gabriele De Stefano. Musiche: G. Gabrieli. Adattamento di Fiorenzo Carpi.

Quello che ha sempre colpito, in Pasolini, è il suo innato bisogno della provocazione. Non c’è ambito della cultura che non sia stato « toccato » dal giudizio di Pasolini. Spesso si è avuta una sensazione di disagio, anche perché l’intervento pasoliniano non era mai formulato in semplici moduli polemici: le sue idee rimuovevano le ombre di fatti che a noi sembravano leggibili in quell’oggettiva composizione. Ci si poteva chiedere se il suo fosse un bisogno folle di esibizione o una necessità di turbare l'ordine delle cose. Tuttavia il suo intervento — per quanto « disturbatore » — agiva sempre in senso progressista, anche se aveva le connotazioni dello scandalo. A volte, accanto all’intervento, Pasolini sviluppava una sua teoria dell’episodio preso in esame. Pensiamo, per esempio, al cinema: la sua esperienza di regista lo aveva portato ad una serie di riflessioni che, in fondo, vogliono diventare delle vere e proprie linee teoriche. Quando affronta il problema del linguaggio filmico, Pasolini discute sulle idee dei grandi teorici del linguaggio, da Saussure fino agli ultimi formalisti.

In « Empirismo eretico » — tanto per citare un esempio —, accanto a una miscellanea di interventi-ipotesi, c’è anche quella relativa al film. Pasolini volle trovare il modo di definire l'unità fondamentale della forma cinematografica: il cinema. Il suo discorso è lucidissimo, motivato come sempre, anche se ti accorgi, alla fine, che la sua, in definitiva, è un'ipotesi. Intanto, però, quell’ipotesi ha avuto la sua collocazione critica, e non puoi fare a meno di prenderla in considerazione. Succede la stessa cosa per il teatro. Pasolini si pone di fronte alla scena con occhio molto scettico per quanto riguarda la realizzazione della drammaturgia contemporanea. Riconosce la grandezza di Brecht, osserva poco convinto le ultime esperienze di teatro gestuale, guarda con occhio sospetto gli ultim i esperimenti di politica teatrale. Per un momento ti viene il dubbio che la scena, con tutti i suoi problemi, non lo riguardi molto da vicino. Poi scopri che è soprattutto la distanza che si frappone tra la sua « ipotesi » e la realtà, quello che maggiormente lo induce ad una specie di silenzioso riserbo.
Di nuovo, la sua idea emerge da una formulazione quasi « scandalosa » del teatro: è il « Teatro di Parola ». « Per me i tempi di Brecht sono fin iti », dichiara Pasolini — e l’idea stessa di un teatro popolare, come teatro di intervento sulla base popolare (vedi anche i nobili esempi di un Majakowsky o di un Esenin, con i loro esperimenti nelle fabbriche) è, per lui, un’idea ingenua. Il teatro, per Pasolini, non è popolare. Ed ecco che la sua ipotesi la puoi accusare di aristocraticismo. Invece Pasolini, in una sua ennesima forma di provocazione, dimostra come la scena deve avere un autore che sa cosa dire al pubblico; sarebbe a dire che tra emittente e fruitore, per dirla in gergo corrente, ci deve essere un codice di riferimento omogeneo. Solo in questo caso, secondo Pasolini, il teatro acquista vita. L'esempio, che portava sempre, del teatro ateniese, è il più efficace per dare una precisa idea di come in Pasolini fosse chiara la categoria Rito: solo se il Rito non è inteso nella sua primigenia remota, ma nella costruzione raggiunta attraverso il Sociale, perché su questa base può nascere il vero rito, quello culturale.

« Il teatro di Parola ricerca il suo spazio teatrale non nell'ambiente ma nella testa. Tecnicamente tale spazio teatrale sarà frontale: testo e attori di fronte al pubblico: l’assoluta parità culturale tra questi due interlocutori, che si guardano negli occhi, è garanzia di reale democraticità anche scenica ». Pasolini affermava che il teatro si deve rivolgere ai borghesi perché sono costoro che lo vedono. Naturalmente non bisogna intendere le affermazioni pasoliniane come una dichiarazione contro la volontà di coloro che vogliono fare una diversa e più ampia propaganda teatrale (la ricerca di base ecc.): il suo intento era quello di chiarire gli equivoci che, a suo avviso, circondavano la scena. Tutto questo si riverbera anche nella concezione dello spettacolo in sé: occorre ridare valore alla parola, che l’attore deve dire in modo da farla ascoltare. L'azione è un momento secondario rispetto alla necessità, secondo Pasolini, di tornare a quella dolce e soave esperienza di un poetico rapporto di comunicazione.

« Il linguaggio e quello che vedrete è un linguaggio difficile, facile per i pochi lettori »: queste parole, dette da Gassman, all’inizio del dramma sono quasi l’emblema di quest’opera pasoliniana. La scena — riassunta in un piano verde, inclinato, con sullo sfondo una specie di lapide, mentre, dall’alto, piovono dei lampioni cimiteriali — la scena, dicevo, è la oscura « culla » di un uomo in crisi, che scopre la propria solitudine. Sogna, lui, il Padre e dice:
« Tutto comincia con questo sogno. / Sogno che io, però, non ricordo. / Tutto, meglio, ricomincia — se è mai cominciato: qualcosa, già, nella mia vita... ». 
Il Padre non conosce più se stesso e, per questo, non può fare a meno di cercarsi: altrimenti sarebbe la morte. E contro la morte lotta furiosamente, e la sente come un’improvvisa malattia, che lo ha colto di sorpresa. E’ il Figlio che ossessiona la sua esistenza, la Forza che, inesorabilmente, si estranea da lui. Per questo, il Padre interroga il Figlio, sperando di conoscere la verità che quello nasconde. Il Padre, industriale lombardo, scopre la necessità di una Vita, e non può fare a meno di viverla. Il Figlio è, ormai, il Presente e il Futuro: per questo motivo è diventato il Padre. E’ una verità che angoscia e tortura l’Uomo, lo pone di fronte alla necessità dell’esistenza e alle leggi inesorabili del Destino. Come spiegare una cosa simile ? Essa stessa è una malattia, un’ombra implacabile che stanca l’anima e la rende priva di forze. La ricerca di una risposta, di un significato, viene inghiottita dal Passato, da dove la Verità nacque e prese consistenza. Ecco che, durante la malattia, nell'inferno del delirio, giunge la figura di Sofocle che dice:
« Bene: tu cerchi di sciogliere l’enigma / di tuo figlio. Ma egli non è un enigma. / Questo è il problema... / Non si tratta, purtroppo, di una verità / della ragione: la ragione / serve, infatti, a risolvere gli enigmi... / ma tuo figlio — ecco il punto, ti ripeto / non è un enigma. / Egli è un mistero ». In queste affermazioni del drammaturgo sembra sintetizzarsi la ragione del dramma pasoliniano. Il Figlio aveva accoltellato il Padre, ribellandosi alla sua volontà di possesso; con lo stesso coltello, il Padre, alla fine, ucciderà il Figlio.
Opera che pone in primo piano lo scontro generazionale, « Affabulazione » è tutta sospesa in una serie di rimandi simbolici, dalle diverse possibilità di lettura. Da una parte potremmo individuare, nella necessità di identità Padre-Figlio, il bisogno della continuità storica, il bisogno di non-morire a questo evento misterioso che è la vita stessa. Dall’altro lato, non possono mancare spunti di lettura relativi ad un sogno letterario frustrato dalla stessa storia: con il tempo cambiato anche i motivi che ne determinano il suo inesorabile incedere. I sogni di una sperata evoluzione non si identificano più con i programmi e le ipotesi elaborati dal pensiero. Infine, vi è una lettura più squisitamente « teatrale »: la Verità possiamo conoscerla solo se riusciamo a rappresentarla, proprio come afferma esplicitamente Sofocle. Pasolini non ha voluto darci delle precise indicazioni, ché l'ambiguità è, probabilmente, la chiave più giusta di questo suo dramma. Tuttavia non ha lasciato di farci intuire gran parte dei motivi che erano alla base del suo pensiero, della poetica e della sua poesia.

Vittorio Gassman ha dato una interpretazione del Padre — nella doppia veste di attore principale e regista — di impegno eccezionale, raggiungendo toni di altissimo livello. Se c’è un modo per capire, concretamente, la lezione pasoliniana sul « teatro di parola », credo che occorra, ormai, rifarsi a questo spettacolo: tutto è da ascoltare e tutto si ascolta all'interno di un processo comunicativo di limpida necessità. Per molti giovani, il grande attore sarà una stupenda rivelazione, per altri la conferma di un suo perenne cammino verso diversi e sempre più articolati modelli interpretativi. Gli attori di contorno si amalgano felicemente con lo spirito e l’impostazione registica data al dramma; tra essi colpisce Corrado Gaipa (che interpreta la figura di Sofocle). Le musiche sono state curate da Fiorenzo Carpi e propongono, molto felicemente, alcuni temi di Gabrieli che danno un giusto spessore mistico alla rappresentazione.

D. C.
(le fotografie sono di Diletta D'Andrea)


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Perchè Pasolini - Intervista con Vittorio Gassman

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Perchè Pasolini
Intervista con Vittorio Gassman
Tratto da Il Dramma

Un incontro con Gassman è molto stimolante, perché in lui, nella sua esperienza di attore, si sintetizzano gran parte dei motivi dell’esperienza scenica dal nostro dopoguerra ad oggi. Il suo lavoro ha compreso un repertorio vastissimo, ed è stato marcato anche da lunghe assenze dalla scena e una vasta esperienza come attore cinematografico. A Gassman viene voglia di fare un’infinità di domande; personalmente, qui, vorrei riportare un colloquio che comprende qualche appunto-riflessione sull'attore e il suo ultimo lavoro teatrale, « Affabulazione » di Pasolini.





D. Che senso ha, per lei, essere attore: forse essere un mattatore ?


R. E' difficile giudicare se stessi. Mi chiamano « mattatore » da tanto tempo, ma perché ho dimostrato, anche con i fatti, una certa nostalgia per una necessità ad una forte presenza sulla scena. La prima parte della mia carriera è stata marcatamente egocentrica, alla ricerca di una piattaforma molto accentratrice. Ma quello che può avere un minimo di interesse è proprio la nostalgia, che corrisponde ad una mancanza, ad una lacuna, di una concezione più libera, più fantastica dell’attore stesso, rispetto a quella che è la proposta comune, media, nel nostro paese soprattutto. C’è stata — e qui vedo anche una certa responsabilità nell'opinione specializzata italiana — una visione dell'attore in termini di livellamento: troppo razionale, credo. Si è tentato disperatamente di spegnere, così, quelle che rappresentano le radici storiche ed esistenziali del ruolo e l’immagine dell’attore. Io non voglio fare delle « riproposte », perché non credo alla stessa riproposta della religiosità del teatro in una direzione classica: in questo mi trovo d’accordo con Pasolini. Penso al « Manifesto per un nuovo teatro »: se non rappresenta una vera e propria rivoluzione teorica, lì Pasolini dimostra lucidamente che non esiste più quel tipo di religiosità diretta che si ascriveva alla nostra più vicina tradizione, come non esiste più una concezione possibile di teatro, inteso come « culto sociale » o « storico »: perché non esiste più la società per rispecchiare questa realtà. Ma Pasolini stesso insiste sulla permanenza del rituale: altrimenti il teatro perde la sua funzione originaria e non ha più senso. Allora « rituale » vuol dire anche questo, secondo me: un diniego totale del realismo nella scena. Il teatro non è un fenomeno realistico. E’ un fatto simbolico, comunque emblematico: altrimenti non è teatro. In questo senso mi sento un mattatore: amo la visione dell’individualità, liberata anche nella zona dell’irrazionale. E, in questo senso, vedo, anche se da lontano, la piccola radice magica di questo mestiere.

D. Mi viene spontaneo, a questo punto, chiederle se, nel suo lavoro di attore segue un preciso modello. Penso, ad esempio, ai grandi tracciati ascritti all'interpretazione attoriale: da una parte la linea psicologistica di uno Stanislavski, dall’altra quella « straniata » di un Brecht e, infine, la cifra « critica » di Diderot.


R. Per rispondere sinteticamente a questo ampio problema, dirò che mi sento di condividere gli insegnamenti di un Diderot. Mi viene naturale di « non-nuotare » nel personaggio, di non affogarmi totalmente nella mimesi, di non essere prigioniero di quella parte « sentimentale » delle immagini che, per conto loro, esprimono dei sentimenti. Lo stesso Brecht avvertiva, comunque, che le sue regole di teatro non dovevano essere prese alla lettera. Doveva, però, rimanere un necessario distacco col personaggio: può essere l'ironia, l'autocritica, la voglia di comunicare altre idee e non solo gli abbandoni delle passioni e dei sentimenti.Comunque, se dovessi definire il lavoro dell'attore direi, con Camus, che egli è il corpo attraverso il quale si esprimono le storie della grandezza. Attraverso il corpo e, quindi, nell’acme della passione, della tensione vocale, anche. E’ fatale: bisogna « tornare indietro » perché altrimenti tutto si annulla, non si vede. L’urlo protratto, non è più un urlo: è un silenzio. Ecco: in questo sono diderotiano. Certo, per Diderot, c'è poi anche una indicazione costante di ironia, e io credo molto alla distanziazione ironica. E’ uno dei motivi per cui, dopo tanto lavoro sui classici, mi piace, ogni tanto, tuffarm i nella farsa più sfrenata, nella corrida, nella « bagarre ».A questo punto, parliamo del suo debutto nel teatro (1943 con « La Nemica » di Niccodemi). Percorriamo, pian piano, le tappe fondamentali del suo lavoro: le esperienze del teatro popolare e gli anni sessanta. Fino al suo rifiuto per la scena. E poi il « ritorno »: la proposta di « Kean », l’ultimo spettacolo, prima di questo, sotto il tendone romano. Sono tappe di una costante attenzione al teatro per una sua possibile soluzione anche sociale, meglio sociologica. Gassman parla con serenità di tutti quei momenti; riconosce i suoi errori, ritrova, in fette di passato, un entusiasmo quasi adolescenziale che si proietta nell’esperienza di questi giorni.

D. Parliamo di « Affabulazione », di questo dramma che ci indica un « teatro di parola ». Pasolini, da un lato, mi sembra molto chiaro in questa sua definizione; al tempo stesso lascia aperti spazi ad equivoci e ambiguità.


R. In realtà il testo di Pasolini è molto ambiguo, in tutti i sensi. Un testo criptico, misterioso, indecifrabile, credo, anche a lui stesso. E in questo risiede la sua teatralità: una teatralità completamente anomala, diversa, allusiva. La bellezza di « Affabulazione » è tutta contenuta nel linguaggio, nella parola vista non solo come momento di comunicazione razionale, ma anche come espressione totalmente libera. In Pasolini vi è più di un motivo per pensare al teatro di Artaud: come nel grande pensatore e drammaturgo francese, anche in lui la parola teatrale è vista come un germe di infezione; un teatro che è vicino alla pestilenza, con la differenza, squisitamente pasoliniana, di una indomabile vocazione poetica e una incredibile innocenza.

D. Che cosa l'ha interessato, in particolare, del testo di Pasolini ?


R. Credo di essere rimasto affascinato da un'opera che ha, in sé, una vitalità e un senso attivo della morte; di una morte da cui possiamo apprendere i lontani albori che ci spinsero a vivere. Sono sicuro che in me, nella mia personale esperienza, questo spettacolo lascerà una grande traccia. Questa volta sono salito sul palcoscenico non per esibirmi, ma quasi per trovare un ristoro terapeutico. In Pasolini c’è un senso virile della disperazione, accanto al coraggio e la disposizione al sacrificio. E’ il coraggio che ammiro di Pasolini, subito dopo la bellezza e la poesia della sua lingua. Moravia ha detto che « Pier Paolo Pasolini è stato il più grande maestro della lingua vivente, e anche un grande manierista ». Era capace di scriveve di qualunque cosa: era un fabbro della lingua tra i più affascinanti che la cultura italiana del dopoguerra abbia mai conosciuto.

Dante Cappelletti

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
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Giovanna Caterina Salice

Pasolini - Oltre Le Rabbie Manichee - Un articolo dimenticato e quasi inedito.

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"ERETICO & CORSARO"



Pasolini
Oltre  Le Rabbie  Manichee
Un articolo dimenticato e quasi inedito.
Tratto da 
Il Dramma
numero 3, marzo 1974



Nel dicembre 1973, sulla rivista "Il Dramma", vengono pubblicati una serie di interventi di Signorile, Plebe, Piccoli, Bignardi, Mammì, Orlandi, con il titolo:
" I politici giudicano la cultura italiana: "Gli intellettuali del silenzio",curati da Nino Andreoli. 
Nel marzo del 1974, sulle stesse pagine e a cura di Giacomo Carioti, vengono pubblicati gli interventi di Pasolini, Bevilacqua, Gianfranceschi, Gervaso, dal titolo:
"Le barbarie degli equivoci. 
Questo dibattito precede quello che sarà l'articolo di Pasolini riportato negli Scritti Corsari con il titolo di:
"Marzo 1974. Gli intellettuali nel '68: manicheismo e ortodossia della «Rivoluzione dell'indomani»(Sul «Dramma» per un'inchiesta sugli interventi politici degli intellettuali)" 


Oltre  Le Rabbie  Manichee
Un articolo dimenticato e quasi inedito.


Gli ultimi cinque o sei anni della vita letteraria e politica italiana sono stati caratterizzati dalla paura degli intellettuali italiani a essere disprezzati dai giovani. Diminuita la paura in proporzione della rinuncia dei giovani a quella lotta che avevano cominciato con tanta ingenuità e presunzione, un senso liberatorio (dal ricatto, dal linciaggio) ridà animo agli intellettuali, che vivono così la restaurazione come una rivincita. Ritornano fuori antiche disinvolte idee di « libertà » dell’intellettuale, la legittimità del suo giocare ambiguo o divertito col disinteresse e l'interesse politico, la sua indipendenza ecc. Egli riprende la sua funzione formale di guida: ma teorica. La contemplazione riprende il suo ruolo preminente ai danni dell’azione. Il pragmatismo gauchista (sotto il segno di Che Guevara, per chi ormai non lo
ricordi) è visto come para-fascista. C’è da chiedersi se ci volesse molto a capirlo cinque o sei anni fa : capirlo e affermarlo adesso è ingiusto. Piuttosto, alla smania dell’azione dei giovani del ’68, anche se sostanzialmente dovuta alla loro cultura piccolo-borghese, può oggi venire attribuito un altro senso. Il seguente: circa nel ’68 la contestazione è scoppiata tanto grandiosamente (un fenomeno che coinvolgeva centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo) quanto arbitrariamente. Non c’è stato infatti nessun fatto che giustificasse, direttamente e esplicitamente, tale esplosione. La cosa è accaduta da un giorno all’altro. Perché dunque è accaduta? Per una reale volontà dei giovani di rovesciare il sistema (nei paesi dove non ci fosse un forte
Partito comunista) o di fare la Rivoluzione (nei paesi dove l’ideologia marxista fosse forte, diffusa e profonda)? Probabilmente no. Nessuno, nell’intimo della sua coscienza, credeva realmente che ciò fosse realizzabile. Ma egli si comportava come se ciò fosse realizzabile. E ne teorizzava le forme (per es. la guerriglia urbana, la preminenza dell’azione sul pensiero, il riferimento alle teorie rivoluzionarie di Mao ecc.). In realtà la rivolta degli studenti e degli intellettuali anche anziani che li hanno supinamente, adulatoriamente o almeno acriticamente seguiti, non era forse niente altro che una disperata protesta che si esauriva in se stessa, un lungo urlo di
dolore che aveva accenti di minaccia, esasperazione, furore. E a che cosa era dovuto un tale urlo di dolore (che è echeggiato in tutti gli angoli di Europa ed è stato lanciato da un’intera generazione di giovani)? Non c’erano ragioni immediate (le istituzioni autoritarie, la repressione, la degenerazione della scuola erano problemi vecchi di secoli), e quindi probabilmente si trattava di una ragione nascosta, e solo oggi forse individuabile.



* * * 
L’unica coincidenza oggettiva della rivolta dei giovani è infatti quella del delinearsi, secondo un disegno ormai chiaro e ineluttabile, dello « sviluppo » capitalistico, secondo le norme scaturite dalla sua grande rivoluzione interna: l ’Applicazione della Scienza, in uno sconfinato proliferare delle fonti di produzione e quindi dell’ansia di consumo. Ora, questo nuovo mondo che verso la fine degli Anni Sessanta si andava delineando come l’intero futuro umano, non aveva più alcun rapporto possibile col marxismo. Tra capitalismo tecnologico e umanesimo marxista si andava delineando una vera e propria diacronia storica: una effettiva incommensurabilità. Il mondo
tecnologico, attraverso una mutazione psicologica degli operai, tendeva ad inglobare sostanzialmente anche la lotta di classe. A far discutere del salario il padrone e l’operaio come da borghese a borghese. (i figli degli operai sono oggi mille volte più « borghesi » dei loro padri). L’urlo di dolore del ’68 è probabilmente dovuto alla coscienza, non ancora venuta alla luce, di questo. Dell'asservimento del marxismo a uno « sviluppo » storico in realtà voluto interamente dalla società borghese: oppure dell’impossibilità di un dialogo rivoluzionario dell’umanista marxista col qualunquista tecnocrate, trionfalmente proiettato verso l’avvenire. L’equivoco di una Rivoluzione imminente, pressoché
millenaristica, del periodo sessantottesco, ha creato per l'intellettuale e l ’uomo di cultura il dovere dell’intervento politico immediato. Dell’accettazione della teoria della preminenza dell’azione dei giovani, del loro moralismo rivoluzionario, del loro assoluto utilitarismo per cui tutto doveva essere in funzione di quella « Rivoluzione dell’indomani » in cui, con tanta ingenuità e presunzione, essi credevano. Molti intellettuali sono stati al gioco, un po’ in buona fede, un po’ per viltà, ma soprattutto a causa di un vero e proprio errore politico. Era chiaro come il sole che di Rivoluzioni, di lì a un giorno, non ce ne sarebbero state. Il PCI lo sapeva benissimo. Tanto è vero che proprio in quei frangenti è nata probabilmente la progettazione del compromesso
storico ». I comunisti tradizionali vogliono realmente il miglioramento della condizione di vita degli operai. Uno sviluppo » impetuoso, inarrestabile, grandioso, che coinvolga tutto, non poteva non affascinarli, dando nuovo slancio al loro ingenuo progressismo. D’altra parte i comunisti tradizionali sono sempre stati disperatamente realistici. E non ci voleva molto a capire che quello « sviluppo » era un fenomeno troppo grandioso, per non essere il probabile inizio di una nuova era della storia umana. Mentre studenti e intellettuali urlavano di dolore per l' incommensurabilità — e quindi l'impossibilità di lotta — tra capitalismo tecnologico e umanesimo marxista, il
Partito comunista cominciava a elaborare la tesi del compromesso tra due momenti storici inconciliabili. Ciò gli avrebbe consentito di intervenire in quello « sviluppo », programmarlo, renderlo il più possibile socialista, strapparlo il più possibile alla cieca produzione dei beni superflui per una giudiziosa produzione di beni necessari: imporre insomma allo « sviluppo » capitalistico le regole del dovere morale e il ricordo dell’umanesimo. Non era molto, in confronto alla Rivoluzione, ma era tutto quello che realisticamente si poteva fare se il famoso « sviluppo » avesse dovuto proseguire, così com’era cominciato, per tutto il tempo futuro. Ciò che rende questa ipotesi
problematica, ossia il pericolo di un arresto del progresso o addirittura di una recessione — o comunque un periodo di emergenza e di « tensione » — è ciò che rende urgente per un intellettuale anche non politico — un letterato, uno scienziato — il dovere di un intervento continuo: di quella presenza politica immediata che nel periodo sessantottesco è stata convulsa, inutile, verbale, moralistica. Non si tratta più di prendere per buona la smania rivoluzionaria di un esercito di giovani — il cui senso, criticamente interpretato, era peraltro tragico — ma di vedere se la crisi di uno dei due elementi storici incommensurabili tra loro — lo  
« sviluppo » capitalistico — non possa offrire all’altro elemento — l'opposizione marxista — la possibilità di ricominciare daccapo una

lotta rivoluzionaria : o, nella peggiore delle ipotesi, vedere se esiste uno spazio da occupare tra il vero fascismo — in cui sostanzialmente consiste il potere dello « sviluppo » — e il vecchio fascismo assassino — che approfitta della crisi di quel fascismo senza Patria e senza Chiesa, per gettare la nazione nel disordine. Una forma di lotta avanzatissima, e una forma di lotta disperatamente « ritardata ». Ma è in queste condizioni ambigue, contraddittorie, frustranti, ingloriose, odiose che l ’uomo di cultura deve impegnarsi alla lotta politica, dimenticando le sue (insincere) rabbie manichee contro il Male, rabbie che opponevano ortodossia e ortodossia.

Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
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Giovanna Caterina Salice

Pasolini - La modernità nella "forza del passato" - Di Maria Vittoria Chiarelli.

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La modernità nella "forza del passato"
Di Maria Vittoria Chiarelli.

Pasolini ha sempre sostenuto un rapporto dialettico con la Modernità, ne ha sempre vissuto le genesi dolorose, assorbito totalmente nella "forza del Passato", che non è statica, non un ventre passivo che cova un'umanità mai nata, ma feconda di germi inalterati perché inalterabili, secondo le prospettive di un Progresso vero.
Ma ciò che muta richiede un processo carico di lacerazioni anche per "farsi migliore".
Uccellacci e uccellini e Le Ceneri di Gramsci sono due momenti della passione ideologica di Pasolini che si esprime in direzioni differenti ed intersecatisi, certamente indicativi della riflessione e del fervore esistenziale del Poeta, teso a vivificare il carattere primigenio della cultura popolare che ha vissuto il difficile passaggio storico da una stagione ricca di fermenti di libertà, nel clima soffocante della dittatura, ad una democrazia tutta da costruire : il cammino verso un futuro incerto, su una strada dal sapore metafisico, con uno sfondo urbano disumanamente già postindustriale, traballante, ma malinconicamente desideroso di una meta. I due viandanti, disincantato Totò Innocenti e inconsapevole Ninetto Innocenti, si incamminano verso le albe fumose di nuove strade da intraprendere , dopo la macerazione delle illusioni ripiegate su se stesse e morenti, come sopravvivenze di voci insistenti e ammonitorie, come quella del corvo filosofo, ma ormai decantate dal tempo che le ha superate.
Nell'aria però ci arriva il rumore alacre di una scavatrice, animata dal lavoro di operai, portatrice di un mondo nuovo, forse migliore, perché intriso di speranza in quello che era stato il "sogno di una cosa" di Marx, come nella visione del giovane Gobetti, durante le lotte operaie prima dell'avvento del fascismo.
Una fine che è un inizio: qualcosa che nasce seppure con dolore.

"A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata
dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine
dell'orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,
- è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia
che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell'altro fronte umano,
il loro rosso straccio di speranza".

( Pier Paolo Pasolini, da "Il pianto della scavatrice" 
in "Le Ceneri di Gramsci" ).


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
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Pasolini deluso dal CENTRO-SINISTRA - Voto PCI... intervista quasi inedita

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Pasolini voto PCI per contribuire a salvare il futuro.
Intervista quasi inedita rilasciata a
Paolo Spriano
L'Unità / sabato 20 aprile 1963


Sono note le passioni e la sincerità con cui esprime le sue opinioni sui problemi politici, non meno che su quelli sociali, estetici, culturali. per questo la nostra conversazione comincia e si sviluppa con domande e risposte in cui l'accento personale e particolarmente presente.



D. — Tu esprimesti, pubblicamente, in prosa e in versi la tua simpatia per  l'esperimento di centro sinistra quando esso si attuò. Oggi a più di un anno di distanza, il tuo parere è mutato? 






R. - lo sono stato uno di quelli che hanno accolto con un certo favore il centro-sinistra. Ricordo che due anni fa ho pubblicato sull'Avanti! una poesia a Nenni, con gli auguri di  buon lavoro. Ho dovuto molto ricredermi. Intendiamoci, continuo a seguire Nenni con la simpatia e anche la trepidazione con cui si segue un uomo che si e messo in una situazione difficile, contraddittoria e « scandalizzante ». D'altra parte, il problema non rigorosamente politico, ma, direi, sentimentale, che il centro-sinistra suscita è uno di quel problemi che si risolvono in  sede di buon senso, e quindi non si risolvono. Cioè: è preferibile un governo di centro, o di centro-destra, oppure un governo di centro-sinistra? Il buon senso è li, inappuntabile, a dire che il secondo corno è da preferirsi. Bene. MA il meno peggio ha fatto capire, come sempre, quanto il meglio sia diverso. Per quel che mi riguarda personalmente — la mia vita, il mio lavoro - questi del centro-sinistra sono stati gli anni più brutti.  Ma la situazione di capro espiatorio non e certo la migliore per giudicare serenamente le cose. Me l'ha spiegato l'altro giorno un ragazzo di sedici anni in una riunione all'associazione « Nuova Resistenza »: la destra, imbestialita da una prospettiva più democratica di governo, si accanisce con più rabbia,  là dove può, coi suoi avversari classici: per esempio gli intellettuali. Prendiamo atto di quello che anche un ragazzo di sedici anni capisce. (Ma intanto questo può restare anche il lato buono della cosa; la scissione aperta, scoperta, messa a nudo tra governo e stato. E' la prima volta che questo succede in Italia. La burncrazia, la magistratura, il Corriere della Sera, la televisione, non la pensano come gli uomini al governo: sono rimasti nelle tenebre e nell'odio delle destre. Benissimo. non è una chiarificazione? E non è una fenditura che serpeggia anche nel gran corpo della Democrazia Cristiana?). 


D.— Deduci  da queste considerazioni una scelta elettorale precisa?








R. - Anche quest'anno come sempre, voto comunista. Lo sai bene, il  voto è un fatto estremamente privato, delicatamente privato, addirittura patologicamente privato. Bene, la mia vita privata e tormentata dal suo contrario: dall'ufficialità, che, letteralmente, non vuole ammettere la mia esistenza.E mi destina a uno stato — che rischia di diventare ridicolo — di perseguitato. Perciò devo confessarti che anche quel tanto di «ufficiale» che c'è nel partito comunista, non mi piace. Fatti miei, certo. Un Partito che si considera, a diritto, maturo per prendere il potere e governare, non può non essere, in qualche modo «ufficiale». Per me, ufficialità è esattamente il contrario della razionalità. Ciononostante voto per il PCI  senza il minimo dubbio, o la minima incertezza interiore. Perchè so che la razionalità del marxismo è più forte di qualsiasi contingenza anche sgradevole, di qualsiasi situazione particolare che regoli i rapporti tra i comunisti di estrazione o formazione borghese.


D. — Si fa un n discutere del miracolo economico, del « benessere >, di quanto siano mutate le condizioni di vita delle masse popolari in questi ultimi anni. Qual è il tuo parere in proposito? 






R. — E' vero, come dice Moravia, in una società c'è quello che si pensa che ci sia. Ma il primo dovere di uno scrittore e quello di non temere l'impopolarità. lo rischio di rimanere un romanziere degli Anni Cinquanta se insisto a dire che nella nostra società c'è quello che c'è: ossia che c'è quello che c'era dieci anni fa. Il benessere e una faccenda privata della borghesia milanese e torinese. lo so che a livello popolare nulla e mutato. Anzi, come le disperate Cassandre vanno da tempo ripetendo, le cose sono peggiorate. Il Meridione ha l'aria spaventata di una colonia, coi suoi coprifuochi, i suoi deserti e i suoi silenzi. A Roma tuguri, disoccupazione, caos, bruttezza, centinaia di migliaia di persone che vivono con cinquantamila lire al mese. lo, coi miei occhi, verifico ogni giorno che; Tiburtino, il Quarticciolo, Primavalle e mille altri quartieri sono gli stessi di dieci anni fa, la gente vive allo stesco modo di dieci anni fa. Anzi, se il mio diritto di cittadino che protesta include anche la suscettibilità estetica, tutto e peggio che dieci anni fa, perchè almeno, dieci anni fa, intorno alle borgate e ai villaggi di tuguri c'erano i prati: oggi c'è qualcosa di indicibile, il puro orrore edilizio, qualcosa che condanna chi vi abita alla contemplazione dell'inferno. Perciò rischio tranquillamente l'impopolarità; e affermo in piena coscienza che non c'è ciò che tutti pensano che ci sia, e con ciò lo fanno essere: potrei scrivere altri dieci romanzi, o girare altri dieci film su un mondo che il razzismo borghese non vuole conoscere e che è in realtà espressivamente inesauribile, perchè non sono i quattro soldi del boom » nordico che potranno mutarlo. Mai come in questo momento in cui il fascino del qualunquismo neo capitalistico — efficienza, illuminismo culturale, gioia di vivere, astrattismo e motels — agisce soprattutto negli animi dei semplici, che si illudono di cambiare la propria vita imitando come possono la vita volgarizzata dai privilegiati, o addirittura accontentandosi di averne coscienza, la rivoluzione della struttura appare necessaria. lo credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda «Nuova Preistoria» sara la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industralizzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia...
Ma mi interrompo, perchè questi, cosi, sono discorsi da dilettante, e si giustificherebbero solo... se in versi... 


D. — Non ne hai forse parlato nelle tue poesie più recenti? 









R. — Si, i miei versi di questi due anni parlano di questi problemi. L'addio dell'uomo alle campagne...  alla civiltà classica... alla religione. Si intitolano — dato l'ingorgo  irrazionalistico — « Poesie in forma di rosa », ma potrebbero logicamente intitolarsi « La Nuova Preistoria ». La lotta operaia mi appare non solo come una lotta ideale per il futuro dell'uomo, ma anche come una lotta necessaria e terribilmente urgente per salvare il suo passato... 


D. — L'umanità è soprattutto preoccupata per il pericolo di una guerra catastrofica. Ti pare che l'orizzonte permanga sempre cosi oscuro da giustificare appieno queste ansie?







R.— Ho una grande tenerezza per Giovanni XXIII, una grande ammirazione per Krusciov, e una certa simpatia per Kennedy. Mentre ho un profondo disprezzo per la borghesia: un disprezzo pratico e ideologico, che mi fa vedere il nostro avvenire molto oscuro.  Casi da museo teratologico come quello di Hitler, le nostre  borghesie sono capaci in ogni momento, in ogni circostanza, di produrne; perchè sono mostruose esse  stesse, per aridità, cinismo, ignoranza, qualunquismo, ferocia, miopia. Al vertice, l'orizzonte è abbastanza sereno. Ma al livello medio del capitalismo — o del neocapitalismo — la guerra è un fatto che può sempre accadere. E' per questo, che, inconsciamente — malgrado la sua assurdità — continuiamo a temerla. Il sentimento dei privilegi di classe, che, sul piano pratico e terribilmente razionale, sul piano ideologico e sotto il dominio dell'irrazionalità. Perciò non vedo che garanzie possano dare  le nostre classi dominanti per la pace. Esse, comunque, tendono a modellare l'uomo secondo la loro forma interna: la mostruosità, come meccanicità, assenza dell'umano. Facciamo scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sara lo stesso: una guerra in cui l'uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre. 


D. — I riferimenti dibattiti culturali in URSS e  alle posizioni che  ivi sono prevalse — e su cui noi abbiamo espresso il nostro parere e precisato i nostri punti di dissenso — sono ormai diventati un tema obbligato, spesso per cavarne della propaganda anticomunista, in questa campagna elettorale. Ci dici che ne pensi, e su quelle questioni e sull'eco che se n'è avuto qua?




R. — Si, disapprovo il discorso di  Krusciov sulle questioni letterarie e artistiche. Chi non lo disapprova? Ne deduco che, come critico o ideologo letterario, Krusciov, che e un grandissimo uomo politico, non vale molto. Del resto, invidio Evtuscenko. Te l'immagini un'Italia in cui il capo del governo facesse un discorso di cinquanta pagine su un poeta o su una questione di ideologia letteraria?  Te l'immagini un'Italia in cui l'immenso pubblico che si interessa delle sciocchezze della televisione, si interessasse invece dei problemi della poesia? La dura realtà è invece che in Italia i leaders dei partiti al governo perderebbero migliaia o centinaia di migliaia di voti, se parlassero di letteratura; la dura realtà e che in Italia i capi del governo, se si interessano di problemi estetici, è per inaugurare le iniziative culturalmente di quart'ordine o le onoranze a valori giubilati o accademici; la dura realtà è che in Italia la classe dirigente si difende contro gli intellettuali e i poeti mettendoli brutalmente al bando o mandandoli in prigione. 
Certo che, malgrado il discorso di Krusciov, voto comunista! Perchè so che Stalin e ormai un'ombra: e il capo di un governo che discute, anche a torto, di poesia, mi è estremamente simpatico. 
Paolo Spriano

(L'Unità / sabato 20 aprile 1963)

Pasolini con  Paolo Spriano ad un convegno alla libreria Eianudi - Mediateca Roma



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pier Paolo Pasolini - Ha, Italia disunita!... Nuovi argomenti.

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Ha, Italia disunita!


   
Nell'esclusione è possibile una consignificazione che include.

   Io sono incluso nella geografia dell'<< Italie magique >> continiana: ma mastico amaro. Se lo << choc >> doveva essere una superba eleganza, allora è certo che gli arcipelaghi di questa geografia non sono tutti cosi eleganti.

   Per es. poco delibabile mi appare l'eleganza del professor Carducci e addirittura ripugnante quella di D'Annunzio ( ai due non avrei dedicato più pagine che a Pirandello ).

   Perchè tra i vecchi dialettali non c'è Russo?
   E  tra quelli più recenti la valdostana Martinet, cosi severamente neoromantica?

   Perchè in fila con Einaudi, Gobetti, Gramsci, Levi non c'è una poesiola di Noventa?

   E poi che Contini non abbia letto Volponi ( almeno in << Paragone >>?
  Mi sembra anche inspiegabile che Contini non abbia apprezzato le prime cento pagine ( Stupende ) del <<Tappeto volante >> di Lionetti ( senza parlare dei suoi versi ).

   Fortini saggista e profeta ( di sciagure ) non doveva assolutamente mancare, no.

   Della mancanza della Morante non parlo: la sua esclusione ha infatti il valore di una inclusione ( e cosi, credo, si può dire di Bassani ): una presenza negativa, scandalosamente violenta: in cui  il << no >> del  tutto arbitrario ( e magari ce ne fossero stati altri ) di Contini fa in modo che il suo discorso antologico, tutto << referenziale >>, diventi, per reticenza (  mai contraddizione fu più squisita ) << conativo >>.

   Ma Sandro Penna?
   Non è il più grande poeta del Novecento letterario italiano?

Più grande di Ungaretti, di Montale e forse di Saba?

   E in questi ultimi cinque anni chi ha scritto versi belli come quelli di Attilio Bertolucci? (se non, forse Amelia Rosselli?).

   E il vecchio Lucio Piccolo, santo Dio, non è meglio del vecchio Pizzuto?
Ho dato fiato ad alcuni << flatus vocis >>  ma gli elenchi, come il mio ascoltatore sa bene, sono sempre liturgici, specie se interiettivi o sospesi.

   Finisco cosi biblicamente maledicendo la fiorentinità, cioè la cultura letteraria di Cecchi ma anche quella di Falqui, dell'<< Espresso >> ma anche quella ( se non fosse presumibilmente semi-analfabeta ) di De Lorenzo. 

   Insomma, più inoffensivi siamo e più piacciamo. Un'eterna Ronda, una eterna Solaria! ( Ci sono anche certi comunisti ). Contini, mio amor de loinh, che cosa avvalli?


P.P.Pasolini.

"Nuovi argomenti" N° 10
aprile-giugno 1968
(Biblioteca nazionale centrale di Roma)


Trascrizione curata da Bruno Esposito.

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Gli appunti di Sandro Penna, di Pier Paolo Pasolini

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Gli appunti di Sandro Penna
Pasolini, Pier Paolo
28-09-1950
estratto da: "Popolo di Roma"
Biblioteca nazionale centrale - Roma

Trascrizione dal cartaceo di Carlo Picca
28-09-1950 ritaglio di : "Popolo di Roma"- Biblioteca nazionale centrale - Roma




"Ho fatto un culto di Penna"
Carlo Picca

Molti hanno detto cose esatte e intelligenti sulla poesia di Sandro Penna, vedi Solmi, vedi Anceschi, vedi, se non altro oralmente, la maggior parte dei letterati italiani, ma nessuno ha detto ancora la cosa essenziale. Come caso curioso, molti suoi amici pittori, vedi Mucchi, nella vecchia, deliziosa, edizione Parenti, e ora vedi Tamburi, in questa della Meridiana, lo hanno disegnato, ma nessuno è riuscito a coglierne l’immagine vera. La poesia di Penna, così pura, per definizione, si rifiuterebbe dunque a una definizione critica che le si avvicini per purezza: e a noi pare, questo, un sintomo che, non ancora per il critico, ma per il lettore, potrebbe bastare a spiegare la natura, almeno esterna, di questa poesia inafferrabile: se dimostra che in essa permane il mistero e l’assoluto della purezza degli oggetti che l’ispirano. Molti hanno parlato della –felicità- di Penna, equivalente psicologico della sua -grazia- poetica: noi vorremmo intanto spostare il significato di felicità, verso quello più vago di gratitudine. E’ quasi sempre un moto di gratitudine che spinge Penna a scrivere i suoi versi-sensuali, ma senza il peso della sensualità, appunto perché la sensualità è vinta da quel dolcissimo patetico che è la gratitudine per una vita sempre sorprendente: prodiga, tutta già predisposta al rimpianto. Penna riceve i suoi versi dagli improvvisi empiti in cui il tempo si purifica, travasa nell’assoluto - dagli istanti di pienezza in cui il mistero, non capito, è divinato - dall’accoratezza che semplifica la vita a un moto irresistibile che mescola il sorriso alle lacrime dagli arresti improvvisi, le –intermittences du coeur-, in cui un gesto che avrebbe rischiato di passare inosservato nella sua stupenda adesione al corpo anonimo del giorno, si isola in una gentile aureola di coscienza… E si è detto, in proposito, di malizia, col suo termine uguale e contrario, il candore: è vero, ma non è tutto, perché anche tecnicamente, il suo verso non si esaurisce, nel prosastico e nel melodico, i due rischi che corre continuamente, senza mai caderci, come sul filo di un rasoio, e dove appunto l’ingenuità gioca con la squisitezza. Ora, questo libretto di Appunti, può servirci a meraviglia, a cogliere il momento creativo di Penna, di un attimo anteriore al risultato indiscutibile, fresco fresco di una trasandatezza e di un’abilità non sempre portate del tutto all’espresso. Prendiamone uno, -indi rivolto il viso verso il guanciale sorrideva a se stesso, con beato rossore-. Ecco intanto l’indicazione temporale indi così cara a Penna, che fa precipitare il tempo nell’istante, senza astrarlo in dimensioni false, ma lasciandolo anzi alla sua più fisica immediatezza, nella leggerissima e perciò poetica retorica di chi si delizi in anticipo, e un po’ in eccesso, per un fatto che dovrà fermentare nella memoria. E si guardi il verbo, -sorrideva-, che praticamente dovrebbe essere al presente –sorride- data l’assoluta immediatezza dell’appunto, il valore contemplativo: l’imperfetto, il più misterioso, o vago, come direbbe Leopardi, dei tempi, dà un tono narrativo o evocativo, cioè colmo già di nostalgia, a questo godimento assolutamente presente.
Il primo verso è un endecasillabo falso, cioè di dodici sillabe, sospeso dunque, con malizia tecnica, ma candido come risultato, tra due diverse raffinatezze; il secondo è un endecasillabo perfetto, dei più canonici, anzi, se letto tutto d’un fiato, ma c’è una virgola che lo spezza con la forza di una cesura riducendolo in due versi più brevi, ed è come una sospensione nel rapimento della contemplazione, ripetuta dopo dall’enjambement –beato rossore. Ed è lì che esplode, con la misura e la grazia che sono solo di Penna, il patos amoroso e poetico. Poi è il silenzio della pagina bianca, che non è un silenzio musicale, un silenzio della voce, come può essere negli spazi di Ungaretti, per esempio: ma è semplicemente un ritorno della vita alla sua irriflessa quotidianità. Il cuore che riprende a battere col ritmo normale, riassorbito dalla miracolosa vicenda dell’esistenza. Questi non sono appunti di poesia, ma d’esistenza d’amore. Un lungo monologo interno, che nei suoi momenti più puri, è necessitato dalla sua stessa purezza a manifestarsi, a rivestire una forma poetica, per convincersi di questo basta guardare l’avvio di quasi tutte le sue annotazioni: indi, poi venni fra voi, tu mi lasci, frammenti illuminazioni di una storia amorosa ignota al lettore, famigliare al poeta fino all’ossessione, un ossessione tutta dolcezza. Ed è questa vita sottintesa, salvo che nelle conclusioni, coi suoi sperperi, i suoi sbagli, le sue manie, i suoi vuoti, le sue umiliazioni, le sue bassezze, le sue opacità che fermenta in queste poesie di poche righe, facendole risuonare a lungo, al di la del loro limite. Semplicità, purezza: e va bene, ma non c’è limite che valga, una persona e una vita, son sempre complesse, impure. E noi diremmo che è appunto la disperazione per un destino dispersivo e obbligato che echeggia dentro la poesia di questo poeta condannato alla felicità allargandone i confini, dandole quelle risonanze che sono la sua nascosta autentica ricchezza, e c’è da stupire quando qualche critico, come spesso avviene, si ostina a cercare il limite di Penna nella limitatezza dell’argomento, nell’assenza di ricerca che del resto esiste in Penna, ma prima della poesia, nel vuoto dei giorni ossessivi, doloranti. Ed è appunto la luce di questa ricerca che si riflette nella sua lingua, proiettandola in uno spazio molto più vasto, assoluto – cosmico, si sarebbe tentati di dire – di quel che non sembri. I suoi pezzi sono gnobili cantabili o quasi in prosa, sono pieni di quella disperata ricerca d’uomo solo apparentemente o casualmente amorale. Del resto richiedere a Penna di essere qualcosa di più o di diverso fa l’impressione di uno che si lamenti davanti al più bel fiore del suo giardino perché non è un cespuglio. Naturalmente, la tecnica di Penna è inimitabile, come, del resto, è senza veri precedenti: se gli volessimo trovare una figura cui assimilarlo, crediamo che l’unico nome da fare sarebbe quello di Rimbaud, il Rimbaud ragazzo, con tutto il suo dérèglement ancora potenziale, e magari con una vena melodica ancora più fluida e tersa. Come Rimbaud, Penna è, nelle lettere italiane, il ribelle infantile e assolto. Naturalmente anch’egli giunge spesso, nel suo quotidiano delirio, a un’illogica saggezza, a un’acerba e ingenua maturità. E si guardi appunto come comincia il libro:


Felice chi è diverso
Essendo egli diverso
Ma guai a chi è diverso
Essendo egli comune

Un aforisma candidamente acuto, una massima socratica detta col tono capriccioso di un bambino. Ma in questo capriccio quanta, e come trattenuta, come filtrata, come dimenticata, disperazione: la disperazione che circola in mezzo a tutte le felici parole di questo poeta felice perché diverso e così grato alla vita che lo compensa miracolosamente della sua diversità.
Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasolini - Regia di Bogdan Jerkovic

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"ERETICO & CORSARO"




BUBBOLA:

Epò, popò, popò, popò, popí,

   pipí, qui qui, qui qui,

   qui qui, qui tutti, o miei compagni alati,

   quanti dai seminati

   degl'industri bifolchi

   semi ed orzo rapite,

   o prosapie infinite - dalla morbida voce

   e dall'ala veloce;

   e quanti per i solchi - errando a schiera

   pigolate con sí grata e leggera

   voce a le zolle intorno,

   tio, tiò, tiotiò;

   e quanti nei giardini hanno soggiorno

   fra ramuscelli d'edera,

   o su montane piagge

   d'albatrelle si nutrono e d'olive selvagge,

   tutti volate alla mia voce qui:

   tiotiò tiotiò tirití.

   Voi che ingoiate in umidi valloni

   le stridule zanzare,

   voi che godete il pascolo fiorito

   di Maratona ed ogni irriguo sito,

   e voi ch'errate a par con le alcïoni

   sul procelloso mare,

   qui venite a sentir le novità;

   ché ogni tribú dei collilunghi aligeri

   ora aduniamo qua.

   Perché giunto è un tal vecchietto

   di talento,

   che mandar vuole ad effetto

   un nuovissirno progetto:

   sú, sú, tutti a parlamento,

   qui qui qui,

   torotò torotò tirití,

   chicchabàu chicchabàu,

   torotò torolilí.


( Tratto da Uccelli di Aristòfane )





UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasoli
Regia di Bogdan Jerkovic
≪ Centro Universitario Teatrale ≫ di Parma.

Il Dramma
numero 373, ottobre 1967

Gli attori del ≪ Centro Universitario Teatrale ≫ di Parma (al quale si deve dal 1953 l’organizzazione del Festival Internazionale del Teatro Universitario) hanno tentato un interessante esperimento: quello di trasportare sulle scene, come un testo teatrale, la sceneggiatura originale del film Uccellacci e uccellini di Pier  Paolo Pasolini. La sceneggiatura stessa comprende tre episodi, il primo dei quali non ha trovato posto nel film (ed e forse, proprio per tale ragione, il più teatrale dei tre, almeno dal punto
di vista dell’esteriorità strutturale, essendo il solo che rispetti l’unità di luogo).

Il regista jugoslavo Bogdan Jerkovic (fondatore e direttore del Teatro Universitario di Zagabria, che da sette anni guida autorevolmente anche i giovani attori di Parma) si e sforzato di conferire il carattere di un discorso unitario ai tre episodi (sostanzialmente autonomi) di Uccellacci e uccellini, ponendo in rilievo il tema ad essi comune del ≪ miracolo non riuscito ≫.

Nel primo episodio si assiste all’≪ esperimento-miracolo ≫ di un ≪ missionario-domatore ≫, il signor Courneau (cioè il bianco), il quale tenta di insegnare a parlare ad un’aquila, che sta a rappresentare il ≪ terzo mondo ≫, ed invece ne è spiritualmente vinto, poichè assume egli stesso i
modi ed il linguaggio del fiero rapace, cadendo in preda ad una specie di ossessione imitativa.
Due frati, don Ciccillo e don Ninetto, che sono inviati — nel secondo episodio — da San Francesco
a pacificare la classe dei falchi e la classe dei passerotti, falliscono nella loro missione, perchè il falco divora il passerotto, ed allora San Francesco ammonisce i suoi seguaci, affermando che il miracolo potrà compiersi soltanto quando la società sara integralmente trasformata.
Infine, protagonista del terzo episodio, che ha per argomento la crisi del marxismo in Italia, un corvo ideologo che si sforza di inoculare la coscienza del marxismo in due ≪ piccoli italiani ≫ (un mezzadro e il suo figliuolo Ninetto) ed è invece ucciso e divorato da essi, perchè ha sbagliato il ≪ metodo ≫ nel propagandare la sua ideologia.

Questi tre apologhi schiettamente (e, in un certo senso, aridamente) politici, trasportati sulla scena (che finisce inevitabilmente  col rendere ≪ assoluta ≫ la parola, nonostante ogni accorgimento
della regia) e privati perciò della più abbondante integrazione che può fornire ad essi il più mobile e più duttile mezzo espressivo del cinema, risultano estremamente schematici ed ambigui, se non addirittura enigmatici (specialmente il terzo). L ’ambiguità è uno dei motivi dominanti (e più fertili) dell’arte di Pier Paolo Pasolini; ma quest’ambiguità, nella versione teatrale di Uccellacci e uccellini, si trasforma in più di un momento in una pura e semplice opacità dello spettacolo, pur cosi ricco di movimento e di colore.

Il regista Bogdan Jerkovic si è perfettamente reso conto del problema e, coadiuvato da un gruppo di intelligenti attori (fra i quali ricorderemo Gian Carlo  Ilari, Paolo Bocelli, Francesco Sciacco, Lorena Atti, Gigi Dall’Aglio e Luisella Mazzola), ha cercato di imprimere ai tre episodi una linea di conseguenza e di coerenza anche recitativa, adottando i moduli del ≪ Living Theater ≫ soprattutto nel primo e nel secondo episodio (che sono stilisticamente i più compiuti in una linea dal regista stesso definita ≪ mistico-grottesca ≫). Ma  l’interesse principale dello spettacolo rimane essenzialmente ≪ sperimentale ≫: esso propone una ≪ verifica ≫ che consente di studiare in qual misura una ≪ parola ≫, nata per essere premessa  e stimolo di immagini cinematografiche, possa resistere adeguandosi alla dimensione teatrale che le assegna, almeno nel caso di Uccellacci e uccellini, una responsabilità comunicativa incomparabilmente maggiore.

(Trascrizione dal cartaceo di B. Esposito)



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Medea di Pasolini - di G. B. Cavallaro - 1970

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"ERETICO & CORSARO"



Medea di Pasolini
di G. B. Cavallaro
Il Dramma,
ANNO 46 - NUMERO 2 
FEBBRAIO 1970

In una recente intervista (≪ Il Dramma≫, n. 12) ( L'intervista la trovi QUI ) a Piero Sanavio, Pasolini collocava la Medea sulla strada che lo portava a un prossimo film su San Paolo, un San Paolo visto come uomo di fede ma lacerato profondamente. Alcune parole dette allora, e rilette oggi, ricordano nel film la lunga lezione del centauro Chirone al giovane Giasone. Che cosa e infatti la Medea? E' la rievocazione mitica, nostalgicamente ricomposta, del tempo della religione, cioè, come egli diceva, di ≪ un rapporto di tipo religioso con la realtà, cioè considerare la realtà non naturale ≫. Questo è il tema della prima parte, e stupenda, del film. Qui Pasolini compone con perfetta intuizione l’immagine di un mondo sacrale, riscoperto con la memoria: memoria di affascinate letture,  e di riti d’infanzia, che costruisce immagini uniche e irripetibili, come ha osservato Callisto Cosulich, dal significato assoluto e dal sapore magico. Il racconto ripercorre con attenta passione il mito degli Argonauti, la storia di Giasone e il racconto della spedizione degli argonauti alla conquista del vello d’oro. Sono le nostre letture della prima ginnasiale, che Pasolini è andato a verificare in Anatolia nello stupendo villaggio roccioso della regione di Kayseèri e negli esterni inimmaginabili  della Valle di Urgùp in Cappadocia. Dove tutti si aspetterebbero tuttavia una minuziosa descrizione di fatti, e quindi la spedizione dei cinquanta eroi greci nelle remote lande della Colchide, abbiamo invece soprattutto  una ricostruzione etnografica, figurativamente stupenda, degli usi e della vita dei barbari della Colchide,  dei loro sacrifici umani. Non per estetismo pero Pasolini ha assunto il partito della bellezza a tutti i costi  ottenendo alle singole immagini il valore e la vibrazione  di sacre figurazioni, ma obbedendo a quello che  è il suo intimo stato d’animo, la sua religiosità (≪ tutto, - egli ha detto appunto - mi appare sotto una forma non dico miracolosa nel senso convenzionale, ma quasi, insomma, sacrale ≫).

In Pasolini c’è conflitto fra sacralità e religione istituzionalizzata, o per meglio dire fra religiosità come atteggiamento umano e poetico e giudizio sulla religione vista come fenomeno arcaico, preindustriale, coacervo di elementi irrazionali collegati alle epoche magiche. Da un lato c’è la religione divenuta istituzione e legge, cioè chiesa, in contraddizione con se stessa per conservarsi (come la Medea della tragedia), dall’altra il sentimento che tuttavia la contestazione al  mondo razionalizzato e consumistico, ≪ gruppi di umanità che franano fuori dalla tensione produzione-consumo ≫, può aversi solo dallo spiritualismo e dai grandi fenomeni di eresia, come i beats e gli hippies, eccetera. La religione, certo non una religione di tipo irrazionale come quella del mito, dopo essere stata il prima, può essere il poi del mondo neocapitalistico.

Si capisce per questo che il film di Pasolini appaia quasi bloccato sul piano dinamico del racconto, e che, governato da schemi cosi obbliganti e da tali remore, non possa abbandonarsi al gioco dei fatti e degli svolgimenti o delle psicologie. E ne risente in particolare la seconda parte della narrazione, quella dove è fedelmente trascritta, ma per scorci marginali e quasi di sbieco, l’umanissima tragedia di Euripide. Pero si ergono alcuni grandi momenti, brandelli sublimi di invenzione lirica. Nel conflitto tra un mondo barbarico e istintivo e una civiltà ordinata e riflessiva, laica, la tragica follia di Medea si colma di poesia anche se la costruzione psicologica del personaggio è assente. Ecco la doppia descrizione dell’uccisione di Glauce, figlia del re di Corinto, vista come progettazione è ripetuta poi nella realtà; e la dolce sequenza, pur nella obiettiva crudeltà dei fatti, in cui Medea uccide i due suoi figlioli, più un distacco che un omicidio. In questi momenti Pasolini è dalla parte della protagonista di un mondo barbarico e sacrale e ne comprende intimamente furori, contraddizioni e dolori, soprattutto quel sentirsi abbandonati dalla propria forza e ragion d’essere. E l’impiego originalissimo delle musiche tibetane, persiane e giapponesi sottolinea il processo di sacralizzazione assunto  dal regista.

Un film come questo giunge quasi inaspettato e fuori posto, nella sua castità, e il suo silenzio (è un film quasi muto, documento di un sentimento, pagina di lettura: come un appunto gramsciano, greve di riferimenti e connessioni ma sempre restituzione lucida e moderna di una sublime opera di poesia) sembra stridere in tempi di opere chiassose e volgari, di film da  cassetta, o stupidi e rumorosi anche se dotati di qualche intenzione, e di breve respiro. Pasolini continua a comportarsi da figlio caotico e disubbidiente del mondo borghese (il caos come programma polemico, come rivolta) e la sua disobbedienza assoluta si verifica nello stile anche di questo film; un’altra opera che è impossibile
annettere, consumare, esaurire nei significati facili  e nel bello delle immagini, ma che anzi volutamente  sconnette delle abitudini, invita allo sgradevole (teste  mozze, fratricidi, matricidi, dialoghi gettati in scena come oggetti superflui o come pure didascalie, il primato  dato al momento plastico e figurativo, tanto da scandalizzare i critici fini e da far dire che in fondo Pasolini non è ancora entrato in vera dimestichezza col cinema e le sue immagini). La verità è che Pasolini
ha costruito ancora una volta il racconto (non diversamente dal solito, ma con più maturazione e convinzione)  sul filo delle sue immagini interne e dei suoi ritmi, delle sue ragioni poetiche e dei significati che quella lettura ha evocato in lui. E fra stile e autore si crea un rapporto di unicità e di novità, di invenzione nell’apparente rinuncia alla costruzione narrativa e al  disegno dei caratteri e delle situazioni. Pasolini è esploratore di universi e non un suscitatore di ripetizioni teatrali o di melodrammi, e i mezzi da lui impiegati, se cosi li vogliamo chiamare, pur cosi lontani dagli standards narrativi, non potevano essere diversi. Anche se  sembra di vedere delle vignette colorate dalle immagini fisse, anche se la tragedia di Medea e esposta, come scrive un critico, en raccourci e, come suggerisce un secondo, in ≪ brandelli ≫ difficili da decifrare.

Per mettere d’accordo tutti, ci sono sempre le vedute  del paesaggio lagunare di Grado, e la piazza dei Miracoli di Pisa, e i costumi favolosi inventati da Piero Tosi, e le limpide architetture della immaginata Corinto.

E' che, sia pure non di facile lettura e discutibile come ogni cosa al mondo, da una parte ci sono film come Medea e come Antonio das Mortes di Glauber Rocha (seguito e sviluppo dei motivi dell’altro Deus e  o Diabo na terra do sol) allegorizzante e misticheggiante più dell’altro, ma di una truce quanto affascinante vena popolare, dall’altra ci sono invece Il giovane normale
di Dino Risi, o Lovemaker (≪ L ’uomo per fare l’amore ≫) di Ugo Liberatore, o La mia notte con Mauri di Erich Rohmer, il regista ex critico già autore di un divertente quanto inosservato La collectioneuse. Film che per un verso o per l’altro qualche cosa da dire l’avrebbero, certo sempre di più dei campioni d’incasso come Un maggiolino tutto matto o Il prof. doti. Guido Tersilli o Agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà con la sua inutile orgia di inseguimenti e inverosimiglianze, ma che si fermano alla superficie di un gioco caricaturale, o sfiorano il paradosso con timida mano, o si perdono in un mare di parole senza porsi questioni impopolari come quella del rapporto contenuto-forma, come si diceva una volta, o del linguaggio, dei segni, come diciamo oggi.

I professionisti del box-office, che hanno dovuto già arrendersi ai contenuti rivoluzionari e ai registi giovani e hanno visto che alla fine gli uni e gli altri possono rivelarsi produttivi, non intendono rinunciare pero alla garanzia prestata dagli standards spettacolari. I film, essi dicono, devono rispondere alle ≪ regole che rendono  interessante una pellicola ≫, sia questa Indianapolis pista infernale o Fellini Satyricon o II commissario Pepe. Il pubblico e in grado di digerire opere diversissime, purchè sian tutte legate al denominatore comune ≪ della validità e dell’interesse ≫. Ma quali sono i requisiti della validità? L ’intelligenza, si afferma, la carica poetica, la personalità drammatica, la cultura possono trasformarsi in successo commerciale, senza compromessi,purchè
evitino i tentativi sperimentali per essere applicate secondo le costanti e ormai ≪ consacrate ≫ regole del gioco scenico. Un discorso che suona quasi irriverente quando lo si applica, come e in questo caso, a registi come Fellini e Visconti. Si insiste nel voler puntare sui grandi incassi, sui film d’alto costo, sul cinema di consumo e sulle sue regole evidentemente sconfitte in tutto il mondo, sul gigantismo cinematografico, gridando al lupo nei confronti dello sperimentalismo.


E' evidente, tutti ormai lo stanno sostenendo, che la pura prova di virtuosismo tecnico, lo sperimentalismo e l’ermetismo, l ’underground per partito preso hanno mostrato i loro limiti come fatto culturale e come risposta di pubblico; un film che e visto da pochi non può diventare ne un fatto industriale ne soprattutto culturale in tempi di mass-media. Ma fra il kolossal e l’underground  c’è
 tutto uno spazio da concedere all’invenzione linguistica e al discorso dell’autore, se non vogliamo che il cinema muoia nella stanca ripetizione del Modello  Unico. Questo spavento che ha preso tutti, registi  grandi e produttori piccoli, e l’ultimo segno di disperazione del nostro cinema, costretto all’innaturalezza  dalle sue abnormi strutture. Tutti, o quasi, non escluso il pur bravo e impegnato Pontecorvo, si danno alla prosa facile e all’alta divulgazione per assicurare la massima circolazione al loro cosiddetto Messaggio. Ecco la fuga dal montaggio, ecco l’attesa del grande attore,  ecco la necessita del grande schermo, della storia intreccio, dei luoghi comuni teatrali più deleteri.

Ma e possibile in queste condizioni trasmettere un qualsiasi messaggio che non sia uno stereotipo vestito  di buone intenzioni, in realtà segnato da un linguaggio  di classe che contraddice ai suoi significati? Morandini ha impostato acutamente la questione su ≪ Il Tempo ≫,  settimanale, negando la priorità del contenuto rispetto  alla forma e la stessa validità del compromesso cosi pressantemente chiesto dal mondo economico. Ciò che  l’artista ha da dire, corrisponde esattamente alla forma che assumerà la sua opera, non c’e un discorso che si  possa pronunciare in molti modi, adottando quasi uno sperimentalismo a rovescio: ≪ L’errore, anzi, il peccato di Pontecorvo e di credere che il fine giustifichi i mezzi... è l’errore tipico di chi crede che il contenuto sia qualcosa che sta “ dentro ” e che lo stile sia qualcosa che sta “ fuori ” ... Il modo di apparire e il modo  di essere, cioè la maschera e il volto ≫. Siamo perfettamente d’accordo, contro tutti i terroristi delle sante regole che stanno strozzando il cinema over ground-,se non si corre ai ripari.

G. B. Cavallaro
Il Dramma, ANNO 46 - NUMERO 2 - FEBBRAIO 1970

(Trascrizione dal cartaceo di B. Esposito)




Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro


Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano - La religone del mio tempo - P.P.Pasolini

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"ERETICO & CORSARO"


Vorrei aggiungere però una cosa. Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando, ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di imitatio Christi quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene.

Vie nuove n. 47 a. XVI, 30 novembre 1961


Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...


Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

*****
«Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso d’inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d’aderire alla loro filosofia. Oggi, invece, sentono questo complesso d’inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un’aria da “classe superiore”».

(1973, intervista rilasciata per il Messaggero a Luigi Sommaruga)


Presso Biblioteca Nazionale Centrale - Roma.


La religione del mio tempo 

di Pier Paolo Pasolini 



...È passato il tempo delle speranze!

[…] No, la storia

che sarà non è come quella che è stata...

La religione del mio tempo è una raccolta poetica di Pier Paolo Pasolini che prende il titolo da un sonetto di Gioachino Belli (La riliggione der nostro tempo), uscita presso la Garzanti di Milano nel 1961 con una dedica all'amica Elsa Morante.

Presso Biblioteca Nazionale Centrale - Roma.



Scritte tra il 1955 e il luglio del 1960 e pubblicate per la prima volta nel 1961( Garzandi ), le poesie di La religione del mio tempo raccontano in versi, anche in modo duro, le contraddizioni di una  società che muta inconsapevolmente. In questi versi, Pasolini con grande capacità di analisi, sintetizza ideologicamente tutta la sua passione civile: 
"I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi - nei casi migliori - perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che é stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia... Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana. [...] Per esempio, un epigramma intitolato Alla bandiera rossa. In esso delineo una tragica situazione di regresso nel sud (come si sa, coincidente con il progresso economico, almeno apparente, del nord) e concludo augurandomi che la bandiera rossa ridiventi un povero straccio sventolato dal più povero dei contadini meridionali. Forse per questo Salinari mi chiama, senza mezzi termini, senza appello, 'populista'".
(Vie nuove del 9 novembre 1961



Autore/i:  Pier Paolo Pasolini
Tipologia:  Raccolta di poesie
Editore:  Garzanti
Origine:  Milano
Anno:  1961 (20 maggio)



I. LA RICCHEZZA (1955-59)

1. GLI AFFRESCHI DI PIERO A AREZZO – VIAGGIO NEL BRUSIO VITALE – IL VENTRE CAMPESTRE DELL’ITALIA – NOSTALGIA DELLA VITA
2. TRE OSSESSIONI: TESTIMONIARE, AMARE, GUADAGNARE – RICORDI DI MISERIA – LA RICCHEZZA DEL SAPERE – IL PRIVILEGIO DEL PENSARE
3. RIAPPARIZIONE POETICA DI ROMA
4. SERATA ROMANA – VERSO LE TERME DI CARACALLA – SESSO, CONSOLAZIONE DELLA MISERIA – IL MIO DESIDERIO DI RICCHEZZA – TRIONFO DELLA NOTTE
5. CONTINUAZIONE DELLA SERATA A SAN MICHELE – IL DESIDERIO DI RICCHEZZA DEL SOTTOPROLETARIATO ROMANO – PROIEZIONE AL “NUOVO” DI “ROMA CITTA’APERTA”
6. UN’EDUCAZIONE SENTIMENTALE  - LA RESISTENZA E LA SUA LUCE – LACRIME
A UN RAGAZZO (1956-57)
LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO (1957-59) – APPENDICE ALLA “RELIGIONE”: UNA LUCE (1959)

II. UMILIATO E OFFESO  Epigrammi (1958)
  
AI CRITICI CATTOLICI / A GEROLA / AD ALCUNI RADICALI / AL PRINCIPE / A ME / A J.D./ A UN FIGLIO NON NATO / A BARBERI SQUAROTTI / A CADORESI / AI REDATTORI DI “OFFICINA” / ALLA FRANCIA / A UN PAPA

NUOVI EPIGRAMMI (1958-59)

A KRUSCIOV / ALLA BANDIERA ROSSA / AI LETTERATI CONTEMPORANEI / A BERTOLUCCI / A COSTANZO / A TITTA ROSA / A LUZI / A CHIAROMONTE / ALLE CAMPANE DI ORVIETO / ANCORA A GEROLA / A G.L. RONDI / AL PRINCIPE BARBERINI / AI NOBILI DEL CIRCOLO DELLA CACCIA / A BOMPIANI / ALLA MIA NAZIONE / A UNO SPIRITO

IN MORTE DEL REALISMO (1960)

III. POESIE INCIVILI  (aprile 1960)

LA REAZIONE STILISTICA
AL SOLE
FRAMMENTO ALLA MORTE
LA RABBIA
IL GLICINE


B.Esposito



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro


Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini, la sceneggiatura-racconto dimenticata - La (RI)cotta - inedito

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"ERETICO & CORSARO"



Pasolini, la sceneggiatura-racconto dimenticata - 
La (RI)cotta - inedito
Film non realizzato
racconto
L'Unità, domenica 6 dicembre 1964
Disegni di Bruno Caruso 


 1°)   Vedrete un salone liberty. Dentro vedrete i < Parenti > (< Parenti tutti >), in due file, davanti i più bassi dietro i più alti. Vedrete che saranno tutti brutti. Li vedrete ballare il twist (1963).
come color che un colpo al basso ventre piega in avanti col sedere indietro. e furba beatitudine negli occhi. 
Li sentirete lanciare urla e vociferazioni con l'accento dell'Adalgisa, mentre lei, la marchesa Crespina Agnellini in Pirelloni,
"la sigherà adiritura in milanes". 
Nella colonna sonora prevarrà, con festosità reiterante prossima a litania, l'allocuzione famigliare
< Viva il nostro Papà >

2°)  5 o 6  PPP del principe De Curtis, il Papà, i cui effati celtici al telefono sveleranno anche al pubblicò più cretino (< in via di sviluppo >) i seguenti dati:
a) egli è un grande industriale milanese, e
b) sta per lanciare un nuovo prodotto e quindi si accinge a condizionare alcuni milioni di connazionali,
c) nel frattempo sta portando a termine un affare (speculazione edilizia, vendita di un'intera strada con palazzi del Settecento e dell'Ottocento) per il valore di vari miliardi,
d) sta seguendo una campagna elettorale per le elezioni amminitrative in < una città del Tacco > , dove ha intenzione di impiantare una succursale della sua industria, cercando un uomo di paglia tra gli avvocati del posto,
9) che è anche Presidente di una grande casa di Produzione cinematografica, il cui film < Botte ai buoni borghesi > di prossima programmazione in Italia, lo preoccupa per i suoi contenuti politico-religiosi, e che quindi decide
f) di andare, si, ad assistere alla lettura di poesia da Bagnacàudi, del poeta soggettista del film (per ragioni di flashes pubblicitari), ma contemporaneamente
g) di far venire davanti al Sacrario della poesia un gruppo di giovani del Comitato italo-isterico (appendice attivistica del P.I.S.C.I.O.), per coprire di ignominie e insulti il poeta, e infine
h) di interessare un avvocato per far fare una denuncia contro quello stesso poeta: nella sfilza dei reati di vilipendio, ce ne sarà qualcuno di cui incriminarlo, quel poeta del cavolo!

3°) Contro la cornea il < twist del boom > ....... adesso nel ballo dei subnormali ipersviluppati si sentiranno lacerti di osanna al Capitalismo all'antica altro che Neo-Capitalismo e Centro-Sinistra altro che Giovanni XXIII e Giovanni XXIII . viva la < Edison >, porca miseria !

4°)  Libreria Bagnacàudi.   Int. Giorno.  II poeta sta leggendo dei versi impegnati davanti al pubblico intellettuale, tra cui il principe de Curtis, che da ora in poi chiameremo Mater Danarosa.
Dall'esterno si sentono, grida, botti, pernacchie ecc.
Crescono, crescono, della gente esce ecc. Tafferugli. Intervento polizia.

Libreria Bagnacàudi. Est. Giorno. I giovani del Comitato Italoisterico, in C. L., racchioni, ciccioni, bagoloni, mosciardoni, coglioni, coi cartelloni:
« Viva Papà »,
< Viva la Terra Madre >,
«Viva la moralità»,
« Viva tutte le parole con le iniziali maiuscole » ecc. 
Gazzarra, pugni, indignazione ecc.
La Mater Danarosa che guarda col mistero e il distacco del padrone.
Il suo mistero e il suo distacco si fanno poi fisici, concretandosi in un movimento che lo portano ai margini del caos increscioso, sotto gli alberelli della grande Via della Dolce Vita, e li, ah e ll...

... Una bambina, una bambina dagli occhi di pane fresco, di mare pescoso, azzurri come un cielo rovesciato — d'una purezza che colpisce in pieno petto come un pugno, silenziosi, spalancati, severi, candidi. (Una bambina stracciona che va chiedendo l'elemosina suonando il violino, secondo la tecnica di Charlot).

Il Mater Danarosa domanda, " e lei risponde, con la diligenza della  timidezza: il nome, il cognome... una vocetta innocente, piena di tutta l'allegria del mondo fuori dalla. storia... Suo padre si chiamava Stracci, è morto sulla croce... si, è morto sulla croce facendo in un film la parte del Ladrone Buono... e morto di fame, o di indigestione, per aver mangiato troppa... RICOTTA... Nel dirlo ride e piange... Poi ricomincia a suonare la sua canzoncina al violino, con la vecchia nonna sorda accanto... Piano piano la canzoncina si muta in un sublime motivo di Bach, e i Primi Piani del Mater Danarosa e della Bambina si alternano mille volte.

5°) Vedrete una borgata, non lontana dal cuore di Roma, anzi, a due passi da San Pietro. La cupola di San Pietro, la vedrete, è sempre li, in fondo ai praticelli zellosi, agli spiazzi secchi, agli ammucchiamenti ubriachi di baracche, ai montarozzi d'immondezza, alle stradine tra le frattacce sventrate: e, intorno, la visione dei grattacieli appena alzati, opere della nuova ricchezza, baciati dal sole.

Il Mater Danarosa scende (lunga carr. indietro) dalla sua macchina, e s'interna in quel letamaio, candido al sole.
Cerca la Bambina Stracci.
A ognuno a cui domanda indicazioni, dà un mucchio di soldi liquidi (sempre secondo la tecnica classica; un balletto se vogliamo un po' zavattiniano, insomma: poveri matti, e soldi che volano come uccellacci al sole della borgata).
Finalmente la Bambina Stracci è scovata, nella sua baracca orrenda, di legno putrido e secco come baccalà. E li il Mater Danarosa vuol sentirla suonare. I PP. del Mater Danarosa e della Bambina si alternano mille volte, straziati, ridotti a polpette di tenerezza dalle celesti iterazioni di Bach.


6°) Torna l'idea del twist del remoto '63. Twist di vipere scatenate, che ballano
come color che un po' di pepe al culo fa rotear sul perno della pancia ritratti, come vèrmini acciaccati.
Il dolore è quello della perdita della certezza del capitale nell'incertezza esistenziale.


7°) Ma lui il Danarosa è diventato da capitalista neo-capitalista, per ragioni di < storicità interiore >, in qualche modo mistica — che altre non ce n'è, se non le botte — e la vecchia Pietas, l'Amore dell'epoca antropologica classica, si sono trasformati in Azione. Ma di ciò in seguito. Per ora, al posto delle baracche, il Danarosa sta facendo progetti per costruire - palazzine moderne, ', con Supermarket, asili' infantili e. tutte quelle cose lì.
Intorno i baraccati son tutti contenti, e scrivono cartoline in Calabria e in Sardegna per fare venire i loro parenti ecc. ecc. (gags per Zavattini o Sonego).
L'amore ipostorico del Mater per la Bambina Stracci (che sarà l'Angelo in un film sul Vangelo - nota dell'a.) è al culmine, sempre sotto il segno della musica sacra dei tempi antropologicamente umani. Tanto al culmine, che i fratelli Stracci, che sono andati fin dalla più tenera età a Scuola da Paraguletti, pensano di fargli un ricatto... E i soldi volano, volano, nel sole di stoccafisso del mondo della fame.


8°) La marchesa Crespina  Agnellini in Pirelloni, coi parenti tutti, si sono tatuati, si sono messi le penne in testa, e hanno afferrato l'ascia di guerra. La musica del twist e ora un arrangiamento dal < Rigoletto >, ' e, ballandolo, gli allievi dei Gesuiti e delle Dorotee, lanciano urla selvagge, contro l'ex-Papà:
PAZZO PAZZO PAZZO PAZZO! 
FONDU 

9°) Rappresenterò, a questo punto, in totale, il sacro silenzio del tribunale. La gloriosa sala liberty, che sarà nei prossimi decenni dedicata ai bagni turchi, ma che intanto rappresenta ancora la maestà nazional-dannunziana in tutta la sua tragica bruttezza.
Rappresenterò, in C. L., col massimo rispetto, l'ingresso dei giudici ecc.
E, a sorpresa, nel silenzio rispettoso, il PP. del regista del film < Botte ai buoni borghesi >, che adocchia la Bambina Stracci (testimone).
Egli è fulminato da un'idea: scoprirla, lanciarla, farne una Diva! Chiama i fotografi, paparazzo grande fra i paparazzi piccoli, e flash, flash, flash, la Bambina Stracci è eternata nell'ambiente contro Crocefissi e Toghe, col suo sorriso di terre arabe, zucchero azzurro.
Rappresenterò poi, facendo andare la macchina a 12, secondo l'epica accelerazione chapliniana, la sfilata dei testimoni. A tutta velocità sfileranno uno dopo l'altro i Parenti Tutti, vomitando, come scariche sberleffi e orrende accuse di PAZZIA all'ex-Papà — che se ne sta col suo scucchione come un Cristo sul banco degli imputati. Alla fine di ogni testimonianza, ognuno rende concreta la propria esecrazione morale, prendendo una torta di RICOTTA da un vassoio retto li accanto da un vecchio servo di  famiglia, e gettandola, pànfete sulla faccia del rispettivo padre, zio, nipote, fratello, cugino, cognato, suocero, genero: toh, prendi, matto, prenditi questa ricotta in faccia, e va via, va a durmi, matto, mat d'un : mat, d'un mat, d'un mat! .


DISSOLVENZA
"Adesso tocca testimoniare al Poeta: la macchina va a velocità normale, e nella pace della luce che filtra dal dolce mondo, giù dai davanzali di vainiglia, egli dice le ragioni della Pazzia del vecchio Capitalista lombardo, sulla via del neo-capitalismo al di fuori della razionalità, per un vecchio sentimento d'Amore, destinato rapidamente a invecchiare nel futuro del mondo reale del neo-capitalismo, dove, a mascherare la brutale realtà delle cose, i sentimenti dovranno essere definitivamente finti.

DISSOLVENZA
Un urlo di rapace annuncia che la Corte rientra; e, sempre nel massimo rispetto consentito dall'architettura nazional-termale, la Corte pronuncia il verdetto:


INTERDIZIONE. 

10°) Un manifesto per le strade — quelle per cui passava Arcibaldo nell'America degli Anni Trenta: sul manifesto campeggia lo scucchione del Mater, che, onesto, mortificato, chiotto, volge intorno gli occhioni da interdetto, mentre sotto, occhieggia la scritta delle vipere:
« Cattolici, ' non votate più '' Mater Danarosa: egli vi tradisce con i social-comunisti »
(ogni riferimento a un manifesto simile apparso l'anno scorso, contro Fanfani o Moro, ad opera del MSI è puramente casuale). 
Il Mater in carne e ossa passa ' davanti alla sua effige: senza più la sua macchinona, a pedagna, col cavallo di San Francesco, e piuttosto male in arnese. Schierati davanti a un Liceo, i mammoni, bagoloni, racchioni, coglioni coi loro cartelloni, lo guardano, con l'ironia dei prodi, degli intatti, che benché squisiti fiori di borghesia, possono concedersi la violenza militaresca e popolana della viril pernacchia.
E lo < spectaculum vulgi >, se ne va, col suo scucchione, seguito da un coro di pernacchie nazionali, per la Via del Barbone.


11°) E' la strada che porta nel mondo umanistico dell'Amore. La borgata polverefango dominata dalla cupola oromarmo. Cerca di Baracca in baracca la sua Bambina Stracci, l'angelo dagli occhi di pane che fu emblema di quell'Amore: ma non ha più soldi, per ottenere informazioni: deve mendicarle. (Balletto zavattiniano alla rovescia, con secco, rapido, significativo, esplicito < voltar di spalle» da parte della gente già beneficiata, che dà chiaramente a divedere come nei film americani di Capra, i suoi sentimenti nuovi, che sono di sufficienza, disprezzo e noia contro l'ex benefattore. Il buon selvaggio è cattivo. E perchè dovrebbe essere buono?).
Arriva, il Mater, al tugurio degli Stracci: ma la Bambina non c'è. E' laggiù, nel cielo delle Gaioni, delle Sandrelli, delle Spaak. Qui c'è un mucchio di parenti maschi venuti da Sardegne e da Calabrie, neri, ancora, e torvi, perduti come lupi nella loro alloglossia.


12°) Twist di trionfo del Parenti [tutti con osanna osanna al Corriere della Sera e appelli alle ombre di Balbo e di Schuster...........


13°) Il Mater è ora un barbone, e da bravo barbone, vaga per il fango e la polvere della borgata, lungo il filo bruciante di sole dei grattacieli lontani. E' brutto, brutto ch'el fa spavent, co la palandrana, i scarp che paren cos, la barbacia longa de tre di.
Il gà fame, povareto. Mannaggia, non ciò un c... da magna. Va parlando da solo sotto una scarpata, piena di manichi di vasi da notte, bottigliette di medicinali, ovatta sporca di iodio, fondi di ceste marce, carogne di gatti coi dentini scoperti... Finalmente trova un secchio di immondezza, e cerca li dentro se trova qualcosa da mangiare. Arriva anche un cane, che ha le stesse intenzioni. Ma indugia un po' per ragioni di delicatezza, facendo finta di essere li per caso, stirandosi, e leccandosi le labbra distrattamente. Ma il Mater gli fa posto, e cosi cercano tra l'immondezza - insieme da buoni compari. Cercano, capano, ogni tanto mangiano qualcosa: e, intanto, cominciano a scambiarsi qualche parola. Il Mater si sente vicino alla fine, e vorrebbe lasciare le sue ultime volontà a quel solo casuale amico delicato. Ma... non ha « ultime volontà »: non ha che il desiderio di averle... Cerca, cerca, costernato dentro di sé,  ma non trova parole per esprimerle, né come capitalista, né come barbone. Non sa niente, lui, non sa quello che gli è successo, non sa quello che è successo, e succederà, al mondo, quali siano le ragioni dell'ingiustizia, del dolore, dell'amore e della mancanza d'amore. C'è dentro, in tutto questo, ma non Io sa. Cosi muore, senza lasciare neanche una parola.
Il cane, povero santo, mormora una preghiera (o se questo dovesse suonare vilpendioso alla religione, un elogio funebre laico): poi se ne va, su per l'erba che incrosta come una rogna la scarpata.
Pier Paolo Pasolini

(Trascrizione dal cartaceo curata da B.Esposito


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro


Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pier Paolo Pasolini - Che fare col "buon selvaggio"?

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"ERETICO & CORSARO"



Che fare col "buon selvaggio"? 
di Pier Paolo Pasolini
 - apparso postumo ne “L’Illustrazione Italiana”, febbraio-marzo 1982 
ora in Saggi sulla Politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999. 


Noi borghesi abbiamo sempre saputo benissimo «che fare» col «buon selvaggio». Prima ne abbiamo negato l'esistenza, deridendo l'inventore della formula.
Un sacrificio in campo romantico trovava risarcimen­to in campo prima illuminista e poi positivista.
In seguito, dal momento in cui non è stato più possibile sostenere la rimozione, abbiamo adottato altre due misu­re: da una parte l'integrazione reciproca tra la cultura per eccellenza (la nostra) e la cultura (ammessa) del «buon selvaggio»; dall'altra parte il riconoscimento oggettivo di quest'ultima cultura come un «insieme» esaustivo una volta per sempre della totalità, in strutture immodificabili (Lévy-Strauss). Il trionfalismo della Negritudine (con Senghor che ne sventolava il vessillo) era il centro della prima soluzione; nella seconda soluzione si celebrava il nuovo cinismo noetico.
La dignità umana per noi borghesi è la dignità virile; anche la donna, nella sua volontà di emancipazione, ha, per coazione, come scopo quello di fruire per diritto e mimesi della dignità virile (così come un negro america­no medio lotta per essere simile a un executive bianco).
Questa identificazione della dignità umana con la di­gnità virile è il fondamento del razzismo Ciò che il maschio bianco (e per mimesi la sua femmina) trova di schifoso nel maschio di un'altra razza è la sua mancanza di dignità virile, o una dignità virile di tipo diverso. Nel primo caso egli riconosce a se stesso come per carisma il diritto al genocidio delle popolazioni di Raccoglitori nell'America Latina. Tale genocidio è ben più atroce (se ci potessimo fondare su tali scale di valori) di ogni altra strage in Vietnam o in Eritrea: tuttavia anche gli uomini bianchi buoni (dai comunisti tradizionali, agli intellet­tuali di sinistra, agli studenti) non si scandalizzano di fronte alle stragi di Raccoglitori: le sanno, ma le rimuo­vono anch'essi, come cose di minor portata politica e umana.

Uomini la cui dignità coincide con la dignità virile più o meno come per noi bianchi, cioè i musulmani (a qual­siasi razza essi appartengano) non sono oggetto di odio razziale se non secondario.
Un esercito di tali uomini, precisamente quello dell'ora destituito Abboud, hanno compiuto nel basso Sudan un atroce genocidio: hanno praticamente elimi­nato dalla faccia della terra il popolo dei Denka: nessu­no si è accorto di tale genocidio, se ne è parlato come di una fiaba.
Non si vede, del resto, perché un borghese avanzato non debba aver paura di essere mangiato da maschi dal­la dignità virile diversa dalla sua (e presumibilmente - dato l'infantilismo clinico di tale terrore - più forte); op­pure non debba aver desiderio di mangiare maschi dalla dignità virile inconsistente, che si offrono come vittime, come agnellini pasquali.
La dignità virile bianca e non bianca si fonda su reli­gioni monoteiste, cioè contadine. Tutti coloro che cre­dono in un unico Dio analogo (personale) hanno una analoga idea della dignità virile: che è una imitazione di quel personaggio chiave che è il padre.
Non c'è studente o intellettuale, per quanto ribelle o rivoluzionario, che non ricrei attraverso la dignità del suo corpo e del suo comportamento, la dignità del padre.
Un indù non ha la dignità virile di un europeo o di un musulmano: i modelli a cui egli si adegua sono altri da quelli forniti dal prepotente e ottuso Dio Genitore.
Il «buon selvaggio» esiste; esiste oggettivamente; esi­ste una felicità selvaggia; e un vero e proprio stato di fe­licità selvaggia. I Denka che fanno una vita comunitaria, non conoscono il denaro (usano il baratto), non cono­scono i vestiti (vanno nudi, con un filino di perle al col­lo), non conoscono un Dio unico (sono animisti): sono una popolazione felice. L'ho visto io, con i miei occhi. Ora i monoteisti li hanno distrutti, incapaci di sopporta­re forse quello stato di felicità «inintegrabile». (Il prete­sto è stata una guerra di religione: infatti degli ingenui e caparbi missionari, per lo più veneti, stavano follemente catechizzando il popolo Denka.)

Anche i Masai vivono una felicità «selvaggia»: ogget­tiva, reale, sperimentabile. Sono animisti nomadi pasto­ri. Se vengono imprigionati, muoiono, come certe razze di uccelli o come quel ragazzo del Boccaccio che decide di morire di dolore «tirando a sé tutti i fiati». I Masai ci ringraziano tanto, ma rifiutano la nostra cultura. Si ten­gono la loro, di cui del resto anche noi non sapremmo che farcene (altro che integrazione reciproca! altro che ottimistiche sintesi idealistiche e marxiste!). Un bellissi­mo giovane maschio Masai, alto, forte, barbaricamente coperto di collane, braccialetti, anelli, è totalmente privo di quella che noi chiamiamo la «dignità virile»: egli è giocherellone, scioccherello, ridanciano, vezzoso e cre­dulo come una bambina.
L'idea dell'uomo maturo vestito di grigio, efficiente, pulito, forte, o del giovanotto ben tosato, con sobrie ca­micie, calzoni meticolosamente casti se puritano (e tutto di un grado economicamente più basso e meno asettico se cattolico del sud), non trova applicabilità alcuna nei maschi, del resto dotati di tutte le migliori qualità ma­schili, del popolo Masai: un tipo clerico-fascista è im­pensabile calato nel corpo di un Masai.
Non tutte le civiltà contadine hanno prodotto regimi faraonici, attraverso il modulo del monoteismo. La degenerazione è avvenuta in seguito. La città greca è infat­ti impensabile fuori dal politeismo: la sua pluralità aveva nella specializzazione degli Dei una specie di archetipo. Alcibiade si vestiva come un Masai.
San Paolo e Maometto hanno reso monoteista il mon­do contadino storico: personaggi come Alcibiade hanno cominciato a divenire dei «diversi», incapaci di raggiun­gere e poi difendere la dignità virile mimata dal padre; e i poveri popoli rimasti a un grado anteriore dell'evolu­zione religiosa (!) sono cominciati ad apparire razzisticamente inferiori. Il monoteismo ebraico aveva prefigura­to tutto questo.
I Raccoglitori e i contadini animisti o politeisti hanno così cominciato a formare un «mondo inferiore»: anche nel Terzo Mondo ci sono delle Gerarchie!
Contadini monoteisti divenuti piccolo-borghesi, i re­visionisti russi frequentano il Terzo Mondo e contattano il «buon selvaggio» con la stessa sicumera virile dell'exe­cutive americano.
Ho visto a Hodeida nella pista dell'aeroporto abban­donata nel deserto giungere una macchina nera, enor­me, con le tendine: non vi era contenuto né un vescovo né un generale, ma un buon Padre russo, vestito di gri­gio: autorità dalla solida struttura paterna tra i gracili ye­meniti segaioli e mezzi froci, pieni di grazia e di stracci.
Per i Cinesi il discorso forse è più patetico. Anch'essi frequentatori apprendisti del Terzo Mondo, vi ci arriva­no carismatici e dissociati; si mettono a fare i fratelli mag­giori o le mamme - per lo più invisibili e inavvicinabili.
Fanciulli sono i somali, che vengono dalla loro bosca­glia, se sono animisti (già un po' foschi e «difesi» se musulmani): inurbati a Mogadiscio trovano il papà di Casa­le Monferrato o di Forlimpopoli, che, le sue membra, le ha sepolte chissà dove: in lui c'è la dignità virile che le difende.
Accanto a questo papà c'è oggi quello sovietico, an­che lui con un pietrone sopra il cazzo, sposato, pieno di dignità, protettore, compassionevole e severo, ma del tutto incapace di «parlare» col buon selvaggio.
Il governo somalo, socialista, cosa fa? Cerca di impor­re ai cittadini il modello della dignità virile del mondo monoteista contadino piccolo-borghese occidentale (e orientale): chi riconoscerebbe un somalo, una somala e un somaletto, se non dalla tinta, nelle figure di quegli enormi cartelloni che reclamizzano il regime e la mono­gamia, con la scritta inaudita: «FAMIGLIA SANA PER UNA SOCIETÀ SANA»? Siamo in pieno Terzo Mondo.
Il buon selvaggio inurbato ha come ideale quello di servire da bravo figlio: fare il servitore, il facchino, il sol­datino, l'autista: riservandosi una privacy, in cui com­portarsi senza alcuna dignità (cui si adegua pubblica­mente come un automa, obbediente).

Certo le piccole tribù sparse per la foresta (ottanta circa solo nella Costa d'Avorio, ognuna con una cultura e una lingua radicalmente diverse) rendono i propri vil­laggi dei piccoli Lager, dove autotorturarsi nell'obbe­dienza di tabù millenari: essi non sono certo in possesso di una nozione liberatrice di libero amore: ma offrirgli in cambio il perbenismo di una famigliola sana...
Ho pianto di vere lacrime, davanti a un idoletto della tribù Baule, fatto di legno e filamenti vegetali; ho pianto perché quello era il piccolo nume contadino del Lazio di Turno. Lacrime su un mondo perduto anche nelle sue ultime propaggini: infatti il monoteismo contadino do­po essere stato per tanto tempo modulo e strumento di potere viene buttato a mare dal potere industriale.
Strano! Il modello di un «consumatore» non può più essere un modello di dignità paterna! Il consumatore dev'essere un uomo leggero, infantile, volubile, curioso, giocherellone, credulo. Il compratore è sostanzialmente una fanciulla. S'infrange il monoteismo, col Padre che dà, non prende; s'infrange con i suoi domini storici della piccola borghesia occidentale e rossa, lasciando il posto a un politeismo di Beni donati da un Padre che non vuo­le farsi imitare?
Del resto, nel cuore della civiltà europea e americana, chi dissente dalle sue regole, istintivamente precorre i tempi, rinunciando per prima cosa alla dignità virile, cioè dissociandosi dal padre: tutta la gioventù dissen­ziente si veste, si muove, si comporta in modo che, pri­ma di tutto, si distingue dal modo di vivere fascista, o potenzialmente fascista, nei paesi imperialisti: la man­canza di dignità nel vestire, anzi la scelta ben determina­ta di vestiti da buffoni, la debolezza muscolare, i capelli lunghi come le donne, il pacifismo, l'indegna ansia di accattonaggio, l'aspirazione a dormire in grotte, in piccio­naie, in cantine, o sotto i ponti. Un giovane dissenziente è privo di dignità virile come un Raccoglitore dell'Ame­rica Latina che vaga per la foresta, e caca dove si trova, come le adorabili bestie.


1970, P.P.Pasolini

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini, Pier Paolo, Strenna di poesie - Un piccolo saggio dimenticato.

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"ERETICO & CORSARO"

Biblioteca nazionale centrale - Roma


Strenna di poesie
Pier Paolo Pasolini
22 dicembre 1956
"Il Punto"
Biblioteca nazionale centrale - Roma
.
Alcune sere fa Gadda, angosciato da uno dei suoi improvvisi scrupoli, ha indagato timidamente e pieno di buona volontà presso di me: << Se uno volesse aggiornarsi sulla poesia, diciamo, di questi ultimi anni, quanti volumi, all'incirca, pensi che si dovrebbe procurare? Io gli ho risposto divertito: << Seicento >>. Ma vedendo il terrore dipinto sul viso di Gadda, mi affrettai a rassicurarlo, facendogli una ventina di nomi. In realtà non avevo esagerato molto: i libri di versi usciti in questi ultimi dieci anni in Italia sono veramente centinaia. E del resto si guardi il repertorio di Falqui: che raccoglie ben  97 poeti, con criteri di oggettività, è vero, ma non tuttavia numerica: la selezione c'è, è abbastanza rigida, e anche discutibile, poichè quanto al valore, si poteva avanzare la candidatura di almeno altrettanti nomi.
Solo i libri usciti in questi mesi formano qui, davanti alla macchina da scrivere, una vera  piccola muraglia. Di molti ho avuto occasione di scrivere in altra sede, di molti altri, come dire, il tacere è bello. Ma restano alcuni stravaganti, dalle coordinate esterne difficilmente definibili, o per eccesso di marginalità, o per eccesso di squisitezza.
Per esempio questo assurdo libricino bianco, impaginato in modo impossibile, in una copertina durissima che ricorda le agende dei negozianti. Chiedo scusa al buon tipografo ( che del resto compare in un angoletto del retro, semi-invisibile: e risponde al nome di G. Cremese, Udine - per chi si volesse procurare il prodotto ): ma evidentemente dell'esperimentazione tipografica andrà tenuto responsabile l'autore stesso, autoeditore, laggiù, in fondo alla sua regione sperduta, rozza, onesta e infantile: << Pomeriggio solenne abbandonato - in mezzo ai campi il giorno della festa. - Il solitario uccellatore all'ombra - della fistera si riposa. - Sono intorno le campagne perdute - nella malinconia del mondo... >>. E' un curioso << strapaese >> , quello del nostro poeta: si direbbe, quanto a tono, di derivazione dialettale squisita ( i felibri friulani di questi ultimi anni ) : dove il patriottismo reazionario dalla retorica paesana, è sostituito da uno spirito democratico che, felicemente, conserva il virilismo in questi casi insostituibile, attraverso una assai pura e limpida epica partigiana. Il mondo realistico - quotidiano della vita in campagna - e il susseguente ozio poetico - è fissato qui in una luce di mito: in cui il pericolo a classicheggiare è scongiurato da una intima rozzezza non solo di non-squisito, ma quasi addirittura di incolto. L'estenuazione di origine dannunziana ( passata probabilmente attraverso il Machado o lo Jiménez dei succitati felibri), in un'anima radicalmente dialettale, culturalmente inferiore, si è impastata in una sorte di goffaggine che inturgidisce di evidenza fisica parole e stilemi anche di seconda e terza mano. Il libriccino s'intitola <<Meliche>>, e l'autore si firma <<Paisano>>.

Laborintus . dì Edoardo Sanguineti, è esattamente il contrario. Edito in una veste assai elegante da Magenta (Varese) in una delle collane di poesia più veramente squisite e rare,  <<Oggetto e simbolo>>,  curata seconda un rigoroso criterio tendenziale da Luciano Anceschi.
In limine una scritta in stampatello spiega il titolo: <<Titulus est laborintus quasi laborem habens intus>>. E, nella pagina bianca, la dedica: «A P.P.P., questo libretto molto neo-sperimentale... ». L'autore si riferìva a un mio scritto su <<Officina>> (A. I, n. 5) appunto intitolato «Il neo-sperimentalìsmo>>: il libro di Sanguineti è infatti un tipico prodotto del neo-Sperimentalismo post-ermetico, che per una intima, nuova energia, riesuma entusiasmi pre-ermtìci, all’origine dello sperimentalismo novecentesco.
Ma qui le fonti sono, con nuova chiarezza critica, recuperate come prodotti attuali, Eliot e Pound. Il « labar » che c’è dentro, è un furentissimo pastiche ( italiano post-montalìano, rimontato appunto su un Pond e un Eliot riscoperti: dove fermentano, squisitamente, citazioni in latino medioevale, in francese, in inglese e terminologìe clinico-psìcanalitiche). Il libro è una lunga introspezìone, richiedente una alienazione narcissica: e l’accanito razionalizzare sull’etemo problema carne-spifìto è condotto astoricamente, per approssimazioni ironiche, raffinate, disperate. Merce notevole, anche se leggermente quatriduana, questa del Sanguineti.
Citeremo, in fretta, datane l’inserìbilìtà nel paragrafo che abbiamo qui istituito: Saverio Valtaro, << Le passeggiate >> (ed. De Luca, con presentazione di Spagnoletti): libretto veramente delizioso, di un bertolucciano inconscio, estremamente spregiudicato e libero, di continuo imprevedibile nella sua improvvisata e così mordente finezza letteraria. E qui possiamo inserire, rimpinzando, << La madonna nera >> dell’estravagante dialettale siciliana Vann’Antò (La Editrice Universitaria, Messina), e << I miei anni >>, un delicato, disperato libro di Liliana Angeli, (moglìe di Siro, recentemente morta di tisi) - << qualcosa che ci ha fatto pensare a Emily Dickinson >>, scrive Bertolucci, presentandola nell’edizione del <<Raccoglitore >> di Parma.
Per ultimo, un libro, che al contrario di quelli qui elencati, è medio, è tipico: s’inserisce cioè naturalmente nella linea centrale della produzione ultima, benché la figura dell'autore, Cesare Vivaldi, vi si presenti come eccentrica, estrosa, segnala per elezione, C’è qualcosa di romantico nelle linee con cui Vivaldi. si ritrae ( << Il cuore di una volta >>, Sciascia, Caltanissetta), benchè con espressionìsmo amaro l’origine ideale è negli isolati liguri (da Mario Novaro, a Sbarbaro, e specialmente a Caproni): il poeta come uomo un po‘ maudit, ma virile, paesano. Sì ricordi infatti di Vivaldi il libro conformistìcamente comunista: << Ode all’Europa >>, di tre o quattro anni fa, e, insieme, La sua eccellente produzione dialettale. C’è così, in questo libro, da una parte, molta << natura >> (magari evidenziata con qualche eccesso di abilità letteraria) e dall’altra una certa esteriorìtà, un po’ fredda e quasi accademica,  di ricerca stilistica. Spia di una incertezza tra l’<< impegno >>, che rimane appunto un po’ romantico, e l’abbandono alla memoria, alla poeticità, che si presenta un  po’ privo della necessaria convinzione.


Pier Paolo Pasolini


(Trascrizione dal cartaceo curata da B.Esposito, Maria Vittoria Chiarelli e Giovanna Caterina Salice


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini - Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa

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"ERETICO & CORSARO"

Biblioteca nazionale centrale - Roma


Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa 
Pier Paolo Pasolini
16 settembre 1973
Tempo  pag. 64-65
Biblioteca nazionale centrale - Roma
***
Recensione a F. Sologub, Il demone meschino, Trad. di Pietro Zveteremich, Garzanti, Milano 1973. Il ricordo della recente lettura del libro di Sologub è in una citazione dei personaggi di Ljudmila e Sasa nell'Appunto 10 Ter. di Petrolio.
(Walter Siti)
***
Oggi anche in Descrizioni di descrizioni- a cura di Graziella Chiarcossi
con il titolo:   Fëdor Sologub, Il demone meschino




Biblioteca nazionale centrale - Roma
   Apro la finestra di vecchio legno, con dei complicati chiavistelli, e mi appare una calle, con l’acqua verde, le case rosse intorno, piccole, lavorate come oggetti, i cortili interni circondati da tetti e comignoli. Una campana suona con foga; e appena smette, eccone un’altra più lontana, come di latta, che rintocca disperatamente, a distesa. Sul piccolo marciapiede della calle, oltre la gradinata di un ponticello passano due donne, una ancora giovane, e una vecchia che si appoggia al bastone. Vanno a messa, certamente, oppure in visita mattutina a qualche signora amica, dove le attende il caffè, o un liquore dolce. Degli uomini parlano a bassa voce fra loro sulla tolda di una piccola barca, nuova, gialla, ammassata con delle altre lungo la riva di pietra. Ecco una terza campana, più lontana ancora, e più solenne, mista ad altre campanelle. È domenica mattina: non c’è dubbio, la Chiesa chiama con accenti severi, mentre la gente è stranamente leggera e lieta, senza mostrarlo. Un ardente sole settembrino che già più non scalda sembra tutto assorbire e rendere silenzioso nella sua luce... Ecco, ecco, due piccoli soldati che scendono i gradini del ponte... tre ragazzi con delle magliette molto colorate e i capelli tosati che camminano con malcelato fervore... Un gruppo di donne con un bambino, su cui si chinano tutte...

   Verso questi miei simili che vivono una giornata di vita piccolo-borghese di un’epoca finita per sempre, anche se durata solo fino a pochi anni fa, io provo un sentimento forte, intenso, carico di espressività.

   La loro vita mi appare misteriosa, si, come quella di un popolo defunto in millenni remoti, oppure come quella di un popolo di formiche, di castori. Nel tempo stesso, mi è profondamente famigliare. C’è, tra me e loro, una complicità, o un'alleanza, o un patto, che mi ha legato ad essi dalla nascita, obbligatoriamente, come il battesimo lega a una chiesa: se le parole precise di questo patto, sono andate perdute, resta la certezza di averle sapute e un vago ricordo, che è tutto. Tuttavia l’immensa quantità di cose in comune - sentimenti, necessità, abitudini, convinzioni — apparendomi in loro, mi si presenta come dotato di un altro spirito, che mai io possiederò in quella sua interezza che spiega totalmente la vita: tutt’al più potrei esprimerlo. Sono infatti scrittore: e questo rapporto di nostalgia per la intensità, la completezza, la purezza della vita - che si manifesta solo nelle vite altrui, sia in quelle tragiche che in quelle ridicole, sia in quelle povere che in quelle ricche - è il rapporto che mi permette di esprimerla. O, meglio, che mi ha permesso di esprimerla. Per molti anni, per quasi un’intera esistenza, il mio rapporto con gli uomini è stato dominato da questa idea rispettosa e sgomenta della loro necessità, al di là del male e del bene. La condizione era quella piccolo-borghese, sovrapposta ingiustamente sopra una condizione popolare. Ma ne nasceva un tutto, di cui faceva parte anche la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, di una cultura potenziale contro la cultura reale.

   Sapevo, certo, che, nell’orbita del potere, i piccolo-borghesi erano neirenorme maggioranza dei teppisti, delle persone che non avevano interesse per niente, dei conformisti criminali, dei potenziali fascisti: questo in quanto piccolo-borghesi. In essi sussisteva, però, l'altra natura, quella della classe da cui erano appena provenuti, o da cui si andavano formando, e che costituiva la maggioranza della nazione.

   Ora, in pochi anni, tutto è cambiato. Il piccolo-borghese non solo si è definitivamente distinto dalla classe popolare — prevalentemente contadina — da cui proveniva, ma, fornito di mezzi come nessuna classe privilegiata ha mai posseduto nella storia, ha cominciato, ottenendo immediatamente clamorosi risultati, a borghesizzare l’intera nazione. Resta, attaccata allo stupendo passato, con tutte le sue ingiustizie, qualche piccola isola, come questa Venezia di una domenica mattina.


Teppismo
ferocia
e volgarità

   Le caratteristiche «negative», «nere», del piccolo-borghese, si sono stabilizzate una volta per sempre: hanno perso la loro barbarie (o tendono a perderla), ma sostanzialmente sono le stesse: teppismo, ferocia, disinteresse per ogni cosa, paura, conformismo, volgarità. Nulla è più ormai al di fuori di questo. Dunque il rapporto di uno scrittore con gli altri uomini non può che essere radicalmente mutato. Ciò che rende ancora misteriosa l’esistenza umana è solo la sua volontà collettiva, con le sue scelte, riguardanti soprattutto il futuro. Ma questo non basta a far amare gli uomini, a far provare verso di essi quello slancio di innamorata curiosità, che, mista al terrore, spingeva uno scrittore a scrivere: cioè a descrivere.

   Leggo con infinito stupore un libro scritto sessanta-settanta anni fa in Russia, Il demone meschino di Sologub. Trattandosi di un vero e proprio capolavoro, tutte le considerazioni che potrei fare oggi leggendo un romanzo «di una volta », sono rese da esso immensamente più significative ed emozionanti. Sologub parla della vita di una città (che egli chiama «la nostra città»), e una vicenda dei suoi abitanti, imperniata intorno alla storia «comica» di un professore di ginnasio, Peredònov. Peredònov è uno di quei pazzi - che si trovano anche in Dostoevskij - studiati e descritti prima della psicanalisi: si tratta di un paranoico, afflitto da mania di persecuzione (che lo porterà ad ammazzare arbitrariamente uno dei suoi amici, il più stupido e innocuo): egli è un teppista, che non ha interesse per niente, un conformista così miserabile che giunge a fare la spia e a scrivere delle denunce anonime con la stessa facilità con cui imbratta e distrugge gli oggetti della padrona di casa, per pura volgarità. Come personaggio e come caso patologico, Peredònov interessa però meno che come simbolo. In esso è sintetizzato espressivamente tutto ciò che caratterizza un piccolo-borghese: e, poiché nel libro è detto ripetutamente che in gioventù egli ha letto le opere proibite, i testi rivoluzionari, come simbolo egli comprende in sé anche il piccolo-borghese di sinistra (Peredònov è stato costretto dalla sua paranoia a diventare reazionario: ma avrebbe potuto benissimo, restando quello che era, proseguire per la strada della contestazione alla società borghese zarista). Intorno a Peredònov si muove un mondo di uomini e donne in tutto simili a lui. È inconcepibile che si possa aver scritto un romanzo così crudele, dove, almeno per la prima metà, nessuno e niente si salva. Come ha potuto Sologub, che è un uomo così delicato, scrivere cosi spietatamente una storia simile? Ha potuto farlo perché egli aveva, con l'insieme degli uomini, un rapporto come quello che ho descritto qui sopra, dominato dal rispetto e dalla necessità, che ne assicurano una eterna freschezza. Sologub vuole fare un romanzo «comico»: e ci riesce, non c’è dubbio. Ci riesce perché prova un profondo piacere espressivo nell'usare i canoni di quel particolare umorismo che è l'umorismo russo, per «descrivere» i suoi personaggi e le loro azioni. È incantevole il modo con cui egli presenta i personaggi man mano che viene il loro turno. Alle volte il succedersi di questi turni è addirittura meccanico (come nella serie di visite che Peredònov va a fare ai pezzi grossi, per ingraziarseli, pronto a qualsiasi bassezza): teoricamente sembrerebbe insostenibile inserire nel racconto una dopo l’altra tutte queste scene che cominciano invariabilmente con la descrizione del personaggio e dell’ambiente che appaiono agli occhi di Peredònov e del lettore. Eppure Sologub ci riesce, con la massima facilità. Vuol dire che il suo rapporto con quelle persone è sempre pieno, intenso, carico di espressività. La vita — anche se vissuta dalla classe privilegiata di quella città russa di provincia in modo cosi miserabile - è trionfale. Infatti il fondo su cui questi piccoli mostri piccolo-borghesi si muovono è un fondo innocente: da una parte la natura, coi suoi soli e le sue piogge (sempre mirabilmente descritti, in due parole), e dall’altra quell’entità non detta, oscura, immensa che è il popolo. L’innocenza della natura e del popolo riescono a infiltrarsi fin dentro il cuore di quella piccola società che esprime il potere locale, descritta da Sologub: riesce a infiltrarsi attraverso la presenza dei ragazzi. I figli dei mostri sono degli angeli. Lo sono tutti, per partito preso. Essi, al contrario degli adulti, sono rispettosi, pieni di interesse per ogni cosa, intelligenti, razionali, ingenui, capaci di rivolta, freschi, allegri: e belli anche fisicamente. La lucidità e la spietatezza, con cui i ginnasiali giudicano gli adulti, non li priva della loro illusione sulla vita come un insieme di realtà positive e di valori. Il rapporto di Sologub con gli uomini - quel rapporto che gli permette di descriverli - è simboleggiato, nella sua purezza, dal rapporto coi ragazzi, coi «ginnasiali» (che Peredònov si diverte a far frustare, andando a spiare ai loro genitori malefatte inesistenti). Ai ragazzi Sologub concede una parte minima del suo romanzo, in pratica si limita a nominarli e riferire su loro delle notizie: non li descrive mai (eccetto uno, come dirò): sono un puro termine di paragone, una ontologia lucente di «allegri occhi». Il loro motivo viene introdotto nelle prime pagine, quando un quattordicenne ginnasiale, fratello di una delle pretendenti di Peredònov, viene notato (ma la cosa, subito, non stupisce, perché nei romanzi russi i ragazzi sono notati abitualmente, là dove nella narrativa occidentale — a meno che non siano protagonisti — sono completamente rimossi): finché, tale motivo, esplode in Sàsa. Un’amica della concubina di Peredònov che l'aiuta nelle sue manovre — il motivo comico del libro — per farsi sposare) di punto in bianco, per un puro arbitrio che resterà senza spiegazione, dice che nel ginnasio c'èe un certo Sasa, il quale è in realtà una donna travestita da ragazzo. Questa follia non sembra tale né a Peredònov né agli altri suoi simili. Non c’è dubbio che nel ripugnante eros di Peredònov ci sono molti resti di omosessualità repressa, quella delle SS, quella della polizia, ecc.: e del resto il fondo di tutto questo ambiente piccolo-borghese e pieno di una barbarie ancora recente. La notizia arbitraria sulla presunta natura femminile di Sasa, fa nascere la «seconda storia» del romanzo.

   Ci sono tre sorelle, tra le pretendenti alla mano dello scapolo Peredònov: si tratta di tre ragazze, e quindi di tre personaggi appartenenti all’ontologia felice e positiva dell universo stilistico del libro. Esse sono eternamente allegre, di una meravigliosa allegria enunciata e non spiegata. Lo sono, e basta. Una di queste tre sorelle, Ljudmìla, si incuriosisce di Sasa, vuole andare a vederlo, e tutta elegante, esageratamente profumata, col suo ombrellino, va a trovarlo presso la vecchia che lo tiene a pensione. Scoppia subito un violento, impossibile, arbitrario amore tra questa ragazza, quasi ventenne, e l'adolescentino completamente innocente: l’eros si scatena senza giungere a nessun compimento. E il corpo narrativo, che lo contiene, si inserisce di forza - con tutto il carico della sua cultura decadente, raffinata - nel corpo principale del romanzo, che quanto a cultura è classicamente russo: appartiene cioè tradizionalmente a un’area in cui si sono potuti scrivere romanzi come questo fino a un periodo molto più tardo, rispetto alla coeva narrativa europea (Babel' Platonov, fino a Bulgakov).    


Personaggi
che rinnegano
l'umorismo


Biblioteca nazionale centrale - Roma
   I personaggi piccolo-borghesi di Sologub non possiedono l’umorismo che caratterizza il loro creatore. L’hanno appena perduto. Lo rinnegano, anzi, probabilmente, come tipico di quell’universo povero e contadino da cui si sono appena distinti. Si tratta di una vera e propria abiura. Il loro riso, per essi, non ha senso se non offende qualcuno o qualcosa; o se non è ghignante esibizione della propria superiorità. L'umorismo che invece Sologub adotta ancora con tanta felicità sua e del lettore è appunto quello povero e contadino: non prende in giro e non offende nulla. È semplicemente buon umore e trasporto verso gli altri, anche i volgari e i malvagi. Nelle descrizioni del teppismo e dell’ignoranza degli eroi di Sologub, prevale, sul senso letterale, una felicità che ne condiziona il giudizio. È vero del resto che quegli eroi sono ancora pervasi da una barbarie recente, che ogni tanto li ritrascina indietro, in un mondo dove essi erano infinitamente migliori, tuttavia è proprio nelle caratteristiche formali dell’umorismo di Sologub che essi vengono liberati dal giudizio morale che grava su di loro. L’umorismo cattolico, o, prima di tutto, protestante, che si è formato come «mezzo espressivo» nel momento in cui la borghesia occidentale diventa la borghesia moderna, nel Seicento - il Cervantes, Shakespeare, Ariosto sono i modelli primi e ancora puri - non ha avuto mai la leggerezza meravigliosa ed evangelica di quello russo. 


Nessuno
riesce
antipatico

   Qui, il mondo contadino si è protratto nella sua totalità infinitamente più a lungo. Probabilmente, anzi, in potenza, nella Russia di oggi è ancora possibile un romanzo come quello di Sologub, perché la Rivoluzione ha preservato l’universo arcaico dalla borghesizzazione, e dal suo umorismo privo di felicità.

   Alla fine del libro, nessuno di questi personaggi orrendi riesce antipatico: Sologub è riuscito a compiere il miracolo di guardare lucidamente e spietatamente una realtà odiosa senza odiarla.

   Probabilmente, per tornare ai giorni nostri, questo miracolo è forse ancora parzialmente possibile: ma non descrivendo, però, i piccoli borghesi integrati, quelli dell’enorme maggioranza: il loro fascismo si è in realtà smussato in una forma di edonismo consumistico che li ha staccati per sempre da ogni epoca precedente; e i fascisti dichiarati sono dei turpi fossili. Il miracolo di Sologub si può forse ottenere descrivendo dei piccoli borghesi di sinistra, rivoluzionari: sono essi, in realtà, spesso, a essere teppisti, volgati, ignoranti, ricattatori, privi di umorismo, fanatici in superficie, cinici e simulatori nel profondo, come i personaggi di Sologub: ad avere cioè intatte tutte le caratteristiche della vecchia borghesia, dato che essi si oppongono a quella moderna e attuale, rifiutandola, almeno teoricamente. Ma, malgrado questo, è proprio tra essi che si possono trovare dei personaggi odiosi da descrivere senza odio, come ha fatto Sologub. Solo che intorno ad essi, purtroppo, manca un universo che non sia quello loro, particolare. Bisogna essere affascinati e innamorati di tutti gli uomini, per sceglierne una parte e condannarne un’altra.
 Fëdor Sologub: "Il demone meschino", Garzandi editore, lire 3mila, pagine 310 ).

  Pier Paolo Pasolini
  16 settembre 1973
Tempo

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini pedagogo - La poesia nella scuola

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"ERETICO & CORSARO"

Biblioteca nazionale centrale - Roma

Poesia nella scuola
Pasolini, Pier Paolo
28 settembre 1951
tratto da "Popolo di Roma"
Biblioteca nazionale centrale - Roma


  La poesia nella scuola ha una funzione ben chiara e precisa, anche se generalmente la si giudica con molta approssimazione attribuendole dati meramente culturali o sentimentali.
Biblioteca nazionale centrale - Roma
   A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento antelìtteram, strumento senza applicabilità, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico o ambientale. Una poesia letta di per sè (come nelle medie inferiori) o approssimativamente orientata {come nelle superiori), acquista valori diversi, si isola ‘in un tempo non oggettivamente suo, si che, pur arricchendosi di inaspettate suggestioni e di suggerimenti spesso perentorii, non rientra in una forma di cultura, nemmeno schematica, anzi è nella maggior parte dei casi la cultura falsa con cui si esce dai Licei e di cui vive poi il professionista. Ugualmente inattendibile si presenta la opinione di chi dà alla studio della poesia una qualificazione meramente pedagogica, quasi chè la lettura di un testo poetico avesse un valore di esempio, proprio nel senso plutarchiano della parola; la gravità di questo equivoco è documentata dalla scelta dei testi « edificanti » da « L’Aquilone » del Pascoli, giù fino alle latebre del più basso romanticismo. Certo, per l’imparzialità non potremmo escludere del tutto dalla lettura della poesia,  come funzione educatrice, anche un aspetto culturale (ma in tal caso sono da sfruttarsi e da chiarire quegli elementi culturali, in specie linguistici, che lievitano allo stato di pura suggestione da una lettura isolata) e un aspetto sentimentale, se però all’attributo si dia un senso rigido di « educazione sentimentale», in modo che la purezza, la generosità, la religiosità ecc, non risultino come «esempi dal contenuto di una poesia letta illecitamente a un suo stadio logico, aneddotico (a proposito, quando il crocianesimo entrerà nelle scuole? Tutti i giovani insegnanti, costituzionalmente, anche se talvolta inconsciamente, di formazione crociana, davanti a una scolaresca, per qualche ignoto complesso, sembrano riprendere la tradizione dei loro vecchi professori degni del « Cuore »); al contrario, i cosiddetti sentimenti nobili, elevati - ossia l’eco di un’umanità rivolta finalmente a interessi non pratici - deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso un’interpretazione formale, cioè girando davanti ai loro occhi , quasi con un rudimentale rallentatore filologico, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un’ordine sentimentale e un ordine linguistico.

   Se dunque da questo esame per esclusione risultano già almeno in parte i valori da scoprire nella lettura di un testo di poesia nella scuola, che sono valori soprattutto propedeutici (un testo diviene una monade in cui si concretano e trovano una forte vita fantastica, vasti e essenziali motivi culturali e psicologici) è chiaro che si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce, In termini pedagogici questo studio è strettamente complementare a quella della grammatica e della sintassi, a parte la maggiore altezza dell’ esercizio. Ecco allora che può chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza linguistica, come iniziazione all’inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell’istituzione linguistica, dell’inventum.

   Ma se si tien conto che a ogni approfondimento sentimentale, a ogni scoperta interiore, corrisponde un approfondimento e una scoperta linguistica, «e viceversa., si vedrà quale ulteriore importanza può avere una poesia il cui funzionamento sia così inteso, quando giunga a mettere in movimento il meccanismo mentale che conduce dalla introspezìone alla espressione, e quindi dall’espressione all’introspezione. Ecco un preciso compito pedagogico, addirittura profilattico nell’ordine d'ella  salute sentimentale, quando il risultato sia una presa di coscienza e un superamento dall’istinto e dell’abitudine, che conducono il ragazzo ad accorgersi di sè.

  Ma che testi poetici saranno di lettura consigliabile in una scuola media? La risposta è semplice se si pensa che devono essere soprattutto insegnamenti di lingue, esempi di metafora, di trascrizione e d’invenzione: ecco dunque che quei testi saranno da scegliersi tra quelli dei poeti viventi, che usano una lingua viva non solo come lessìco ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelte dei sentimenti da esprimersi in una tonalità che è per definizione attuale.

   L’insegnamento della poesia è dunque assai indicativo dall’angolo visuale strettamente didattico specialmente se si inserisce la questione nel giro della problematica proposta con insistenza e passione dagli «attivisti»; anzi è proprio nell’esaminare in termini didattici le caratteristiche di una lettera di poesia che la tradizione autoritaristica e l’innovazione attivistica (il metodo «europeo » e il metodo «americano », secondo le generalizzazione del Foerster) mettono in luce i loro dati profondi.

   Eben pacifico infatti che il commento di una poesia letta a ragazzi di dodici anni rischi di divenire la cosa più assurda e innaturale del mondo, se inteso e effettuato secondo un qualsiasi principio d’autorità (sia filologico che estetico, o grammaticale e moralistico); che, didatticamente, divenga imposizione. Ma è anche pacifico che un ragazzo di dodici anni non è in grado di partecipare attivisticamente (cioè con un intervento diretto di qualche efficacia o con quei mezzi che certa scuola attivistica superficiale offre gratuitamente e ingenuamente) alla traduzione di una poesia in termini logici e in parafrasi equivalenti. E’ allora equo che l’insegnante ricorra a un clemente principio d’autorità (che potrebbe essere: necessità della poesia come il più alto mezzo di comunicazione in una società e come il più certo modo di chiarificazione), e che nello stesso tempo susciti nell’allievo quella curiosità e quella passione che, naturalmente, eliminino la. fatica di un’attenzione << passiva >>

Pasolini, Pier Paolo
28 settembre 1951
tratto da "Popolo di Roma"
Biblioteca nazionale centrale - Roma

(Trascrizione dal cartaceo curata da B.Esposito

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini, Teorema Libro - «Il primo paradiso, Odetta... »

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"ERETICO & CORSARO"

Internet culturale
Teorema di Pier Paolo Pasolini, ci cala nella realtà borghese, venata di meschinità... la realtà di una famiglia destabilizzata dall’arrivo improvviso di un ospite... 


«Il primo paradiso, Odetta... »


Il primo Paradiso, Odetta, era quello del padre. 
C'era un'alleanza dei sensi, nel figlio
- maschio o femmina – 
dovuta all'adorazione di qualcosa di unico. 
E il mondo, intorno, 
aveva un lineamento solo: quello del deserto.

Internet culturale
In quella luce oscura e senza fine, 
nel cerchio del deserto come un grembo potente, 
il bambino godeva il Paradiso.
Ricordati: c'era un Padre soltanto (non la madre). 
La sua protezione
aveva un sorriso adulto ma giovane, 
e lievemente ironico, come ha sempre chi protegge 
il debole, il tenerino - maschio o femminuccia.

Tu sei stata in questo Primo Paradiso 
fino a oggi: e, in quanto femmina, 
non ne perderai mai il ricordo e la venerazione. 
Sarai, per natura, adoratrice... Ma prima 
di tornare a te, per avvertirti dei pericoli 
della religione, voglio farti la storia 
di tuo fratello, ch'è dello stesso sesso di Dio.
Anch'egli, in tempi in cui era veramente bambino,
(più bambino ancora di quand'era nel ventre materno
o di quando succhiò il primo latte dal seno)
è vissuto in quel Primo Paradiso del Padre.

L'odio sorse improvviso, e senza ragione. 
Il grembo ch'era come un sole coperto di nuvole 
dolci e potenti, il grembo di quell'Uomo 
immenso e unico come il deserto, 
divenne un oscuro fondo di calzoni, 
s'immiserì, perdette l'innocenza
nel sospetto di non essere altro che umano. 
Internet culturale
Era venuto il giorno
in cui, il puro orizzonte del deserto, si perde 
in un silenzio e in un colore meno perfetto, 
si cominciano a vedere i primi palmizi, 
e la prima pista compare muta tra le dune.

Così il bambino valicò il confine del Primo Paradiso:
che restò indietro, nel tempo; nel tempo, sognato, 
di una verde regione rigata di file trasparenti 
di pioppi - o in una grande città di provincia. 
Il bambino cadde a capofitto sulla terra, 
perdette il nome di Lucifero e prese, insieme, 
quello di Abele e quello di Caino (ciò vale almeno 
per certe terre rosa, mediterranee, e per queste, verdi, 
dove le monache a un'Odetta laica l'insegnano).

Queste terre furono il Secondo Paradiso.
Ci fu una madre (diciamola adottiva), che, nel tuo caso, 
ebbe ricche pellicce odorose di precoci primavere. 
Come fu terrestre, dolcemente terrestre, 
la sua dolcezza di bambina piccolo borghese, 
che, tutte le care cose apprese non le desidera per sé 
ma per quel suo figlioletto che le passeggia al fianco, 
anche lui tutto imperlato del fresco delle primule!

Scorreva un fiume (nel tuo caso il Po) in quel Paradiso:
perché la casa dove i genitori « adottivi » alloggiano, 
dopo il matrimonio, è sempre nei dintorni di un fiume.
O, se non è un fiume, il mare o una catena di colli.

Internet culturale
Crebbero da soli i frutti, con nomi stupendi, 
mele, uva, more, ciliege; e i fiori, gli inutili fiori, 
non contarono meno di loro: e anche i loro nomi 
erano meravigliosi, primule, appunto, o girasoli, 
o bucaneve, o mughetti, e anche, nelle feste, orchidee. 
Il sole, là sopra, era certamente una creatura amica 
addolcita dall'innocente idea che la madre 
comunicava al suo piccolo figlio stretto per mano; 
e come nasceva al mattino, moriva alla sera, 
cedendo il posto a quelle stelle che il figlio, obbediente, 
doveva appena vedere, e presto lasciare ai loro silenzi.

Ma quella madre non era innocente, com'egli credeva! 
E così lo stesso odio senza ragione - che era nato da solo, 
come un frutto o un fiore, nel Primo Paradiso – 
nacque anche nel Secondo. La nostra esistenza
non è che un folle identificarsi con quella dei viventi 
che qualcosa di immensamente nostro ci mette vicino.

Fummo così la madre peccatrice davanti al frutto 
il cui mistero risuscitava i giorni del Primo Padre
- tanto anteriori a quelli del verde Paradiso lombardo!

Internet culturale
Risplendette nuovamente il sole del deserto 
su quella piccola mela, desiderio di modeste esistenze. 
Il solito sole di ogni giorno se ne stava in disparte, 
segregato come in un improvviso dicembre; mentre l'altro,
stupendo, ardeva: misura su cui misurare secoli e miserie.
La mamma dunque, che altri non era che il proprio bambino, 
addentò con materna innocenza e figliale incoscienza 
quel frutto estivo. Subito il secondo padre, quello adottivo
- che, in confronto al primo, era come lo spento 
sole d'inverno in confronto a quello delle Prime Estati – 
seguì il suo esempio, esule uomo della terra, 
facilmente tentato e facilmente corrotto.

Ma anche con lui, noi ci eravamo identificati:
perché, in quanto noi stessi, non potevamo esistere; 
potevamo esistere solo se eravamo il padre, la madre. 
Peccammo con le loro stesse bocche, le loro stesse mani. 
E il Primo Padre ci cacciò anche dal Secondo Paradiso.

Internet culturale
Sono dunque due i Paradisi che noi abbiamo perduto! 
Stretti per mano ai genitori prendemmo le strade del mondo.
Lucifero si distinse da Abele, e seguì il suo destino 
finendo nell'oscurità più nera. Abele morì, 
ucciso da se stesso col nome di Caino. 
Insomma non restò che un figlio, un figlio solo.

Dopo molti millenni si ebbe la prima seminagione, 
e dopo un altro millennio da questo avvenimento 
fu nominato un Re padrone degli uomini moltiplicati.
Ah, quanti vasellami colorati! Dovemmo guadagnarci il pane
e questo cominciò a prenderci a noi stessi, e a perderci 
ognuno in una falsa idea di sé, nell'inferno presente. 
Per questa strada, dunque, si sta avviando tuo fratello Pietro.

Ma perché, nell'esporti questa Teoria dei Due Paradisi,
ho parlato di tuo fratello Pietro e non di te?
È semplice: perché senza la sua storia di figlio maschio
la tua non potrebbe essere confrontata a nulla,
e non si potrebbe quindi neanche cominciare a parlarne.

Non ci fu una Lucifera, né una Abele, né una Caina:
tu dunque dovresti essere restata nel Primo Paradiso. 
O almeno è quello che dovresti ricordare, col vero Padre:
ed è così, infatti: perciò sei immensamente più vecchia 
del tuo padre adottivo, di cui sei innamorata, 
di tua madre adottiva, che ha il nome di Lucia, 
e di tuo fratello Pietro, esempio dell'intera esistenza.

Con ognuno di essi, tu, poverina, ti sei identificata:
e non sai che invece sei laggiù, prima delle loro nascite, 
la sola veramente obbediente al Primo Padre. 
Cosa deve valere di più, la tua identificazione o il tuo essere? 
Tu non sai scegliere, tenera Odetta, perché sei cieca:
così sei scelta; così sei vissuta; e tu recalcitri 
inutilmente, persa tra un ricordo ch'è troppo bello 

e una realtà che ti porta dal sogno alla pazzia.

*****

Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini, Collezioni letterarie - Il Setaccio, anno III, numero 2, dicembre 1942

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"ERETICO & CORSARO"



Collezioni letterarie
Il Setaccio
Anno III
Numero 2
 Dicembre 1942
Pag. 9



   Seguire tutte le pubblicazioni che escono in questa fertile stagione libraria italiana, e parlarne compiutamente, non è cosa delle più agevoli. Oltre che per la varietà delle competenze richieste e necessarie, volevo alludere alla quantità veramente notevole di libri che - si può dire settimanalmente - ci viene offerta dalle case editrici e di cui rari sono gli esemplari non meritevoli di essere recensiti o almeno ricordati. Vallecchi, Einaudi, Bompiani, Mondadori, Tuminelli, Garzanti, Le Monnier, Sansoni, Frassinelli, Guanda etc. etc., fanno a gara a chi mette fuori i libri più tipograficamente eleganti e le collezioni più rare e scelte.

   Per questo, dato che chi voglia iniziare un esame di tale quantità di libri, non può non rimanere sconcertato, inizieremo con questa rubrica una serie di recensioni, non di libri particolari, ché il tempo e lo spazio assolutamente non basterebbero, ma appunto di intere collezioni, che sotto il nome di «Lettere d'oggi» o «Rivoluzione» o «Ventiquattresimo», gremiscono le nostre fornitissime vetrine.

   S'intende .che queste recensioni non vorranno persuadere criticamente, ma avranno puramente un affettuoso valore di promemoria. La citazione non muterà i suoi termini nel commento.

   Inizieremo con la raccolta poetica di «Letteratura», per i tipi di Parenti. In tale raccolta è subito reperibile un attributo che la distingue, voglio dire l'assenza di un'atmosfera poetica formale o almeno di contenuto umano e letterario, che allacci fra loro i libri, costituendo una specie di cenacolo o corrente (come avviene invece per «Rivoluzione» o «Lettere d'oggi»).

   Le edizioni Parenti raccolgono insomma i libri di poesia che si distinguono per una loro netta ed interiore importanza poetica, od anche culturale, cosicché si passa da Penna a Dal Fabbro, da Ghiselli a Giotti, senza per questo venir meno a una fondamentale unità. In base a questa unità, che è buon gusto e intelligenza rigorosa, si può dire che finora nessuno sbaglio - ripeto, almeno culturale - macchia questa collezione. (Bella anche nella sua purissima veste tipografica.)

  Approfondire il primo sentimento che la prima lettura di Penna ci consente, non 
è cosa agevole. Per lo più è facile cadere in una definizione («candido prodigio», «grazia poetica») che non è affatto, se non apparentemente un approfondimento critico. E così pure certe rapide analogie che trasferiscono la critica di Penna ad una sorta di ringraziamento o sensuale adesione: il suo «alessandrinismo», la «sua parentela con la prosa primesautière di Comisso, con l'ultima poesia di Saba e la pittura di De Pisis» (Sergio Solmi), che mi sembrano una schematizzazione un po' meccanica, seppure, a una prima lettura, di certo giovamento.

   Non cercherò io certamente, qui, di andare al di là del ringraziamento o sensuale adesione, e brucerò ogni tappa critica per giungere ad una conclusione già del tutto impegnativa, e cioè che in questo libretto si giunge talvolta ad accenti di vera e buona poesia. Il grado di tale poesia toccherà all'avvinto lettore di stabilire, sia che si tratti di un rassegnato risolvere il proprio dolore corporale con un moto purissimamente melodico (Mi nasconda la notte e il dolce sento), oppure cerchi di definirsi e ricompensarsi m una composizione più nettamente vigilata (Torre, Fantasia per un inizio di primavera). Poesia tutta disciolta nel suo candore, che in definitiva è purezza poetica, la cui amoralità non depone affatto in suo sfavore, se è tutta densa e pregna di precedenti sofferenze umane, che solo la poesia momentaneamente conclude. Penna, insomma, «non è uno di quelli, troppi, e veramente stucchevoli, che fanno dell'art après l'art» (L. Anceschi). La sua purezza è da cercarsi altrove.

   Non esiteremo invece ad indicare la purezza di Giotti (Colori) ad una più semplice e quieta adeguazione del suo cuore al suo linguaggio: una freschezza che è pura in quanto tale e, con conseguente estrema naturalezza si ritrova nel dialetto. (Un dialetto era quello di Saffo.) Mentre nell'altro puro, Penna, la definizione critica di tale purezza, avrà bisogno di numerosi studi con successivi approfondimenti, in Giotti è facile risalire alla sua origine.

Dal portiere non c'era nessuno. 
C'era la luce sui poveri letti 
disfatti. E sopra un tavolaccio 
dormiva un ragazzaccio bellissimo.


   Dove il riferimento a certe acerbe e dolci prosaicità crepuscolari non ci possono accontentare per la verginità di Penna. Ma a versi come questi:

Ga piovù; e avanti sera 
ga dà un colpo de vento. 
Ormizado a la riva,
un picio bastimento 
con un spontier longo, salta 
su la mareta blu. 
Se vedi in fondo i monti. 
E l'istà no' xe più.


cosa aggiungere?


   Tale nuda e candida purezza reperibile sia in Penna che in Giotti, e differentemente risolta nelle due poesie, è completamente scomparsa, direi bruciata, sebbene ancora in maniera diversa, in altri due poeti della stessa collezione: Ghiselli e Dal Fabbro.

   In maniera diversa, ho detto, e volevo significare che nel primo il cuore urge troppo nella poesia a intorbidire il linguaggio, e nel secondo ogni freschezza o purezza viene abolita da una eccessiva malizia di riferimenti letterari.


   «Il primo passo sempre stentato di Ghiselli e insieme il suo salire unanime in ogni verso è quanto di più struggente, di più ingenuo e contraddetto la giovane poesia ci abbia lasciato in questi anni...» (A. Gatto). Stando così le cose, Ghiselli sopravviverebbe attraverso un documento puramente umano di una sofferenza non solamente umana. La sua immagine, cioè, si conterrebbe nei limiti di un'evasione, o confessione, in perpetua ricerca del suo linguaggio, del mestiere: «E m'incantavo, qualche volta ero triste, perché mi sentivo disarmato e inverosimilmente povero, difronte all'esperienza (dei Con· temporanei), alle loro scuole o gruppi», e poi « ... ma esaminando la mia vita già tanto povera di significati, tornavo a credere, a illudermi, a sperare». Un perpetuo ricorso dunque alle sorgenti umane della poesia: sicché sarà facile trovare sempre, «al di là delle gracili trasparenze letterarie di cui a volte i versi sono come infiacchiti e anelanti una fondamentale libertà d'animo, una continua sostanza ... », insomma «il qualcosa che sarebbe venuto a prendere il posto del tanto invocato mestiere». E allora, in questi momenti, si ottengono dei risultati sinceramente poetici, ed anzi dei frammenti veramente potenti, appunto per questo urgere e gravare dell'umanità fisica e sofferente, che nel linguaggio non si disperde, né, in un certo senso, si purifica. Per Ghiselli mi torna il nome di Michelangelo poeta. Infatti, si confrontino con alcuni versi irrisolti e poderosi di Michelangelo, alcuni versi del Nostro.

dovrei disfare il tetto e poi le mura,
discendere a trovar le fondamenta 
e poi ricostruire- un'altra torre.


e ancora:


Fammi le mani colme: fammi noto 
il destino perché possa 
come il martello sopra la campana,
fulminare il silenzio in me sopito.

Torna ad esser sorgente, dura pietra,
mazza, scalpello, forma che diviene.
Riporta l'apra Tua dentro le vene 
nostre, sino a quando s'avverta il rombo 
del Tuo silenzio accompagnare il sangue.

   Insomma, Ghiselli perviene ad espressione di vera poesia, allorché «i suoi versi anelano con la propria forza impacciata e gentile, all'estrema fatica con cui la coscienza, l'esperienza e l'idea della vita diventano semplicemente la vita, e la poesia uno specchio di cose create, un oggetto» (A. Gatto).


   Per Beniamino Dal Fabbro, stimato da me come uno dei più onesti e appassionati letterati italiani, mi spiace non poter accogliere lietamente il suo Villapluvia. È un libro che scoraggia, in cui l'amore approfonditissimo di Dal Fabbro per la recente poesia francese e italiana, viene scontato dolorosamente. Il linguaggio mi pare una ricostruzione - qua e là felice - di tesi e di gusto, in cui la freschezza è  na dolorosa malizia. Ho detto quella ch'io credo la verità, brutalmente: sono questi soprattutto i casi, dove i mezzi termini sono disonesti.

   Di Glauco Natoli, vorrei parlare più diffusamente di quel che lo spazio rimastomi mi acconsenta. Forse per una limpida simpatia umana che dal suo libro spira. È un poeta che, rischiando continuamente i pericoli di Dal Fabbro, si salva in merito della propria seria ed affettuosa giovinezza, che, dalle prime un po' rudi reminiscenze montaliane: («Aspra è la terra e spacca l l'esile radica attorta; l vita: una cosa già morta l che dondola sulla risacca»), lo riporta ad una dolcezza distesa e molle di rievocazione («Ma pure vivo: memore dei segni l per cui l'alba si sbianca l nel declino degli astri, l al grido mattutino degli uccelli»), che lo riallaccia a certe più recenti esperienze poetiche (Gatto, Sereni etc.).


Pio
(In questo art. Pasolini si firma Pio)


Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.

Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna

Biblioteca Cantonale di Lugano  



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Pasolini da la sua versione - La mia avventura a Panico - Un articolo dimenticato.

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"ERETICO & CORSARO"

Biblioteca nazionale centrale - Roma


Pasolini da la sua versione
La mia avventura a Panico
Un articolo dimenticato.

Una lettera di Pier Paolo Pasolini
“La mia avventura a Panico” 
5 luglio 1960
"Popolo di Roma"
Biblioteca nazionale centrale - Roma

*****
A seguire:
La lettera di Pasolini
Un breve cronaca giudiziaria
Un commento di Maria Vittoria Chiarelli

La mia avventura a Panico

Pier Paolo Pasolini ha dato la sua versione dei fatti a sua tempo accaduti in via Panico in una lettera al direttore di «Paese» e «Paese Sera» pubblicata ieri dal nostro confratello del pomeriggio e che riprendiamo per i nostri lettori.

  Caro direttore; inutile ricapitolare. le cose son note. Ma male. Le scrivo questa lettera di precisazione, perchè vorrei che almeno i suoi lettori fossero informati bene. Ecco telegraficamente. come sono andate le cose:
Biblioteca nazionale centrale - Roma
    Percorro Corso Vittorio, diretto verso casa (sono poco meno delle una di notte), quando sento un fischio e una voce; «A Pa'!» Guardo indietro, e vedo il Tedesco, un giovane di Trastevere, vecchio amico mio, che incontro quasi tutte le sere. rincasando, da quelle parti; è con un Suo compagno, il Picchio, che conosco solo di vista. I due vengono quasi di corsa verso la mia macchina, con «la faccia stupita, sorridente e cordiale delle grandi occasioni: la grande occasione è la mia Giulietta TI, nuova, che ho da pochi giorni, e che il Tedesco vede per la prima volta (mi aveva visto prima in bicicletta, poi con una seicento di seconda mano, poi con una millecento): e quindi accorre per congratularsi. Subito, naturalmente, mi chiede anche di provarla. Non più di cinque minuti,  eh! Ché ho sonno!» gli faccio. «Sì. cinque minuti, cinque minuti!» e monta. con Picchio.
   Fatto il giro di Largo Argentina, e comprato il « Paese Sera », quello con i miei 180 endecasillabi secondo l‘orazione di Marcantonio - che il Tedesco già nel pomeriggio aveva visto, naturalmente senza tentare d'affrontarli - imbocchiamo di nuovo Corso Vittorio: piano piano giriamo per la zona. Si tratta soltanto di provare la macchina. quindi non c'è meta: imbocchiamo via delle Campanelle, e poi via Panico.
   Là in fondo, all’altro angolo, verso via dei Coronari, cosa succede?
   Una ventina di persone, che urlano, gemono. invocano: si sarà fatto male qualcuno? Una lite in famiglia? Accendo gli abbaglianti, e compaiono, bianchi come tanti fornai, dei vecchi e delle vecchie, mezzi nudi o in mutande, che corrono qua e là, come agitati dalla briga infernale: mi avvicino. E‘ una colluttazione tra due giovani, in mezzo a questo coro scomposto di vecchi: un maschio e una femmina.  «Saranno un fratello e una sorella - penso - o due fidanzati...».  Essi si stanno colpendo furiosamente, afferrandosi per la gola e urlando. E' un attimo: il Tedesco accanto a me, grida: «Quello è il Barone. lo conosco…. ». «Scendi e portalo via! gli dico subito. E' chiaro che bisogna dividere i due, subito, quelli son capaci di farsi chissà che cosa, conosco i miei polli, e benché nel leggero trauma che mi danno gli urli di tutta quella genie in mutande, non ho il minimo dubbio su questa prima necessità. Il Tedesco è altrettanto rapido, scende, afferra per le braccia il giovane e lo spinge con forza dentro la macchina. La giovane continua a urlare, la sua voce si confonde tra gli urli degli altri: metto in moto e parto.
Biblioteca nazionale centrale - Roma
   Così il giretto in macchina continua, col Barone. E' agitato, ansimante Ha una faccia bruna, fine e abbastanza gentile: è anche pulito. Con voce un po‘ rotta, dice in due parole come è andata, né io insisto, perché, tutto sommato, la cosa, a prima vista mi pare abbastanza banale, roba vecchia... In una casa di via Panico, vicino a casa sua, son venute a stare due di quelle (così egli mi dice), frequentate da degli amici: tra loro e la gioventù di via Panico, la situazione è alquanto tesa (lo credo: andare a stare lì è come mettere un dito in un vespaio), quella sera si sono presi a parole, una parola tira l'altra, dalle parole sono passati ai fatti,  ed è nata la rissa. tra le due donne e i loro accompagnatori e i ragazzi della strada, botte, cazzotti, strilli delle madri e dei padri... Poi il mio arrivo di inaspettato pacere in Giulietta.
   Presto il Barone, ch‘è un ragazzo di vita, si calma, e il sorriso torna sulla sua faccia: continuiamo il giro, chiacchierando del più e del meno, e, infine, il Tedesco e il Picchio, scendono nel punto dove li ho presi. Col Barone prolungo ancora un po’ il giro, pensando che ancora, là sotto casa, a via Panico, le acque non si siano del tutto calmate: ma dopo una decina di minuti. punto decisamente da quella parte. E‘ ora di andare a dormire, si avvicinano le due.
   Arrivati però in fondo a una delle stradette di Borgo Panico, immersa nel suo povero, antico, buio, vediamo che, laggiù, all’angolo della via Panico, si muovono delle figure: sono quelli che i giornali chiamerebbero «giovinastri». che sostano lì, in silenzio, con aria poco rassicurante. Sono preoccupato io, e vedo che è preoccupato anche il Barone, «Vedo che qui non tira aria ancora tanto buono» dico. Ho paura per lui, e anche un po‘ per me. lo confesso: potrebbero essere amici delle ragazze, parenti, che si vogliono vendicare.
   Basta: rigiro la Giulietta e punto verso Trastevere. a un baretto vicino a Ponte Garibaldi, che sia aperto fino a tardi, e dove so che indugiano fin tardi, nelle notti calde, il Tedesco e gli amici. «Ti lascio a quei baretto, e a casa ci andrai da solo fra un po‘..… Io adesso me ne vado a dormire…». E così, davanti al baretto scintillante sui vecchi sampietrini di via dei Re, lo saluto, e salgo a Monteverde.
La Stampa 30-06-1960
   La mattina dopo alle sette, mentre dormo ancora perdutamente, la porta della mia cameretta si apre, irrompe una luce innaturale, che mi sveglia, e vedo la faccia di mia madre: e dietro a lei altre facce, sconosciute. Una faccia sfilata e nera, di giovane uomo, ironica e sfuggente, una faccia di ragazza anemica e crudele, un‘altra faccia maschile anonima e un po’ ammaccata. Una voce mi chiede: «Lei ha assistito a una rissa ieri sera a Panico?». Capisco di che si tratta. e rispondo subito di si, togliendomi la cera dalle orecchie e vestendomi.
   Mia madre è spaventata, mi guarda con una angoscia di bambina negli occhi: in tutto quest’affare niente in fondo mi duole o mi importa. Sono cose che accadono. e quando accadono vanno affrontate con coraggio, e quasi, direi, con allegria.  Ma c‘è mia madre. ch’è rimasta una bambina friulana, e la sua paura, il suo dolore, mi fanno perdere la testa, mi svuotano, mi fanno venir voglia  di morire.
   Mi alzo, mi vesto in un attimo, e seguo coloro che son venuti a prelevarmi, come un ladro: mia madre resta sola a casa, non so dire cos‘erano i suoi occhi e il suo viso in quel momento, quando sono uscito dalla porta.
   Fuori, nell‘atroce solicello del mattino acerbo, dei poliziotti, e due cani: uno è il cane Dox. passa anche - non so se per caso. la «pantera» l‘«Alfa millenove» della polizia, Il guardiano notturno del garage, il padrone del baretto sotto casa, che si sta aprendo, mi guardano spaventati. Salgo coi due borghesi, la donna e i cani nella mia famosa Giulietta, e insieme arriviamo al Commissariato Ponte. che è nello stesso edificio della Questura Centrale.
   Sono introdotto, e mi trovo nello squallido ufficio del commissario, un uomo alto, grosso, con dei leggeri baffi e gli occhi amari, che subito mi investono come colpevole di non so che cosa: seduti su un divanetto di cuoio, lì davanti, sono i tre - che sono venuti a prelevarmi dal letto, e una seconda ragazza, procace. La prima ragazza - che è coi famosi calzoni attillati - e che ora realizzo essere la colluttante della notte - ha cambiato faccia: è gialla, gli occhi le brillano furiosi e isterici. Mi accusa: è lui, è il complice, non ha portato via un ragazzo ma due tre…. li ho visti io coi miei occhi. ha portato via tutti quelli che mi hanno aggredita...
L'Unità 30-06-1960
   Io cerco di restare calmo: ma qui siamo al processo delle streghe. Come arrestare quella eruzione di accuse, totalmente inaspettate, non so. Mi vien quasi da ridere: «Ma signorina, io sono uno scrittore, non ho bisogno di aiutare dei ladri a rubare una catenina...».
   E cerco di raccontare al commissario come sono andate le cose. Ma ho l‘impressione di non essere affatto creduto. Allora dico che con me c'erano, nella macchina due persone, che vengano interrogate: la loro versione combacerà certamente con la mia... Chi sono queste due persone? La dico subito. Sono certo che il Tedesco non me ne vorrà, se trascino anche lui nel pasticcio.
   Così.. tre agenti in borghese e io, partiamo seguiti dalla campagnola, per Trastevere, sotto il solicello ormai cocente.
   Arriviamo a piazza Renzi, io imbocco lo scrostato portoncino dove abita il Tedesco: non sono mai entrato. non so l‘interno dove abita, lo cerco, lo chiamo, c‘è un cortiletto interno, vecchio come il Colosseo, coi muri così usati che paiono di cartilagine, sotto la vampa del sole mattutino. Lì una donna lava i  panni, a una fontanella scrostata.
   E‘ la madre del Tedesco, lo capisco subito. Com'è diversa dalla mia: resta indifferente, calma: un‘antica esperienza le si dipinge negli occhi, passivi, rassegnati, duri. Lascia. che le portino via il figlio. senza smettere di lavare: e il Tedesco, mezzo nudo e assonnato, lascia quel suo stanzone invaso dal sole, quel suo romito cortiletto, quella sua madre che tace. Ma guardandola, i suoi occhi sempre allegri e malandrini, hanno un breve sgomento. un’ombra…
   L‘altro, il Picchio, non è in casa, dove, in questi giorni, vive solo.
La Stampa 03-07-1960

   Torniamo al commissariato: qui il Tedesco e io siamo divisi. Aspetto in uno squallido; stanzone per quasi un‘ora e mezza, con un‘angoscia che non so dire al pensiero di mia madre sola a casa.
   Alla fine sono richiamato nell‘ufficio: lì c'è anche il vice-questore, gentile: l'atmosfera intorno a me è cambiata.
   Non sono più un delinquente comune, da cane Dox. Rìpeto la versione dei fatti, che poi viene verbalizzata. Posso andarmene.  Subito, fuori, nel fuoco del sole ormai a picco, ci sono i fotografi: e comincia, a questo punto, la mia vera disavventura.
   Ripeto: sono disposto ad affrontare, qualsiasi inconveniente dovuto al mio carattere troppo curioso e impulsivo, e qualsiasi incerto del mestiere. Ma quello che mi continua a dolere è, per dirla con eufemismo, la cattiva informazione:  la campagna del discredito, che rivela la profonda immoralità degli individui che vi si prestano, oltre che la profonda immoralità della società in cui viviamo. Per questo, caro direttore, le mando questo telegrafico referto, che impegna pubblicamente la mia firma di scrittore, attendibile almeno davanti ai suoi lettori...
PIER PAOLO PASOLINI

(Trascrizione dal cartaceo curata da B.Esposito)

L'Unità - Domenica 3 luglio 1960

Fatti di via Panico
cronaca del procedimento  giudiziario

29.06.60 Fatti di via Panico. Fermo per interrogatorio al commissariato. 
30.06.60 Fatti di via Panico. Denuncia della polizia diretta al procuratore della repubblica di Roma. 
02.07.60 Fatti di via Panico. Notifica di una convocazione davanti al procuratore della repubblica per il giorno 04.07.60. 
04.07.60 Fatti di via Panico. Interrogatorio davanti al P.M. 
22.03.61 Fatti di via Panico. Notifica del decreto di citazione in giudizio davanti al tribunale di Roma. 
20.04.61 Fatti di via Panico. I udienza. Rinvio a nuovo ruolo. 
06.06.61 Fatti di via Panico. Notifica di un nuovo decreto di citazione. 
01.07.61 Fatti di via Panico. II udienza. Rinvio a nuovo ruolo. 
30.09.61 Fatti di via Panico. Notifica di decreto di citazione. 
15.11.61 Fatti di via Panico. III udienza. 
16.11.61 Fatti di via Panico. Sentenza di I grado e appello dei difensori (Avv. Roscioni e Berlingieri) contro la sentenza. 
05.12.61 Fatti di via Panico. Notifica della dichiarazione di appello del procuratore generale contro la sentenza di I grado. 
18.12.61 Fatti di via Panico. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza di I grado. 
13.10.62 Fatti di via Panico. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte d'appello di Roma. 
30.01.63 Fatti di via Panico. Udienza di corte d'appello e rinvio a nuovo giudizio. 
10.04.63 Fatti di via Panico. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di appello di Roma. 
05.07.63 Fatti di via Panico. Udienza di corte d'appello. 
14.03.64 Fatti di via Panico. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado.
Stampa Sera 06-07-1960


Maria Vittoria Chiarelli:

No, non è un racconto noir 

"La mia avventura a Panico": 

a dirla tutta, il suo autore, Pier Paolo Pasolini, non avrebbe voluto scriverlo, ma è stato costretto dalle circostanze che, se non avessero comportato delle conseguenze dal sapore amaramente persecutorio, avrebbero potuto essere annoverate in uno spiacevole fatto di cronaca tipico di borgata, magari a tinte forti, dai toni chiassosi, dalle dinamiche esagerate, ma fortunatamente non degenerate in un omicidio. 
Sicuramente anche grazie all'intervento di Pasolini, che proprio quella sera aveva ceduto alla richiesta di un suo giovane amico di Trastevere, denominato il "Tedesco", che incontrava sempre tornando verso casa, di provare la sua nuova auto, una Giulietta TI. 
Aveva molti amici Pasolini nelle borgate e l'attrazione passionale e conoscitiva verso quell'umanità che viveva alla giornata, innocente e malandrina, abituata ad arrangiarsi , in perenne conflitto con la miseria e pronta a tutto pur di rimediare qualche soddisfacimento materiale, gli era cresciuta dentro dal germoglio di un amore poetico verso la realtà che, nato nella terra materna in Friuli, si era alimentato di innesti fecondi nell'ambiente romano, dove ogni esperienza diretta di contatto umano si traduceva in lingua e stile, dando vita a poesie, racconti , romanzi, e non solo...Già in quell'anno 1960, Pasolini lavorava al suo primo film, dal titolo emblematico di "Accattone", sceneggiato e diretto da lui stesso. Ecco che sempre più l'ambiente sottoproletario, grazie a lui, diveniva visibile, solleticando il razzismo latente della mentalità piccolo-borghese italiana, che non gli perdonava quel suo coinvolgimento così viscerale, quel desiderio rovente di rendere poetico l'abietto, di scorgere la luce nelle tenebre di vite miserabili. Si percepiva con fastidio che il suo non era "neorealismo" che condannava uno stato di cose, un'arte solo meramente puntata verso la denuncia, era maledettamente qualcosa di più e, soprattutto, qualcosa di diverso: era presenza viva nel mondo, era visione, era mito primigenio che si affacciava alla storia, questa volta non più raccontata in
maniera simbolica, ma attraverso la realtà che è metafora di se stessa. L'episodio di via Panico, la sua assurda dinamica, fa riflettere sui rapporti che la società italiana , attraverso le sue istituzioni, stabilirà con un intellettuale che ne porrà in evidenza tutto il bieco perbenismo e la conseguente volontà persecutoria, in nome di falsi e razzistici principi morali. 
Quella notte tra il 29 e il 30 giugno del 1960, Pasolini, per aver imboccato via delle Campanelle e poi via Panico, per aver assistito con abbaglianti accesi ad una rissa tra due giovani, per la precisione un maschio e una femmina, che si colpivano furiosamente afferrandosi per la gola, il tutto condito da uno scippo di un anello con granati del valore di lire 24.000, di una catenina e di un orologio d'oro, subito dalla ragazza e da un suo amico ( con una ventina di persone urlanti intorno), e aver sollecitato il Tedesco, il quale aveva riconosciuto nel ragazzo della rissa una sua vecchia conoscenza, cioè il "Barone", ad intervenire subito, strappando quest'ultimo alla lite e trascinandolo nell'auto, verrà etichettato dalla stampa come appartenente al mondo criminale. Si trovava per caso, Pasolini, in via Panico, nessun "sopralluogo" intenzionale lo aveva condotto in quel posto: un cittadino come altri che si è trovato a soccorrere un altro essere umano, senza calcolare preventivamente la sua
classe sociale di appartenenza...era una persona in difficoltà e Pasolini ha agito mosso dall'istinto delle persone generose e, a livello di coscienza, con un alto senso di presenza civile nel territorio: ma guarda caso, quel cittadino, non era uno qualunque, era proprio "quel" Pier Paolo Pasolini, scrittore anomalo, in odore non di santità letteraria, ma di omosessualità, come i precedenti fatti di Anzio avevano evidenziato, che per svolgere il suo lavoro, si immedesimava con l'ambiente osservato, viveva la stessa esistenza dei suoi eroi, o meglio "antieroi", dimostrandolo già con la pubblicazione nel '55 di "Ragazzi di vita", romanzo che era stato sottoposto a giudizio per oscenità. Era ignorato completamente e, volutamente, il confine tra realtà e la sua rappresentazione, la sua riproduzione attraverso l'arte. Già, proprio in Italia, la terra con tanti esempi di realismo in letteratura. Ma il realismo di Pasolini possiede una cifra diversa: è intessuto di "soggettive" poetiche che introiettano la realtà, restituendola "trasumanata", illuminata da quel sole onirico che si tramuta in coscienza, una "luce" reale che ha sempre costituto il problema del suo cinema di poesia, la "lingua scritta della realtà" , come ha teorizzato appunto Pasolini. Ci si sentiva, pertanto, legittimati, non tanto ad indagare, prelevando dalla propria casa e di buon mattino, un cittadino che aveva sottratto un giovane ad una rissa che poteva degenerare in un omicidio, che era cosa normale per appurare la dinamica dei fatti, quanto a sospettare che quello stesso cittadino, proprio perchè rispondeva al nome di Pasolini, poteva in qualche modo essere coinvolto come colui che, volontariamente, aveva voluto sottrarre un criminale alle indagini della polizia.
Ma chi era il "Barone"? Il suo vero nome era Luciano Benevello e la vicenda com'era andata realmente con il suo pregresso, fino all'arrivo di Pasolini in via Panico, in compagnia del Tedesco e di un amico di quest'ultimo, soprannominato il Picchio, è raccontata nel libro "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte " ( ...'<<in un paese orribilmente sporco>> ), a cura di Laura Betti, edito da Garzanti nel 1977. Ciò che a noi interessa, è l'aura funesta e denigratoria che è stata costruita intorno alla persona di Pasolini, attraverso l'assunto dell'identificazione arbitraria della realtà con la sua rappresentazione che diventa oggetto di scandalo, come scandaloso è chi racconta la verità ruvida e urticante di quella realtà. Fu così che il 15 novembre 1961, quasi un anno e mezzo dopo i fatti, Pasolini viene processato dalla seconda sezione penale del tribunale di Roma , assieme ad altre tredici persone accusate di rissa e furto. È imputato di favoreggiamento: di aver preso a bordo della propria automobile uno dei contendenti , Luciano Benevello, detto il Barone, allontanandolo dalla via Panico, luogo della rissa, e sottraendolo alle indagini della polizia.
A poco servì la testimonianza calma e lucida di Pasolini che, la mattina seguente , spiegava con dovizia di particolari ciò che era avvenuto la notte precedente, al commissariato di Ponte, il cui commissario capo Baldinotti, nella sua denuncia alla procura della repubblica di Roma, così scrive: " Si ha fondato motivo di ritenere che il Pasolini abbia voluto deliberatamente e con piena consapevolezza agevolare , sottraendolo alle indagini della polizia, il Benevello Luciano amico del giovane e non meno losco amico col quale il brillante scrittore si accompagnava nella scorribanda notturna attraverso la via Panico, una delle strade più malfamate della città. La colpevolezza del Pasolini appare piena, netta e inequivocabile ove si consideri che neanche agli appelli della ragazza egli volle dare ascolto, allontanandosi invece rapidamente". Pertanto Pasolini viene rinviato a giudizio. La stampa si sbizzarrisce nel definire ogni aspetto violento e torbido degli strati popolari marginali della società come "pasoliniano", come "pasoliniani" sono i ragazzi dell'irrequieto quartiere dei ladri. La figura pubblica dello scrittore sarà completamente condizionata da questo tipo di giudizio che raggiunge i toni del dileggio e dell'ironia piccolo-borghese a buon mercato nella lettera aperta a Pasolini del settimanale democristiano <<La Discussione>>, dove si legge : " Gentile Signore, ho letto con interesse la sua autodifesa dopo, l'avventura in via Panico o Panico...C'è un fatto che non ho afferrato: perché Ella metta tanto impegno a scagionarsi. Non mi creda uno sciocco. Ma che differenza avrebbe fatto per Lei se il ragazzo o i ragazzi saliti a bordo della Giulietta, cui le dà accesso la sua professione di scrittore, avessero veramente <<scippato>> la collana o la borsetta alla ragazza? Non li avrebbe salvati ugualmente, anche sapendolo, dalle guardie? Non é forse vero che questi rappresentano in carne la società crudele, corrotta e sopraffattrice, e i ragazzi di vita, le sue vittime, crudeli anch'essi magari, ma con nel cuore il germe della resurrezione?

E non avrebbe dunque Ella posto il suo impegno a salvare questi boccioli di speranza dalla furia tetra e stupida dell'Ordine con la O maiuscola di questa società formalistica?... Forse che quella società che lei stuzzica frustandola, Le abbia trasmesso, con la Giulietta TI, anche i germi della rispettabilità? Se ne liberi o cesserà di piacerLe! " . I fatti di via Panico danno il via all'identificazione di Pasolini con la figura del fuorilegge, immagine che sarà a breve rafforzata oltre che da "Accattone", il suo primo film, il cui autore è definito dal Secolo d'Italia, <<un insieme di materia bruta che si regge verticalmente soltanto per uno di quegli scherzi della natura che come crea uccelli marini e pesci volanti così crea 'mostri umani'>>, anche dalla sua partecipazione al film di Lizzani, Il Gobbo, dove interpreta un criminale monco con il mitra spianato. La storia di via Panico è fatto troppo ghiotto per le gole scandalistiche e morboso per non riempire le prime pagine, con tanto di fotografie e titoli su quattro e anche cinque colonne. <<Il Tempo>> scrive: "Per aver così veristicamente e intimamente vissuto le esperienze dei ragazzi di vita e delle vite violente, Pasolini era in un certo senso destinato ad assaporare tra le altre anche l'emozione di un fermo di polizia". Alfredo Todisco su <<La Stampa>>: "Chiaramente, tra la vita personale dello scrittore ed i fantasmi della sua creazione letteraria vi é una compenetrazione singolarissima, al segno che i fatti in cui ora appare coinvolto sembrano un capitolo dei suoi romanzi". Per il settimanale <<Gente>, Pasolini e la figura del "ragazzo di vita" si sovrappongono e così intitola l'articolo sulla rissa: " Il ragazzo di vita l'ha fatta proprio grossa".
Anche i giornali più obiettivi, fra i quali quelli di sinistra che sostengono la buona fede di Pasolini, insinuano elementi del sentire comune, come l'inopportunitá di "essersi messo in mezzo", di girare di notte in zone poco raccomandabili, giustificandoli poi con una tiepida comprensione di dubbia natura, quando si pone l'attenzione sulla "necessitá di lavoro" e ,quindi, di mero guadagno: Pasolini "doveva" frequentare quei luoghi particolarmente degradati, per prendere dal vivo materiale utile per le sue opere. Una giustificazione che lo stesso Pasolini sarà costretto ad ammettere rassegnato, pur di chiudere la questione davanti al presidente del tribunale: "Come mai Lei quella notte si trovava a così tarda ora in strada?" E Pasolini :" Facevo una passeggiata per raccogliere le impressioni sull'ambiente destinato a fare da sfondo a un'opera letteraria che dovevo scrivere". Le pagine di "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte" mettono in evidenza come le disfunzioni tipiche del sistema giudiziario abbiano favorito la massiccia operazione stampa, che oggi chiameremmo la "macchina del fango". Le lunghe fasi processuali sono così sinteticamente riassunte: "Il processo per la notte di via Panico...viene fissato, rinviato a nuovo ruolo a causa di alcuni errori nel decreto di citazione, ancora fissato, ancora rinviato per uno sciopero di cancellieri, celebrato in prima istanza, fissatodue anni dopo in seconda istanza, ancora rinviato, ancora fissato...Ognuna di queste scadenze giudiziarie alimenta la fame insaziabile della stampa. Il processo di criminalizzazione dello scrittore ad opera dell'Associazione Stampa-Magistratura funziona perfettamente.
Il 16 novembre 1961 il tribunale di Roma assolve Pasolini per insufficienza di prove. I giudici, prigionieri della morale borghese secondo cui l'amico del cattivo non può non essere egli stesso cattivo, trascurano la realtà dei fatti per rifugiarsi nel dubbio <<sulle intenzioni>>. Lo scrittore agì - come dovrebbe essere logico - per separare due litiganti o piuttosto oer sottrarre un ragazzo di borgata alle indagini della polizia? Della gratuità della seconda ipotesi è solida riprova il fatto che Benevello non si era minimamente sottratto alla polizia che lo trovò infatti a dormire nel suo letto, a casa sua. Per questa sola realtà il tribunale avrebbe dovuto assolvere Pasolini <<perché il fatto non sussiste>>. La sentenza
d'appello, il 5 luglio '63 scopre addirittura che la rissa - giuridicamente - non è mai esistita e di conseguenza assolve Pasolini con formula piena". Quasi tutta l'opera di sarà di Pasolini sarà segnata da segnalazioni, da denunce alle Procure, da processi : 33 in tutto. Un bilancio amaro per aver amato la realtá alla quale è sempre stato fedele, misurandosi con le proprie contraddizioni, sempre razionalizzate attraverso il "logos" , in un progressivo lavoro di analisi, coniugando i drammi irrisolti della propria personalità con l'evolversi delle condizioni storiche, sempre avvertendo dentro di sé l'obbligo della conoscenza, come Edipo. A distanza di anni, Pasolini ricorderà le vicende che gli hanno segnato profondamente la vita, tra cui i fatti di via Panico, che non furono i primi e neanche gli ultimi a fargli toccare con mano la mancanza totale di libertá di giudizio sia del mondo della cultura, che delle istituzioni, come anche di larghi strati della popolazione, troppo spesso trascinati nel vortice di un conformismo acritico e superficiale. 
In "Trasumanar ed organizzar" Appendice , nei versi che portano il titolo di "Comunicazione schizoide all'Anac", Pasolini parlerà di "aspetto infernale della realtà", riferendosi anche alla vicenda grottesca di via Panico:


[...] Dovete sapere 
Da parte del soggetto che vive le 
cose, e non le rivive, 
attraverso le informazioni, la 
realtà ha sempre un aspetto 
infernale. 
Fu nell’Inferno che una corte mi 
condannò 
per aver diviso due litiganti 
(adesso ogni volta che vedo 
gente che litiga, taglio la corda. 
Grazie, Patria, 
per avermi insegnato a tagliare la 
corda e commettere 
almeno in caso di rissa – reato 
d’omissione, che nessuno 
m’imputerà. 
È stato nel mio Inferno, 
non ancora in quello della 
Repressione, 
che un Pubblico Ministero 
(commedia dell’arte) 
mi accusò di voler fondare una 
nuova religione 
sostenendo che: 

Stracci ejaculava fuori campo. 

Inoltre fui condannato per 
essermi messo un cappello nero 
in testa, essermi infilato dei 
guanti neri 
nelle mani, aver caricato con una 
pallottola d’oro
 una pistola, e così aver rapinato 
un cristiano di duemila lire. 

In altre parole sono stato 
condannato per un’azione 
accaduta nel sogno di un altro. 

Accennerò solo di sfuggita 
a un’altra condanna subita 
per aver consegnato una 
sceneggiatura 
che essendo apparsa brutta e 
scandalosa 

Il produttore disse di non aver 
potuto fare il suo film 
perché la mia sceneggiatura era 
brutta e scandalosa, 
e pretendeva quindi i danni. Il 
tribunale gli diede ragione!! 

Cari, colleghi, questo è un 
precedente: e siamo nel ’62 o ’63. 

Il Libro Bianco delle Sentenze 
stilato contro di me dalla 
Magistratura Italiana 
sarà il libro più comico 

Per me è stata una tragedia: 
ma non temete. Fingo che le mie 
spalle siano fragili: 
in realtà sono più forti di quelle di 
Simone. 
Ma fatemi fare il bravo cittadino 
per qualche mese 
se no, non potrò fare più il cattivo 
cittadino per tutta la vita. 


(Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar. Appendice)


.
Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro

Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice

Ragionamento sul dolore civile

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"ERETICO & CORSARO"



Ragionamento sul dolore civile
Pier Paolo Pasolini
Il Setaccio,
anno III,
numero 2,
Pag. 3

dicembre 1942



   Il pensiero dell'infinito ci ha ormai distaccati dalle umili ed affannose tradizioni dell'esistenza famigliare; già il fiume, il bosco, il prato e la vigna che protessero l'infanzia delle nostre madri e di noi, sono fissati dietro i nostri passi, da una ferma nostalgia, da un sogno che non muta. Di sera, andiamo nel nostro campo o nella nostra casa, e lì - tremando - ascoltiamo battere il tempo ed affiorare gli anni e le voci; così, lentamente, nei nostri dolcissimi luoghi, ci edifichiamo il sepolcro.
   L'infinito che -nelle spoglie dell'ignoto e dell'immenso-ha nei secoli tratto gli uomini al moto, ora giace stanco e chiuso nei propri confini, davanti a noi che non abbiamo un gesto o un grido per cancellarlo o conquistarlo. La vigna o il focolare sono l'infinito (talvolta con lontane grida di fanciulli, o scrosci di pioggia, o, nella stanza vicina, il canto della madre che invecchia).
   Così sembra che -nel cerchio delle ansie umane, che i secoli hanno dispogliato dai suoi misteri - noi ci sprofondiamo, senza curiosità, inerti a un desto e vigilante letargo, a una nenia che canta l'inconoscibile attraverso gli affettuosi simboli del passato che ritorna e del presente che se ne consola dolorosamente; sembra, insomma, che, nitidi di un'esperienza di secoli, padroni di noi stessi, si sia raccolto il deserto intorno a noi, un deserto sensibile al nostro solo canto, dove riaffiorino disseccati nei rari simboli della casa natia, o della madre o d'altro che ci è caro, quei concetti che in altri tempi hanno teso il cammino dell'uomo: l'ignoto, la gloria, i viaggi, la lotta, la patria, Dio. Questa solitudine poetica, questa turris eturnea esiste: ma non è peccato.
   Non è peccato perché dal deserto che è nostro- dove siamo soli - noi non deviamo, sbandati da un'incomposta retorica pietà verso gli uomini che ci sono intorno, ma piuttosto li assumiamo, parte della nostra stessa natura, ad un amore che da egoistico - senza tradirsi, ma anzi rimanendo fermo nella tradizione della sua unica esistenza - diviene civile. (Al di là di ogni schema idealistico o superumanistico, in questo è da riconoscere una sorta di cosciente umiltà: parte della nostra stessa natura, ho detto, e tale riconoscimento è avvenuto senz'altro nel più ingenuo dei modi.) 
   Così, alcuni di quei concetti che ho sopra nominato, nel nostro deserto ritornano più puri: li abbiamo riedificati, non per contemplarli, ma per amarli più castamente. Ci siamo messi in un nuovo moto - nuovo per noi, come fu nuovo per i morti, e come sarà nuovo per i nascituri - e in questo ci sentiamo più liberi e trepidi a ritentare la vita. Un moto d'amore (che a noi sembra nuovo, anzi è nuovo, perché se così non fosse un passo dell'esistenza umana sarebbe inattuato), simile a quello che spinse la misurata anima greca a mari ignoti, al pédion pletos àperon che estinse Bruno nel rogo o Battisti sul patibolo. 
Noi siamo forse più umilmente uomini, perché più vicini a un infinito non più materiale, e conchiuso entro confini familiari alla nostra sofferenza, che ne sarà maggiore. La nostra ricerca non ci si propone in un senso di avventura, di epopea o retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memoria che s'infutura nel dolore. E in questo siamo tutti di una stessa sta tura: manca l'eroe, che come un faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile. 
   Così hanno riacquistato valore quegli antichi attributi del vivere umano che sembravano esausti dal lunghissimo uso: la solidarietà, il progresso, la carità, i costumi. Ma soprattutto vorrei soffermarmi sul concetto di patria, che, nel suo significato estremamente astratto, sembra stentare a riproporsi, sul nostro dolce deserto, attraverso un simbolo che lo purifichi. Eppure questo è il concetto che, al di là di ogni chiarificazione critica -forse sopra ogni cosa parte della nostra natura - si è insinuato con più dolente nostalgia nel nostro petto, con un impeto ed una commozione, come è raramente accaduto nella nostra vita. (Forse è il peso del sangue, forse sono le voci che il padre andava dettando alla sorda infanzia e che hanno fruttificato, come certi semi in luoghi incredibili.) 
   Del resto si può credere poeticamente nella patria, come si può credere poeticamente in Dio. E una fede che, imitando la vera, la equivale: ed è forse il più nobile mezzo per conquistarla. Noi siamo orgogliosi di una siffatta fede nella patria.
   Male recenti condizioni del tempo e i fatti della guerra, volevano piuttosto avviare il discorso - dopo le necessarie premesse - ad un commento del dolore civile. Non dovrei qui ripetere come questo-nel nostro nuovo senso della vita, l'infinito che ci raccoglie - viene a dispogliarsi dei vecchi ripieghi retorici, di cui l'avevano adornato, sopra gli altri, i nostri padri dell'Ottocento. Non carità, non pietà, non beneficio, non aiuto o lamento, è esso un dolore che si esaurisce nella coscienza della • sua necessità. E un attributo dei popoli nobili, è un frutto di secoli di fratellanza. Dovrò io esortare gli italiani alla storia? Ricordare la loro giovinezza e le loro antichissime origini? Forse non sarebbe del tutto inutile. Ma è accertato che la qualità soverchia in valore il numero: così mi rivolgo - quasi tremando - a coloro che sono coscienti e quindi responsabili. La storia si merita. Il premio è in diretta corrispondenza con la sofferenza del desiderio. Sarà più grande la gioia di chi avrà più disperatamente sperato. Questi sono i termini del dolore civile, ed i suoi fini. Più che le vite offerte - un sacrificio senza nome, che ogni giorno si ripete centinala di volte, il più crudele dei doveri, il più doloroso dei mezzi - verrà a contare davanti alla storia, la possibilità di amore che la patria avrà ottenuto dagli uomini. È perciò che ardentemente mi rivolgo a chi può intendermi, acché egli soffra di amore anche per i troppi che la natura e l'educazione non hanno reso capaci a questa purissima necessità. La patria è chi l'ama: e in questo pensiero la fede non mi acceca. 

Pier Paolo Pasolini





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