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Pier Paolo Pasolini - Gli uomini colti e la cultura popolare

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"ERETICO e CORSARO"

Elisa Avigliano



Pier Paolo Pasolini

Gli uomini colti e la cultura popolare


(Salvatore di Giacomo, Lettere a Elisa 1906-1911, a cura di

Enzo Siciliano, Editore Garzanti, 1973; Abele De Blasio, La
camorra a Napoli, 4vol. Edizioni del Delfino, 1973)



Non poteva evidentemente essere altrimenti, e quindi non è il caso di recriminare: ma è veramente un peccato che De Martino anziché occuparsi della cultura popolare della Lucania non si sia occupato della cultura popolare di Napoli. Del resto nessun etnologo o antropologo si è mai occupato, con la stessa precisione e assolutezza scientifica usata per le culture popolari contadine, delle culture popolari urbane. E' inconcepibile uno studio come quello dedicato da Levi-Strauss ad alcuni piccoli popoli selvaggi - isolati e puri - per il popolo di Napoli, per esempio. L'impurezza delle «strutture» della cultura popolare napoletana è fatta per scoraggiare uno strutturalista, che, evidentemente, non ama la storia con la sua confusione. Una vota che egli abbia identificato le «strutture» di una società nella loro perfezione, egli ha esaurito la sua sete di riordinamento del conoscibile. A nessuna perfezione possono essere ricondotte «strutture», appunto, della cultura popolare napoletana.

Un piccolo popolo chiuso da millenni o secoli nei suoi codici, vive ancora, nell'accezione degli etnologi, in illo tempore: non ha stratificazioni; la convenzionalizzazione, rigidissima peraltro, dei rapporti sociali ha un solo strato: non sono concepibili, né previste, possibilità di infrazioni. Nelle manifestazioni espressive - canti, danze, riti ecc' - le invenzioni non implicano un'evoluzione dell'inventum. In una cultura popolare urbana, invece, la storia della cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza, imponendovi e depositandovi i suoi valori: la tipica «astoricità» della cultura popolare, che è essenzialmente «fissatrice», è stata così costretta a dei mutamenti incessanti: a cui essa, sistematicamente, ha dovuto applicare i caratteri della «fissazione».

Le novit storiche vengono accepite nell'universo della cultura popolare urbana (e, dal XIX secolo in poi, anche in quella contadina) solo a patto di essere immediatamente tradotte nei propri termini tradizionali non dialettici. Solo in questi ultimi anni, sia le culture popolari urbane, estremamente complesse, che quelle contadine - ancora abbastanza pure, come appunto nei piccoli popoli selvaggi studiati dagli etnologi - sono state radicalmente sovvertite dal nuovo tipo di cultura del potere.

L'emigrazione nelle città industriali e soprattutto il consumismo con la sua imposizione di nuovi modelli umani hanno istituito con le antiche culture popolari un rapporto completamente nuovo, e quindi, all'interno dell'universo capitalistico, rivoluzionario.

Due anni fa, in una bancarella di Porta Portese, un venditore ambulante napoletano ha venduto delle «carte vecchie» a un compratore colto. I venditori ambulanti che risalgono da Napoli a Porta Portese appartengono ancora, nei limiti del possibile, alla vecchia cultura popolare: nella loro testa la connessione dei pensieri, dei giudizi, delle valutazioni, dei rapporti sociali, obbedisce a regole di cui il borghese conosce solo la lettera, e, naturalmente, il contingente culturale imposto dalla sua classe, almeno dal Seicento in poi, e con particolare riferimento agli ultimi decenni. Ad ogni modo il rapporto tra l'ambulante napoletano di Porta Portese e l'acquirente colto risulta tipico fino all'assolutezza: si tratta infatti della compravendita di un bene di equivoca provenienza. Il malandrino napoletano sarà rimasto sicuramente convinto di avere «fregato» il compratore «micco» che si interessa di «carte vecchie»; e il compratore sarà rimasto soddisfatto sia dell'acquisto eccezionale, sia del fatto di essersi comportato onestamente con quella «maschera» napoletana. Le «carte vecchie» erano un pacco di corrispondenza amorosa tra Salvatore Di Giacomo ed Elisa Avigliano, la sua futura moglie.

Enzo Siciliano, venuto in possesso del grosso manoscritto, l'ha pubblicato - premettendovi una puntigliosa introduzione, dove l'attrito tra l'assunto filologico (un po' impersonale) e un reale interesse, niente affatto spersonalizzato, per l'eros di Di Giacomo, produce impuntature quasi stridenti, malgrado la morbida eleganza. La quantità delle cose che non sappiamo è immensa, praticamente illimitata. Su questa usiamo ritagliare un piccolo quantitativo di conoscenze e informazioni che crediamo la nostra cultura. Per esempio, io avevo letto i volumi di poesia di Di Giacomo, e quindi credevo di conoscerlo. In realtà era una conoscenza di comodo, in fondo irrispettosa e interessata. Queste lettere di un fidanzamento durato venti anni irrompono come un'alluvione sulla mia conoscenza comoda di Di Giacomo. Va bene, non toccano il giudizio ultimo, finale e sintetico sulla sua poesia. Ma la rendono «altra». Lo scontro di classe che si è verificato nell'aneddoto del ritrovamento a Porta Portese delle vecchie lettere di Di Giacomo a Elisa, è in realtà all'origine di tutta la poesia digiacomiana.

Le lettere infatti rivelano un Di Giacomo terribilmente piccolo borghese, nel migliore e nel peggiore senso della parola. La lingua italiana che vi è usata esclude, direi teologicamente, il dialetto. E' la lingua del privilegio, così assimilato da essere innocente e immemore. Ed è anche la lingua di una psicologia viziata, che pone le ansie di un narciso piccolo borghese al centro dell'universo, senza spazio per altro. Lo sfondo è quello di una Napoli borghese e colta (biblioteche, caffè, teatri, editori, il golfo visto con gli occhi «alienati» di un alloglotta). C'è forte anche quel sapore esotico che distingue la cultura borghese napoletana dalla cultura borghese italiana: un suo internazionalismo storico, i rapporti diretti con la Francia e la Germania ecc'. Bastano le poche, squisite citazioni che Siciliano fa della poesia di Di Giacomo nella sua prefazione, per farla leggere sotto una luce nuova. La reale «struttura prima» di questa poesia è il rapporto tra il borghese Di Giacomo e la cultura popolare napoletana, colta al suo strato più alto, dove solo era possibile lo scontro, apparentemente amoroso, di classe. L'ingenuità e la purezza di Di Giacomo sono stupendamente mimetiche: ma mimetiche di un modello inventato.

In realtà tutto il suo mondo popolare è di maniera, o almeno visto solo in quello strato più alto in cui Di Giacomo poteva conoscerlo, e in cui la cultura della classe dominante è nell'atto di affidare i suoi valori alla cultura della classe dominata, e questa è nell'atto di farli suoi. La transustanziazione non è ancora avvenuta. Di conseguenza, in Di Giacomo non c'è la descrizione del «sottosviluppo» napoletano e della sua cultura «selvaggia». Tale descrizione c'è, invece, almeno in parte, in Ferdinando Russo, poeta più discontinuo, ma non meno grande di Di Giacomo. Ferdinando Russo ha compiuto quella discesa agli inferi (del «sottosviluppo») che Di Giacomo non ha creduto opportuno compiere. I due poeti sono complementari. E a loro due, insieme, è dedicata infatti l'opera di Abele De Blasio (La camorra di Napoli, composta di quattro volumi: Costumi dei camorristi, Il paese della camorra, La malavita a Napoli, Tatuaggio). Abele De Blasio ha condotto le sue ricerche proprio negli stessi anni in cui Di Giacomo e Russo poetavano, secondo un metodo di ricerca che aveva il suo maestro in Lombroso e le sue lucernae in altri antropologi, per così dire «veristi», oggi dimenticati. La sua rozzezza era dunque estrema.

 Il suo rapporto con la «plebe» napoletana era quello degli scrittori di «storie patrie», diffusi in tutte le provincie italiane: così che anche di fronte alle cose più atroci, non manca in Abele De Blasio un curioso moto di benevolenza e fierezza: alla fin fine si tratta di glorie folcloristiche. Di fronte ai napoletani poveri, egli si comporta come un entomologo che parla scherzosamente degli usi e dei costumi degli insetti: li antropomorfizza. D'altra parte è un motivo ricorrente di queste sue pagine quello di paragonare la cultura popolare napoletana alla cultura selvaggia dei popoli esotici. E, al di fuori di ogni principio di valore, tale punto di partenza era sostanzialmente corretto. His fretus, con molta modestia e lepidezza, Abele De Blasio accumula nei suoi libri - anche con molte ripetizioni - un materiale prezioso di notizie e informazioni. Ed è l'inferno. Almeno per un progressista medio. Il «tenore di vita» di alcune centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, risulta quasi inconcepibile a mente umana.

Il punto era quello in cui Napoli era stata lasciata dalla dominazione spagnola e dai Borboni. Le caratteristiche della cultura popolare - «altra» rispetto alla cultura borghese - che si era più o meno evoluta - e, quasi con invasata coscienza ideologica «estranea» ad essa - erano in quel momento codificate nelle «regole d'onore» della camorra. Un codice rigidissimo. Anche scritto, almeno per quel che riguarda le specifiche «paranze» camorriste (i «frieni»). Era l'assoluta naturalezza con cui i napoletani vivevano questo codice che li rendeva stranieri al potere e a chi in qualche modo vi appartenesse. Si trattava di un universo «reale» dentro un universo che, rispetto ad esso, era «irreale»: anche se questo secondo in realtà rappresentava il logico corso della storia. Il rovesciamento di prospettiva del napoletano che vede il mondo dall'interno del suo universo reale ma astorico, è uno scacco della storia. Se così non fosse, il mondo napoletano popolare non avrebbe una tale vitalità e un tale prestigio da presentarsi addirittura come una tremenda alternativa: anche oggi, che l'alternativa è monopolizzata dalla «coscienza di classe» proletaria (che detesta i sottoproletariati e quindi, borghesemente, le «culture popolari», verso cui non ha mai espresso una politica decente. Rispetto ai tempi di De Blasio le cose non sono poi, oggi, molto cambiate. Basta andare a Napoli. (O magari leggere il bellissimo documentario su Napoli scritto qualche anno fa da Antonietta Macciocchi.) Gergo, tatuaggi, regole d'omertà, mimica, forme di malavita, e l'intero sistema di rapporti col potere sono rimasti inalterati. Anche l'epoca rivoluzionaria del consumismo - che ha stravolto e mutato alle radici i rapporti tra cultura centralistica del potere e culture popolari - non ha fatto che «isolare» ancora di più l'universo popolare napoletano.

(Tempo, 22 febbraio 1974)




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice


Simona Zecchi

Pier Paolo Pasolini, progetto per un film su San Paolo

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"ERETICO e CORSARO"



Progetto per un film su San Paolo
P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.


L ’idea poetica - che dovrebbe diventare insieme il filo conduttore del film - e anche la sua novità — consiste nel trasporre l’intera vicenda di San Paolo ai nostri giorni. Questo non significa che io voglia in qualche modo manomettere o alterare la lettera stessa della sua predicazione: anzi, come ho già fatto per il Vangelo, nessuna delle parole pronunciate da Paolo nel dialogo del film sarà inventata o ricostruita per analogia. E poiché sarà naturalmente necessario fare una scelta dei discorsi apostolici del santo, farò tale scelta in modo da riassumere l’intero arco dell’apostolato (sarò aiutato in questo da specialisti, che garantiscono l’assoluta fedeltà all’insieme del pensiero di Paolo). Qual’è la ragione per cui vorrei trasporre la sua vicenda terrena ai nostri giorni? È molto semplice: per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’impressione e la convinzione della sua attualità. Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che «San Paolo è qui, oggi, tra noi» e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia. Tale violenza temporale usata alla vita di San Paolo, cosi fatta riaccadere nel cuore degli Anni Sessanta, richiede naturalmente tutta una lunga serie di trasposizioni. La prima, e capitale, di queste trasposizioni, consiste nel sostituire il conformismo dei tempi di Paolo (o meglio i due conformismi: quello dei Giudei e quello dei Gentili), con un conformismo contemporaneo: che sarà dunque quello tipico dell’attuale civiltà borghese, sia nel suo aspetto ipocritamente e convenzionalmente religioso (analogo a quello dei Giudei), sia nel suo aspetto laico, liberale e materialista (analogo a quello dei Gentili). Tale grossa trasposizione, fondata sull’analogia, ne implica fatalmente molte altre. In questo gioco di trasposizioni che si implicano vicendevolmente e richiedono quindi una certa coerenza, io vorrei però mantenermi libero. Dato cioè che il mio primo obiettivo è quello di rappresentare fedelmente l’apostolato ecumenico di San Paolo, vorrei potermi disobbligare anche da una certa coerenza esteriore e letterale. Mi spiego. Il mondo in cui — nel nostro film - vive e opera San Paolo è dunque il mondo del 1966 o ’67: di conseguenza, è chiaro che tutta la toponomastica deve essere spostata. Il centro del mondo moderno — la capitale del colonialismo e dell’imperialismo moderno — la sede del potere moderno sul resto della terra - non è più, oggi, Roma. E se non è Roma, qual’è? Mi sembra chiaro: New York, con Washington. In secondo luogo: il centro culturale, ideologico, civile, a suo modo religioso - il sacrario cioè del conformismo illuminato e intelligente - non è più Gerusalemme, ma Parigi. La città equivalente all’Atene di allora, poi, è grosso modo la Roma di oggi (vista naturalmente come una città dalla grande tradizione storica, ma non religiosa). E Antiochia potrebbe essere probabilmente sostituita, per analogia, da Londra (in quanto capitale di un impero antecedente alla supremazia americana, come l’impero macedone-alessandrino aveva preceduto quello romano). Il teatro dei viaggi di San Paolo non è più, dunque, il bacino del Mediterraneo, ma l’Atlantico. Passando dalla geografia alla realtà storico-sociale: è chiaro che San Paolo ha demolito rivoluzionariamente con la semplìce forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo e lo schiavismo; ed è dunque di conseguenza chiaro che alla aristocrazia romana e alle varie classi dirigenti collaborazioniste va sostituita per analogia l’odierna classe borghese che ha in mano il capitale, mentre agli umili e ai sottomessi vanno sostituiti, per analogia, i borghesi avanzati, gli operai, i sottoproletari del giorno d’oggi. Naturalmente, tutto questo non sarà esposto cosi esplicitamente e didascalicamente, nel film! Le cose, i personaggi, gli ambienti parleranno da sé. E da qui nascerà il fatto più nuovo e forse poetico del film: le «domande» che gli evangelizzati porranno a San Paolo saranno domande di uomini moderni, specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni; le «risposte» di San Paolo, invece, saranno quelle che sono: cioè esclusivamente religiose, e per di più formulate col linguaggio tipico di San Paolo, universale ed eterno, ma inattuale (in senso stretto). Cosi il film rivelerà attraverso questo processo la sua profonda tematica: che è contrapposizione di «attualità» e «santità» - il mondo della storia, che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo — e il mondo del divino, che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante.
Quanto alla composizione del film, io penserei di farne una «tragedia episodica» (secondo la vecchia definizione di Aristotele): poiché appare evidentemente assurdo raccontare la vita di San Paolo per intero. Si tratterà di un insieme di episodi significativi e determinanti, raccontati in modo da includere il più possibile anche gli altri. In testa a ognuno di questi episodi, che si svolgono ai nostri giorni, sarà scritta la data reale (63 o 64 dopo Cristo, ecc. ecc.); come del resto prima dei titoli di testa del film, per chiarezza, verrà sostituita la cartina con gli itinerari veri di San Paolo, a quella con gli itinerari «trasposti».
Elenco schematicamente e irregolarmente alcuni degli episodi che costituiranno con tutta probabilità l’ossatura del film.

1 ) Il martirio di Santo Stefano.

Siamo a Parigi, durante l’occupazione nazista. Tra i francesi, alcuni sono collaborazionisti, altri protestano passivamente, altri ancora che resistono con le armi (gli Zeloti). San Paolo, fariseo, è un borghese profondamente inserito nella sua società, per lunga tradizione familiare: egli si oppone al dominio straniero unicamente in nome di una religione dogmatica e fanatica. Egli vive in uno stato di inconsapevole insincerità, che, nella sua anima fatta per essere sincera fino allo spasimo, si fa tensione quasi folle. I fatti del processo e della morte di Stefano si svolgono esattamente come sono narrati negli Atti degli Apostoli - con l’integrazione delle altre testimonianze storiche. Nessun fatto, nessuna parola sarà inventata o aggiunta. Solo che, naturalmente, si tratterà invece che di una lapidazione antica, di un atroce linciaggio moderno. Ma Stefano morente pronuncerà le stesse parole di perdono. E Paolo le ascolterà - presente all’esecuzione, a rappresentare l’ufficialità, che crede, in tal modo, di liberarsi della verità che viene a distruggerla.

2 ) La folgorazione.

Come negli Atti degli Apostoli, Paolo chiede di andare a continuare la persecuzione cristiana a Damasco. Questa è una città fuori dal dominio nazista - potrebbe essere in Spagna: per esempio Barcellona — dove si sono rifugiati Pietro e gli altri fedeli di Cristo. La traversata del deserto è cosi la traversata di un deserto simbolico: siamo per le strade di una grande nazione europea, le campagne del Sud della Francia, e poi i Pirenei, e poi la Catalogna, perdute nel fondo senza speranza della guerra — in un silenzio, che può essere reso reale e tangibile rendendo completamente muta la colonna sonora del film: cosi da dare fantasticamente, e in modo ancora più angoscioso della realtà, l’idea del deserto. In una qualsiasi di queste grandi strade piene di traffico e dei soliti atti della vita quotidiana, ma perdute nel più totale silenzio - Paolo è colto dalla luce. Cade, e sente la voce della vocazione. Giunge cieco a Barcellona; vi incontra Anania e gli altri rifugiati cristiani; si unisce a loro, convertito; decide di ritirarsi a meditare nel deserto.

3 ) Idea di predicare ai Gentili.

È quello che nelle «sceneggiature» si chiama «risvolto». Paolo torna verso i suoi nuovi amici, già santo, trascinato da un impeto di amore e di ispirata volontà, quando una sua stessa idea rovescia la situazione e crea nuove terribili difficoltà e prospettive del tutto nuove: è una vera rivoluzione nella rivoluzione. Vorrei ricostruire il momento concreto (magari inventandolo, se non esiste una testimonianza diretta) in cui è scesa in San Paolo la nuova luce ispiratrice. Comincia cosi - e ne vediamo i primi atti - quell’apostolato che è «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili».

4-5-6) Avventure della predicazione.

Una serie di tre o quattro episodi «tipici» della prima parte della predicazione: «tipici» e quindi rappresentativi anche di intere serie di altri episodi che non possono essere narrati. Per la serie degli episodi dell’evangelizzazione delle persone appartenenti alle classi agiate e colte, si potrebbe trascegliere la predicazione ad Atene (che abbiamo detto di sostituire, per analogia, con la moderna Roma, scettica, ironica, liberale); mentre per la serie degli episodi dell’evangelizzazione della gente semplice, si potrebbero trascegliere due storie, una che riguarda gli operai o artigiani, l’altra il sottoproletariato più sordido e abbandonato: ossia la storia dei fabbricanti di «souvenirs» d’argento del tempio (credo) di Venere, che vedono diminuire i loro guadagni in seguito al discredito di quel tempio meta di pellegrinaggi; e la storia di quel gruppo di poveri diavoli che, per sbarcare il lunario, fingono di saper scacciare il demonio dagli indemoniati, come Paolo e in nome di Paolo, mentre non ci riescono, e finiscono male ecc. ecc.

7) Il sogno del Macedone.

Gli episodi che ho descritto nel paragrafo precedente potrebbero tutti accadere in Italia: ora Paolo prosegue verso il Nord. Il sogno del Macedone può essere quindi sostituito per analogia da un « sogno del Tedesco». Paolo dorme uno di quei suoi dolorosi sonni di malato, che lo riducono a lamentarsi come in un delirio. Ed ecco che, nella pace profonda del sogno, gli appare una figura bellissima: è un giovane tedesco biondo, forte, giovane. Egli parla a Paolo, lo invoca a venire in Germania: il suo appello, che elenca i reali problemi della Germania, e per cui la Germania ha bisogno di aiuto, suona irreale «dentro» quel sogno sacro. Egli parla del neocapitalismo che soddisfa il puro benessere materiale, che inaridisce, del revival nazista, della sostituzione degli interessi ciecamente tecnici agli interessi ideali della Germania classica ecc. ecc. Ma, mentre parla cosi, quel giovane biondo e forte, mano mano — quasicché qualcosa di esterno a lui ne rappresentasse fisicamente l’interiorità e la verità — diventa sempre più pallido, divorato da un misterioso male: piano piano rimane mezzo nudo, orribilmente magro, cade a terra, si raggomitola: è diventato una delle atroci carogne viventi dei lager... Quasi che continuasse questo sogno, vediamo San Paolo che, obbedendo a quell’appello disperato, è in Germania: cammina col passo veloce e sicuro del Santo, lungo una immensa autostrada che porta verso il cuore della Germania... (Mi sono dilungato su questo punto, perché è qui che si fonda, in modo visivo fantastico, il tema del film — che verrà soprattutto sviluppato nella parte finale del martirio nella Roma - New York: ossia il contrasto tra la domanda «attuale» rivolta a Paolo e la sua «risposta» santa).

8 ) La passione religiosa e politica da Gerusalemme a Cesarea.

Paolo è di nuovo a Gerusalemme (Parigi). Comincia qui quella concatenazione di episodi violenti e drammatici, che sono troppo noti perché debba anche sommariamente riassumerli: si tratta della serie di sequenze più drammatiche del film — che si concludono a Cesarea ( Vichy) con la richiesta di Paolo di essere giudicato a Roma.

9 ) San Paolo a Roma.

È questo l’episodio più lungo e ricco del film. A New York siamo nell’ombelico del mondo moderno: K l’«attualità» dei problemi è di una violenza e di una evidenza assolute. La corruzione dell’antico mondo pagano, mista all’inquietudine dovuta al confuso sentimento della fine di tale mondo — è sostituita da una nuova disperata corruzione, per cosi dire la disperazione atomica (la nevrosi, la droga, la contestazione radicale alla società). Lo stato d’ingiustizia dominante in una società schiavista come quella della Roma imperiale può essere qui adombrato dal razzismo e dalla condizione dei negri. È il mondo della potenza, della ricchezza immensa dei monopoli, da una parte, e dall’altra dell’angoscia, della volontà di morire, della lotta disperata dei negri, che San Paolo si trova a evangelizzare. E quanto più «santa» è la sua risposta, tanto più essa sconvolge, contraddice e modifica la realtà attuale. San Paolo finisce cosi in un carcere americano, e viene condannato a morte. La sua esecuzione non sarà descritta naturalisticamente (sostituendo, come al solito, per analogia, la decapitazione con la sedia elettrica): ma avrà i caratteri mitici e simbolici di una rievocazione, come già la caduta nel deserto. San Paolo subirà il martirio in mezzo al traffico della periferia di una grande città, moderna fino allo spasimo, coi suoi ponti sospesi, i suoi grattacieli, la folla immensa e schiacciante, che passa senza fermarsi davanti allo spettacolo della morte, e continua a vorticare intorno, per le sue enormi strade, indifferente, nemica, senza senso. Ma in quel mondo di acciaio e di cemento è risuonata (o è tornata a risuonare) la parola «Dio».




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice


Simona Zecchi

Sentenza di assoluzione di Ragazzi di vita di Pasolini - Archivio di Stato di Milano

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"ERETICO e CORSARO"



L’assoluzione di Ragazzi di vita di Pasolini 
Archivio di Stato di Milano 
Tribunale Civile e Penale di Milano, Penale, Sentenze, sentenza n. 1808/1956 



È il 21 aprile del 1955 quando la casa editrice Garzanti pubblica il romanzo «Ragazzi di vita» di Pier Paolo Pasolini (1922–1975). 

Esattamente tre mesi dopo, il Servizio spettacolo, informazione e proprietà intellettuale istituito presso la Presidenza del Consiglio – primo governo di Antonio Segni, DC – segnala l’opera alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, poiché in essa si riscontra «contenuto pornografico e osceno». 

L’editore Aldo Garzanti e l’autore Pasolini sono convocati a una prima udienza nel gennaio 1956, ma il processo viene rinviato per consentire al Collegio di leggere l’opera. 

La seconda udienza, in data 18 aprile, vede i due imputati nuovamente contumaci e viene sospesa per impedimento del Prof. Avv. Giacomo Delitala, difensore. 

La terza udienza si tiene il 4 maggio: in questa sede il Delitala legge una nota di Livio Garzanti, figlio di Aldo e suo collaboratore, che causa l’estensione dell’imputazione al figlio: «Sono io che mi occupo di tutto nella mia qualità di direttore generale...; nella specie, ad esempio, sono stato io e soltanto io che ho stipulato il contratto con Pasolini e ne ho curata l’edizione. L’imputazione, pertanto, se provata, dovrebbe far capo a me e non a mio padre...». 

Interrogati gli imputati, sentiti i pareri di testi del calibro di Carlo Bo, accolta la dichiarazione scritta da Giuseppe Ungaretti e raccolte le recensioni e i giudizi criticoletterari sull’opera, il 4 luglio 1956, in contumacia di Aldo Garzanti e presenza di Livio e di Pasolini, il Tribunale Civile e Penale di Milano pronuncia l’assoluzione degli imputati con formula piena, perché «il fatto non costituisce reato».


Sentenza N. 1808 
1956
Addì 4 Mese di Luglio


REPUBBLICA ITALIANA 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Civile e Penale di Milano 
Sezione 4° penale 

Sedente i Dottori



MARAMOTTI Floriano               Presidente
TRAPANI Pino                            Giudice
LABRUNA Francesco



ha pronunciato la seguente


SENTENZA 
nella causa penale contro 


I° – GARZANTI Aldo fu Livio e fu Fussi Maria, nato a Forlì il 4/6/1883 e res. Milano via Spiga n. 30 Libero – Contumace 

2° – PASOLINI Pier Paolo di Carlo Alberto e Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, res. a Roma via Fonteiana 86 Libero – Presente

3° – GARZANTI Livio di Aldo e Rovati Rita, nato a Milano l’1/7/1921, ivi res. via Spiga n. 1 Libero – Presente 


IMPUTATI 

del reato p. e p. degli artt. 110/528 C.P. per avere il primo ed il terzo quali editori ed il secondo quale autore, in concorso tra loro, stampato e messo in commercio il romanzo intitolato «RAGAZZI di VITA» di contenuto osceno, segnatamente alle pagg. 47/48/101/130/174/227-231/252. A Milano dal 21 aprile 1955 in poi.


IN FATTO E IN DIRITTO 

I° – Il servizio spettacolo, informazioni e proprietà intellettuale, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con sua lettera del 21/7/1955, segnalava, alla Procura della Repubblica presso questo Tribunale, per gli eventuali provvedimenti di competenza, il romanzo «Ragazzi di Vita», di Pier Paolo Pasolini, stampato presso l’editore Garzanti, assumendo che nella pubblicazione riscontravasi contenuto pornografico.

2° – Tratti a giudizio, per rispondere dell’imputazione in epigrafe trascritta, Aldo Garzanti ed il Pasolini si mantenevano contumaci, ed il Tribunale, con ordinanza emessa all’udienza del 18/1/1956, rinviava il processo a nuovo ruolo, allo scopo di consentire ai componenti del Collegio la previa lettura dell’opera incriminata.

3° – Sempre in contumacia dei due imputati, la causa veniva richiamata all’udienza del 18/4/1956, ed il dibattimento veniva sospeso per impedimento del prof. Delitala, difensore degli stessi. All’udienza del 4/5/1956, il Delitala esibiva al Tribunale una lettera, pervenutagli da parte del sig. Livio Garzanti, figlio di Aldo, che affermava tra l’altro: «Sono io che mi occupo di tutto nella mia qualità di direttore generale, con ampi poteri di gestione e di rappresentanza; nella specie, ad esempio, sono stato io e soltanto io che ho stipulato il contratto con Pasolini e ne ho curata l’edizione. L’imputazione, pertanto, se provata, dovrebbe far capo a me e non a mio padre, che nulla sapeva di questa pubblicazione».

4° – Il P.M., fondandosi sul tenore della missiva prodotta, chiedeva la rimessione degli atti al proprio ufficio, al fine di estendere l’imputazione al dr. Livio Garzanti, e il Tribunale in conformità decideva.

5° – All’udienza odierna, si è preceduto in contumacia di Aldo Garzanti, ed in presenza del Pasolini e del Dr. Livio Garzanti, al quale il P.M. aveva esteso l’imputazione di concorso nel reato di cui all’art. 528 C.P.

Interrogati gli imputati, sentiti i testi Bianchi e Bo, acquisite agli atti copie fotografiche di recensioni intervenute sul romanzo in oggetto, raccolte le conclusioni del P.M. e della difesa, i quali hanno concordemente chiesto l’assoluzione del Garzanti e del Pasolini «perché il fatto non costituisce reato», il Tribunale, ritiratosi in Camera di Consiglio, e sostanzialmente aderendo alle istanze formulategli, ha emesso le decisioni che si leggono nel dispositivo più oltre riportato.

A sostegno delle quali, si deducono i seguenti 


MOTIVI 

I° – Il dibattimento si è svolto in un clima di serena elevatezza, sia per la natura delle questioni sottoposte al vaglio del Collegio, sia per la nobiltà degli interventi del P.M. e della difesa, sia, infine, per l’impegno dello stesso imputato Pasolini di giustificare la sua opera sul piano morale, di porne in luce il significato artistico, letterario, di palesarne, per così dire, la chiave ed il motivo conduttore. 

a) – L’opera è intitolata «Ragazzi di Vita» (e si intendeva dire, ha chiarito il Pasolini, «Ragazzi di mala vita») ed è definita «Romanzo».

Forse del romanzo non ha l’ampiezza delle proporzioni, o quanto meno, l’unitarietà della trama e l’incentramento dell’interesse dei lettori attorno ad uno o pochi personaggi. Forse del romanzo non ha le ambizioni, la struttura, il respiro. È tipico fenomeno, anzi, della letteratura «romanzata» del dopoguerra (e si vuol dire di quella più nobile ed autentica, e non dell’altra, contrabbandata per buona, ma priva, in realtà, di temi, di ispirazione, di contenuto valido, promanante dai così detti «produttori in serie»), il prescindere, a volte, da una trama, o, comunque, da una sequenza di nessi e di aspetti che, sia pure quale pretesto, valgano a dare uno sfondo ai personaggi che lo animano, e servano di ausilio al lettore nel seguirne e comprenderne le ascese, le perversioni, le sublimazioni, il decadimento, o anche solo le peripezie; altro fenomeno è quello di presentare, talvolta, i soli personaggi, pressoché esclusi e tagliati fuori, non solo dal contatto di altri uomini, appartenenti a cerchie o categorie diverse, ma anche dal contatto fra loro medesimi, dalla comunione con la natura delle cose, dalla possibilità stessa di redimersi e perfino di irrevocabilmente perdersi. E allora, è fatale, tutti, ad egual diritto, possono dirsi protagonisti del libro; non si distingue più il personaggio di secondo piano da quello di contorno, ma tutti rimangono, d’altro canto, ignoti a se stessi, ignoti agli altri, inconoscibili, impenetrabili.

La prateria, la via del tabacco, il ponte, la palude, il villaggio, la piccola città, o anche solo il sobborgo valgono, sì, a localizzare i loro impulsi, la loro ferocia, le loro inibizioni, e a volte anche la loro problematica, la loro generosità e le loro meditazioni, ma costituiscono anche il confine simbolicamente invalicabile, il muro al di là del quale non v’è tregua da sperare, o pace, o isola di sogni, ma solo ignoto, smarrimento e tenebra.

Questi personaggi, che vivono costretti in unioni necessarie, alle quali non sanno ribellarsi, in abitudini annose, dalle quali non sanno scuotersi, in collusioni assurde ed umilianti, che hanno rinunziato allo loro dignità di uomini, o, forse, mai ebbero a conoscerla, che sanno, di rado, patire, ma mai appresero cos’è l’angoscia e il dolore, immoti, incerti, discontinui, vacillanti di sé diffidenti e degli altri, occupano gran parte della letteratura moderna, conquistano sempre più il favore degli scrittori più reputati, godono, quasi sempre, gli elogi della critica ed il plauso, se non la simpatia e l’entusiasmo, del medio lettore.

b) – Orbene, sia romanzo il libro di Pasolini, sia racconto, od anche solo romanzatura, i «ragazzi» sono contraddistinti, di massima, da quella stessa apatia morale, immobilità, indifferenza, incapacità di perdersi coscientemente ed di coscientemente risorgere, di sublimarsi, di anelare, che li accomuna a tutti gli altri, ragazzi, o no, che fittamente popolano le manifestazioni artistico-letterarie dei nostri tempi.

Questo si dica, senza peraltro disconoscerne i valori stilistici, la caratteristicità del gergo posto sulla bocca dei giovani protagonisti, la persistenza di esso nelle parti descrittive e non dialogate (quasi a voler significare un’ideale continuazione del colloquio, od a rappresentare, quanto più fedelmente possibile, una meditazione od un monologo) e non senza dire che il Pasolini ha saputo dettare pagine di autentico lirismo, nelle quali si concludono, o dalle quali traggono occasione, alcuni episodi del romanzo (p. 26/27; 63/64; 119/120). (Una stonatura, forse, la citazione erudita di due versi a pag. 85, come, sott’altro profilo, meramente grafico, un errore apostrofare la «c» davanti alla «a» – per es., pag. 39, linea 11: «senza che loro c’avessero» –, nonostante che la «c» perde il suono duro).


c) – Se tale, dunque, è il clima del romanzo, al quale non sono mancati riconoscimenti, plausi, recensioni favorevoli, o, addirittura, lusinghiere, è in rapporto a codesto clima, al motivo che inspirò l’autore, alla natura e ai limiti dei personaggi, che va esaminato e vagliato il capo d’imputazione.


aa) – La pubblica accusa ravvisa il contenuto osceno un po’ dovunque nel libro, e, segnatamente, alle pagine citate in rubrica. Ma che la pubblicazione possa definirsi oscena, deve essere recisamente escluso dal Collegio.

bb) – E ciò sia perché le parole volgari, triviali, da suburra, continuamente pronunciate, si giustificano in relazione alla psicologia dei giovani personaggi, agli istinti che li spingono, ai desideri che li muovono (e linguaggio volgare, d’altro canto, non significa sempre osceno linguaggio), sia perché nelle pagine particolarmente segnalate, anche se contengono esclamazioni poco ornate, e locuzioni dure e scabrose, l’autore non s’indugia con malizia, od anche solo con compiacimento, a descrivere situazioni obiettivamente oscene, non adopera frasi o circonlocuzioni titillanti e pruriginose, non sollecita i bassi istinti, non pretende, né specificamente richiama, l’attenzione del medio lettore su eventi, figure, accadimenti che rivelano la depravazione morale (o l’indifferenza morale) dei suoi ragazzi. Addita, sì, codesti avvenimenti, accenna, sì, codeste figure, tratteggia codeste situazioni, al fine di aggiungere un ulteriore elemento che consenta al lettore di apprezzare più compiutamente l’episodio rappresentatogli, e di meglio, conseguentemente, valutarlo, soprattutto come indice del significato e dell’importanza di questo o di quel personaggio, ma non si vale mai, d’altro canto, di un aspetto riprovevole, di una circostanza ambigua, di un ambientazione equivoca, per indugiare, o solo sostare, sopra narrazioni od episodi atti ad offendere il sentimento medio del pudore.

cc) – Il Pasolini va, quindi, assolto (e con lui il dott. Garzanti) perché il fatto non costituisce reato. Il sig. Aldo Garzanti, che è provato essere rimasto del tutto estraneo alla pubblicazione dell’opera, va assolto per non aver commesso il fatto.

Delle copie del romanzo va disposto il dissequestro. 


P.Q.M. 
IL TRIBUNALE DI MILANO 


Letto l’art. 479 C.P.P.

ASSOLVE 

Pier Paolo PASOLINI e Livio GARZANTI dall’imputazione ascritta loro, perché non imputabili, in quanto il fatto non costituisce reato; assolve Aldo GARZANTI dall’imputazione contestatagli per non aver commesso il fatto;


ORDINA 

il dissequestro delle pubblicazioni.



Milano, 4 luglio 1956.

L’assoluzione di Ragazzi di vita di Pasolini 
©Archivio di Stato di Milano 2017


Qui il processo a Ragazzi di vita




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice

Simona Zecchi

Virgilio Fantuzzi, da « L'usignolo della Chiesa Cattolica » a « La religione del mio tempo » - Lo scandalo Pasolini.

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"ERETICO e CORSARO"




Da « L'usignolo della Chiesa Cattolica » a
« La religione del mio tempo »
Don Virgilio Fantuzzi
Lo scandalo Pasolini
Rosso e Nero,
gennaio /aprile 1976


Durante l'infanzia e l'adolescenza, Pasolini ha subìto il duplice influsso della madre, donna di profonda sensibilità e di sinceri sentimenti cristiani, e del padre che, pur salvaguardando una religiosità formale, era sostanzialmente laico. Dati i numerosi cambiamenti di residenza, non è cresciuto, come molti suoi coetanei del Nord Italia, all'ombra di un campanile. Non era cresimato (l). Verso i 14 anni di età ha attraversato una breve crisi mistica, a proposito della quale non Si hanno dati precisi al di fuori di vaghi accenni in qualche poesia. lo davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue (2). Questa frase fa da contrappunto a un'altra « Un uomo fioriva »(3), riferita ad una seconda nascita spirituale, gli anni dell'esilio a Rebibbia, che videro sorgere dalle ceneri dell'esteta raffinato, erede della più squisita tradizione letteraria novecentesca (Sbarbaro, Ungaretti, Montale...), il poeta civile. Ma non anticipiamo.
Fecondissimo scrittore di versi fin dagli anni dell'adolescenza, Pasolini innesta la sua prima produzione letteraria « Poesie a Casarsa » uscì, a spese dell'autore presso la Libreria Antiquaria, del signor Landi, a Bologna, e fu recensito da Gianfranco Contini) sul. tronco dell'ermetismo. « C'è stato un periodo di questa nostra storia — dirà più tardi — in cui l'unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica; il che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, se, in realtà, l'involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell'ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all'involuzione letteraria di una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria
coscienza estetica »(4).
Di questa esperienza sul fronte interno fanno parte le emozioni che il giovane poeta avverte vivissime nei confronti dell'ambiente friulano, con un processo di identificazione che gli fa intravvedere la possibilità di incarnare la voce anonima che risuona nel canto popolare. Domina, al di sopra di questi sentimenti, la sensuale nostalgia che lo spinge a citare i versi di Peire Vidal posti come epigrafe alla sua prima raccolta di poesie friulane: Con il respiro tiro verso di me l'aria / che io sento venire di Provenza: / tutto quanto è di laggiù mi dà piacere n; e gli farà tornare alla mente, quando più tardi rievocherà gli anni lontani del suo apprendistato letterario, le parole di Machado: « Mi joventud, veinte anos en tierra de Castilla ». Provenza o Castiglia dello spirito, il Friuli è per Pasolini la terra indissolubilmente legata ai ricordi più dolci della sua infanzia. «Io sono uno spirito di amore, che al suo paese torna di lontano » .
Parlando di se stesso in terza persona, Pasolini non esiterà a definire la sua poesia giovanile in lingua friulana nei termini di un regresso » per altro inevitabile. Egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente; il suo regresso da una lingua a un'altra anteriore e infinitamente più pura era un un regresso lungo i gradi dell'essere.
Ma era questo il suo unico modo di conoscenza: se alle origini della sua sensualità c'era un impedimento a una forma di conoscenza diretta dall'interno all'esterno, dal basso all'alto — l'effusione, il calore puro e accecante dell'adolescenza; se uno schermo era caduto tra lui e il mondo verso cui provava una così violenta, infantile curiosità.
« Non potendo impadronirsene per le vie psicologicamente normali del razionale, non poteva che reimmergersi in esso: tornare indietro: rifare quel cammino in un punto del quale la sua fase di felicità coincideva con l'incantevole paesaggio casarsese, con una vita rustica, resa epica da una carica accorante di nostalgia. Conoscere equivaleva a esprimere. Ed ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo»  (6)
La visione religiosa, in questa fase dell'esperienza letteraria di Pasolini, coincide con la religiosità per così dire naturale dei contadini friulani, col loro modo arcaico di riferirsi al cristianesimo contaminandolo con i miti preesistenti delle divinità campestri e coi riti della fertilità. A ciò si aggiunge, nel poeta, una sensibilità che lo spinge a contemplare nel mistero contadino » il riflesso di un più vasto rapporto di comunione religiosa con la Natura, alla maniera di un mistico che intravede in ciò un segno .tangibile della Salvezza. Cristo si inserisce in questa visione con la sua immagine di Crocifisso attorniata da una schiera di angeli, santi e demoni, ma alla figura di Cristo si sovrappone quella di Adone, mentre la lira del giovane poeta è sfiorata soprattutto dallo spirito di Narciso.


Cristo il tuo corpo
di giovinetta
è crocifisso
da due stranieri.
Sono due vivi
ragazzi e rosse
hanno le spalle,
l'occhio celeste.
Battono i chiodi
e il drappo trema
sopra il tuo ventre (7).

Estetismo spirituale, autolesionismo, desiderio di esporre agli occhi indiscreti del mondo le proprie intirne piaghe. La poesia di Pasolini si nutre, fin dalle sue più acerbe espressioni, alla fonte, che appare inesauribile, della sua infelicità di uomo come quando confessa alla madre:


Tu, sola,
davi la solitudine
a chi, nella tua ombra
provava, per il mondo,
un troppo grande amore (8).

Come ha detto Alberto Asor Rosa, « Pasolini non teme, anzi reclama lo scandalo, ed è spesso animato dal desiderio di apparire al giudizio del mondo carico di tutte le colpe e di tutti i peccati: le opere giovanili sono da questo punto di vista assai più scoperte, assai Più ingenuamente esplicite di quelle successive, e forniscono la prova (quasi la traccia appena appena ricoperta dalla parola poetica) di tutta una serie di processi segreti della psiche, attraverso i quali il poeta arriva a costituirsi un carattere, inclinazioni naturali fortissime, un ben determinato atteggiamento umano e passionale, molto più resistente, anche in seguito, delle primitive convinzioni letterarie (9).
Il « troppo grande amore che è causa di tormento al giovane poeta, hà origini traumatiche, a proposito delle quali Pasolini fornirà indicazioni autobiografiche precise nel seguito della sua attività letteraria. 'Il trauma familiare, subìto nella prima infanzia, è connesso non solo con la diversità » della quale Pasolini parlerà a lungo, ma investe tutta la sua sensibilità esasperata, eccessiva (senza la quale non avremmo avuto, probabilmente, il poeta e il cineasta geniale), e si traduce nella visione religiosa abnorme, della quale parla Gian Carlo Ferretti commentando L'usignolo della Chiesa Cattolica.
Un Dio autoritario e un Cristo 'diverso'; una Chiesa irreligiosa, spietata e peccatrice {la Chiesa ufficiale come istituzione repressiva), e una religiosa eresia dell'innocenza, della purezza e della libera 'passione', a quella stessa Chiesa contrapposta (una religiosità che si emblematizza in un Friuli giovane e materno). Per cui l'essere 'diverso' (in un senso che riguarda anche, ma non più solamente, il livello privato) si configura come 'peccato innocente' rispetto alla falsa religiosità colpevole della Chiesa istituzionale».(10)
Visione religiosa certo distorta e teologicamente contraffatta, con inflessioni dissonanti che rivelano inclinazioni allo scisma, all'eresia, alla bestemmia; ma della cui mistificazione Pasolini sembra non
rendersi conto se, come farà alcuni anni Più tardi, giunge a rimproverare alla Chiesa di aver tradito quel suo lontano sogno di incontaminata purezza.


Eppure, Chiesa, ero venuto a te.
Pascal e i Canti del Popolo Greco
tenevo stretti in mano, ardente come se
il mistero contadino, quieto
e sordo nell'estate del quarantatre,
tra il borgo, le viti e il greto
del Tagliamento. fosse al centro
della terra e del cielo... (11). 

A qualificare la religiosità di Pasolini in quel momento determinante della sua evoluzione spirituale (l'estate del quarantatre) basta la sensazione di trovarsi al centro della terra e del cielo 
Un'espressione Simile ritornerà nella descrizione di un altro momento, non meno determinante, della sua crescita interiore.

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di 'sudore e di ansie
Un'anima in me, che non:era.solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall'allegria
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
e però maturato dall'esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace... (12). 

Momenti lontani l'uno dall'altro come Io sono l'adolescenza dalla maturità, l'acerba inconsapevolezza dalla consumata esperienza della vita, ma dominati da un unico segno: la presenza del sacro. Sono 
due visioni dell'esistenza che, nell'ottica di Pasolini, assumono il medesimo spessore di religiosità: la religiosità metastorica del mistero contadino » e quella storica attinta ad una nuova consapevolezza ideologica. « Un'anima in me cresceva ». Tra i due momenti c'è di mezzo, come una nuova Rivelazione, la « luce della Resistenza », la partecipazione alle lotte dei braccianti friulani contro i 
latifondisti nei giorni del Lodo De Gasperi la lettura di Marx e Gramsci, l'emigrazione verso la capitale, una parentesi di forzata inattività protratta fino alle soglie della disperazione. 
Le vicende delta vita di un uomo di lettere, ancora in formazione, nel crogiolo degli anni quaranta... Guardando a distanza verso il periodo della sua estetica partecipazione alla religiosità dei' contadini friulani, Pasolini può dire: 

Fu una breve passione. Erano servi
quei padri e quei figli che le sere
di Casarsa vivevano, così acerbi,
per me, di'religione: 'le severe
loro allegrezze erano il grigiore
di chi, pur poco, ma possiede;
la chiesa del mio adolescente amore
era-morta nei secoli, e vivente
solo nel vecchio, doloroso odore
dei campi. Spazzò la Resistenza
con nuovi sogni il sogno delle Regioni
Federate in Cristo, e il dolceardente
suo usignolo... Nessuna delle passioni
vere dell'uomo si rivelò
nelle parole e nelle azioni
della Chiesa (13) 

Segue una dura requisitoria contro le colpe, vere o presunte, della Chiesa, pronunciata con enfasi, quasi ad ostentare una patente laica di recente acquisizione.

Guai a chi crede
che la storia ad una eterna origine
— per candore piuttosto che per fede —
si sia interrotta, come il sole
del sogno; e non sa che è erede
la Chiesa di ogni secolo creatore,
a difenderne gli istituiti beni,
l'orribile, animale grigiore
che vince 'uomo luce e tenebra!
Guai a chi non sa che è borghese
questa fede cristiana, nel segno
di ogni privilegio, di ogni resa,
di ogni servitù; che il peccato
altro non è che reato di lesa
certezza quotidiana, odiato
per paura e aridità; che la Chiesa
è lo spietato cuore dello Stato (14). 

C'è forse troppa foga, troppo impeto predicatorio nello sdegno gridato... Effetto, anche questo, di « un troppo grande amore »? 
Oppure veemenza riformatrice di chi vorrebbe ricondurre la Chiesa alla purezza delle origini, come se nella storia del suo bimillenario sviluppo un ingranaggio si fosse inceppato, arrestandone il cammino alle soglie di qualche secolo oscuro? Sembra che Cristo stesso torni a rimproverare ai suoi seguaci di aver tralignato dall'insegnamento evangelico. C'è, nel dire del poeta, nelle ossessive iterazioni che ricorrono nei versi martellanti, nell'asserire che « questa fede cristiana » 'è « borghese », il segno di un accoramento ingenuo e appassionato. Non è possibile ricondurre questo sfogo risentito alle dimensioni di un pretesto demagogico, come se la Chiesa fosse il falso bersaglio di colpi destinati non già agli esponenti della gerarchia, ma a un gruppo di uomini politici che si dicono falsamente cristiani...

Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell'empietà
e chi non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la governa [...]
Qui, tra le case, le piazze, le strade piene
di bassezza nella città in cui domina
ormai questo nuovo spirito che offende
l'anima ad ogni istante, — con i duomi,
le chiese, i monumenti muti nel disuso
angoscioso che è l'uso d'uomini
che non credono — io mi ricuso
ormai a vivere... (15). 

L'indignazione del poeta raggiunge, in queste espressioni, l'intensità delle invettive con le quali i profeti dell'Antico Testamento rimproveravano al popolo d'Israele le sue fornicazioni con gli idoli 
dei cananei. Ma i profeti biblici parlavano, si sa, in nome di Dio. 
In nome di chi parla Pasolini? Da dove nasce la sua esasperata protesta? E' opportuno notare che l'argomento del poemetto « La religione del mio tempo », dal quale sono tratti i versi qui riferiti, 
non è di ispirazione strettamente religiosa; allo stesso titolo che il componimento appartiene alla musa « Le ceneri di Gramsci », il compimento appartiene alla musa civile di Pasolini; il tema religioso si intreccia a considerazioni di carattere politico per via di quella contaminazione, non solo 
stilistica, che è una delle caratteristiche fondamentali dell'attività del poeta.

Tutto mi dà dolore: questa gente
che segue supina ogni richiamo
da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando, sbadata, le più infami
abitudini di vittima predestinata;
il grigio dei suoi vestiti per le grige strade;
i suoi grigi gesti in cui sembra stampata
l'omertà del male che l'invade... (16). 

A questa sorta di delusione cosmica, succeduta alla breve esaltazione panica dell'estate friulana, non offre un contributo meno rilevante Io spettacolo che gli stessi compagni di strada di Pasolini, gli intellettuali marxisti, danno di sé..

Se guardo in fondo alle anime
delle schiere di individui vivi
nel mio tempo, a me vicini o non lontani,
vedo che dei mille sacrilegi possibili
che ogni religione naturale
può enumerare, quello che rimane
sempre, in tutti, è la viltà...
Nessuno sa sentire vera passione:
ogni sua luce subito s'oscura
come per rassegnazione o pentimento
in quell'antica viltà... (17). 

Lo spettacolo orrendo della rinuncia alla lucidità nella coscienza, alla tensione morale, alla coerenza nella vita, si svolge sullo sfondo dello scempio che la speculazione edilizia dissemina nelle zone della periferia.

Intorno a questo interno dominio
della volgarità, la città si sgretola
ammucchiandosi, brasiliana o levantina,
come l'espansione di una lebbra
che si bea ebbra di morte sugli strati
dell'epoche umane... (18). 

Lo zelo, forse eccessivo, che il poeta pone nella ricerca puntigliosa dei motivi di scandalo, fa pensare ad una sorta di amaro compiacimento, come se tutto nascesse da una piaga segreta e profonda, mai rimarginata, Io stesso trauma che Io faceva sanguinare, adolescente, nei campi del Friuli (19).

L'atteggiamento moralistico di Pasolini nasce da un suo dramma privato avvertito come problema morale. Alberto Moravia, che ha avuto col poeta e regista una lunga frequentazione, ritiene che egli non sia mai riuscito a liberarsi interamente da un senso di colpa dovuto al fatto di avere adottato, suo malgrado e, forse, senza rendersene conto, il punto di vista negativo della società italiana sull'omosessualità (20). problema si era già presentato, come si è visto, fin dall'epoca delle poesie giovanili, percorse da un fremito di ribellione che nasceva da un senso di disagio interiore.

E' inutile: non vedi
Io smorto compromesso?
Sii dunque l'ossesso
che non cerca rimedi.
L'illecito t'è in cuore
e solo esso vale,
ridi del naturale
millenario pudore (21). 

Dalla necessità di dare scandalo alla volontà di sentirsi scandalizzato il passaggio avviene attraverso un ribaltamento delle posizioni, in una gara a rovescio contro una Società iniqua, dalla quale il poeta si sente ingiustamente condannato. A ciò si aggiunge il dispiacere di sapersi escluso dalla festa della vita che solo per gli altri si rinnova perennemente gaia.

lo, cupo d'amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch'è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui — ed accomuno,
in lui — visione d'amore infecondo
e purissimo — le generazioni ,
il corpo, il sesso. Affondo
ogni volta — nelle dolci espansioni,
nei fiati di ginepro — nella storia,
che è sempre viva, in ogni
giorno, millennio (22)

Pasolini è esplicito nel parlare della situazione in cui è venuto a trovarsi, come è preciso nell'individuare le radici psicologiche della sua « diversità ».

Il mio amore
è solo per la donna: infante e madre.
Solo per essa impegno tutto il cuore.
Per loro, i miei coetanei, i figli, in squadre
meravigliose, sparse per pianure
e colli, per vicoli e piazzali, arde
in me solo la carne (23).

II senso dell'esclusione gli brucia come una cocente ferita alla quale non c'è rimedio, dato che la fonte stessa del piacere ne è inquinata, e l'amore, che è dono gratuito per tutti, si tramuta per lui in abbacinante ossessione.


E, certo, non ne ho gioia [...]
Ché io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l'esperienza
che accomuna gli uomini, e dà loro
un'idea cosi dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell'amore!
Come un cieco: a cui sarà sfuggita nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa, — luce seguita
senza speranza, e che a tutti sorride,
invece, come la cosa più semplice del mondo (24).

Egli conclude con un appello al Destino, o alla volontà imperscrutabile di una Divinità misteriosa, che sovrasta all'immedicabile infelicità del mondo.


Dentro i ventri
delle madri, nascono figli ciechi
— pieni di desiderio di luce — sbilenchi
— pieni d'istinti lieti:
e attraversano la vita nel buio e la vergogna.
Ci si può rassegnare — e i feti
viventi, povere erinni, possono in ogni
ora della loro vita, tacere o fingere.
Gli altri dicono sempre che non bisogna
essergli di peso. Ed essi obbediscono. Si tinge
così tutta la loro vita di un colore diverso.
E il mondo — il mondo innocente! — li respinge (25).

Lo scandalo di Pasolini nasce dunque, prima di tutto, dalla mancanza di amore; dal desiderio irrefrenabile di sentirsi compreso e amato, mentre al contrario, si sente oggetto di disprezzo e condanna; per cui immagina di gridare ai giudici, davanti ai quali è stato trascinato in occasione di un umiliante processo: 

 Voi non contate, siete simboli
di milioni di uomini: d'una società.
Questa mi condanna, non voi, suoi automi.
Ebbene: sono felice della mia mostruosità.
O vogliamo ingannare lo spirito
Voi, uomini formali — umili
per viltà, ossequienti per timidezza —
siete persone: in voi e in me, si consumi
Il rapporto: in voi, di arido odio,
in me, di conoscenza. Ma per la società
di cui siete inespressivi rapsodi,
ben altro io ho da dire [...]:
I miei amori —
griderò — sono un'arma terribile:
perché non l'uso? Nulla è più terribile
della diversità (26).

Il capovolgimento delle posizioni (da accusato ad accusatore) è così avvenuto. Dato che non trova solidarietà né comprensione tra gli uomini civili del suo Paese, non gli resta che rivolgersi ad altra gente: i barbari, gli esclusi, i disperati...


Ah Negri, Ebrei, povere schiere
di segnati e diversi, nati da ventri
innocenti a primavere


infeconde, di vermi, di serpenti.
orrendi a loro insaputa, condannati
a essere atrocemente miti, puerilmente violenti,
odiate! straziate il mondo degli uomini bennati! (27).

Sul filo di questo ragionamento si sviluppa il discorso che Pasolini ha svolto in un film tra i meno capiti della sua carriera di regista; si tratta di Porcile, nel cui intreccio erano messe a confronto, con montaggio parallelo, la storia di un cannibale del Medioevo e quella di un giovane coprofilo dei nostri giorni. In entrambi i casi il protagonista della storia finiva divorato dalle bestie. La società sceglie tra i diversi oggi come ieri, i suoi capri espiatori, individui sui quali far ricadere il peso di tutte le sue colpe prima di esporli a una morte crudele, Ma ciò che un tempo era fatto con ingenuità barbarica, feroce certo, ma priva di doppiezza, oggi si compie con ipocrisia, nella più totale mancanza di giustificazione morale.
Nel rispondere ad una inchiesta sul Vangelo, promossa da un quotidiano romano, Pasolini ha espresso un suo parere sulla intransigenza di Cristo, sulla assoluta esigenza di autenticità richiesta dal suo messaggio. « Cristo — egli dice non è intransigente con i peccati perché è sempre disposto a perdonare i peccatori. Potremmo fare un elenco degli episodi nei quali Cristo perdona immediatamente i peccatori... Vuol dire che egli capisce che uno può anche peccare, che i peccati sono inevitabili, che addirittura l'uomo può talvolta non impedirsi di peccare. Con tutta la buona volontà, il livello anche elevato di coscienza, il senso di responsabilità che un uomo possa avere, vi sono peccati che sono inevitabili perché provengono da zone della sua personalità, della sua psiche che egli non controlla [...]. 
« Cristo è molto Più severo con i peccati di carattere sociale, come l'ipocrisia, l'avarizia, l'arrivismo, lo snobbismo, insomma i peccati dei farisei, che Cristo sferza duramente e che perdona a fatica perché sono peccati dei quali si è coscienti, responsabili [...].
« Vi è un punto del Vangelo nel quale Cristo dice: 'Chi mi ama rinneghi se stesso; porti ogni giorno la sua croce'; cioè esponga la sua vita sapendo di farlo. Cristo è intransigente contro il peccato di qualunquismo, di mancanza di tensione, insomma di rappacificazione facile con _la vita [...].

« Uno rinnega se stesso in quanto porta la sua croce ogni giorno. II se stesso dello starsene tranquillamente a casa propria, con la moglie, i bambini, nel tran tran del qualunquismo e della baronia incolori, tende a non portare la croce Chi porta la croce rischia continuamente la vita, la mette sempre a repentaglio[...]. Cristo ci invita a dissociare un se stesso reale da un se stesso irreale che si perde nel sogno della vita, e ci invita a rinnegare questo per svegliare il primo, ed essere realmente se stessi »(28).
Questa è, secondo Pasolini' la morale di Cristo, opposta al moralismo dei farisei. Si tratta di riflessioni sul contenuto del messaggio cristiano che si collocano ad un livello di maggiore attendibilità rispetto agli approssimativi approcci giovanili (29). Anche in questo caso però l'ottica dello scrittore appare orientata a cogliere un solo aspetto del Vangelo che in realtà abbraccia un campo assai più ampio di insegnamenti. Ciò che interessa a Pasolini nelle parole di Cristo è semplicemente la spinta verso il rischio, cosi come era avvenuto nel tempo dei suoi entusiasmi di adolescente. 

Bisogna esporsi — questo insegna
i! povero Cristo inchiodato?
La chiarezza del cuore è degna
d'ogni scherno, d'ogni peccato,
d'ogni più nuda passione... (30). 

Ed è questo, al di là della felice intuizione, un limite non trascurabile nella visione religiosa di Pasolini, qualora la si consideri da un punto di vista cristiano che non sia unilaterale o riduttivo. 
Virgilio Fantuzzi

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Note:

1 Pasolini ha ripetuto più volte di non aver ricevuto la Cresima, e di non essere iscritto al PCI. In queste forme "privative" di auto-presentazione si può forse ravvisare una certa compiacenza, da parte sua,nell'ostentare uno stato anagrafico da "apolide"

2 La religione del mio tempo, nel volume omonimo.

3 II pianto della scavatrice, in «Le ceneri di Gramsci ».

4 La libertà stilistica, in Passione e ideologia »

5 Canto delle campane, in La meglio gioventù ».

6 La dialettale del Novecento, in Passione e ideologia ».

7 La Passione, in « L'usignolo della Chiesa Cattolica ».

8 Memorie, ivi.

9 Scrittori e popolo Samonà e Savelli, IRoma 1965, pp. 435s.

10 Pasolini: L'universo orrendo » Editori Riuniti, Roma 1976.

11 La religione del mio tempo, cit.


12 Il pianto della scavatrice, cit.

13 La religione del mio tempo, cit.

14 La religione del mio tempo, cit.

15 La religione del mio tempo, cit.

16 Ivi.

17 Ivi.

16 La religione del mio tempo, cit.

19 Destò scalpore, a suo tempo, la pubblicazione di un epigramma di Pasolini ingiurioso alla memoria di Pio XII, nel quale il rimproverava al defunto pontefice di non aver fatto nulla per alleviare la miseria dei poveri che si addensavano alle soglie del Vaticano. « Ci sono posti infami, dove madri e bambini / vivono in una polvere antica, in un fango d'altre epoche. /. Proprio non lontano da dove tu sei vissuto, / in vista della bella cupola di San Pietro, / c'è uno di questi posti, il Gelsomino... (A un Papa, in « La religione del mio tempo). Vedi anche l'inizio de Il Rio della Grana, in « Ali dagli occhi azzurri

20 In Il Corriere della sera » del 6 dic. 1975.

21. L'illecito, in L'usignolo della Chiesa Cattolica

22 La realtà, in Poesia in forma di rosa »

23 Ivi.

24 La realtà, in « Poesia in forma di rosa cit.

25 Ivi.

26 Ivi.

27 La realtà, in « Poesia in forma di rosa n, cit. 



Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice

Simona Zecchi

Pasolini - L'uomo dal fiore in bocca [di Marc Bellocchio, 1993]

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"ERETICO e CORSARO"


L'uomo dal fiore in bocca [di Marc Bellocchio, 1993]


“Ti chiedo però di parlare, scriverete tornare in mezzo a noi calabresi. Scusa se la mia parola non è facile: sono un operaio”.
Ulisse – Crotone


"Un giudizio netto,interamente indignato".
Pier Paolo Pasolini



Un contributo segnalato da un lettore del blog, che ringrazio:
Luigi Mittiga

Pasolini e la Calabria [e Corrado Alvaro]

di Gaetanina Sicari Ruffo

Il giudizio di Pier Paolo Pasolini contenuto nel libro Le belle Bandiere - Editori Riuniti, 1991 – appare un po’ datato, ma essenziale e denso di significato, di forte e chiara denunzia oltre che veritiero. In effetti si riferisce al 1960, anno in cui Pasolini fece un viaggio nella regione e ricevette anche il rifiuto di parlare in un Circolo di Reggio in Calabria che l’aveva prima invitato.
Lo scrittore risponde ad un lettore che gli chiedeva dei suoi rapporti con la Calabria: “Tra tutte le regioni italiane, la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata: ma sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie, che, in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di civiltà, in cui i dominatori risiedevano, almeno, ed avevano rapporti diretti con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia ecc. La Calabria è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata››. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono, dalla miseria.
Nel popolo questi «complessi» psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà - una bontà quasi angelica - e una furia disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica.
Tu forse sai che i «complessi›› psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità: così i calabresi sono molto infantili e ingenui - e questo è del resto il loro grande fascino, la loro più bella virtù. E quel tanto di contorto che c'è in loro è, in fondo, infantilmente semplice.”
Fermiamoci a considerare questa prima parte del suo giudizio che in generale riguarda il tracciato identificativo e storico della popolazione e della terra calabrese all’epoca.
Potrebbe sorprendere l'espressione dello scrittore sul fatto che la Calabria sia povera di bellezze naturali. Penso che intendesse che le sue bellezze, innegabili per altro, fossero trascurare: discariche a cielo aperto, vie di comunicazione precarie, scarsa cura del territorio, nessuna strategia per rilanciare il turismo. Oggi dovremmo aggiungere pure il giallo dei rifiuti tossici, versati in alcune località costiere e montane. Non è un delitto che pesa, a carico di chi amministra, non certo della natura che non e stata generosamente protetta?

È una verità bensì che nell’aspetto dei luoghi resti la traccia profonda di tanti secoli di abbandono e di malgogoverno. E’ una traccia che dura pure nelle menti e ne condiziona i comportamenti.
In questo Pasolini rivela d’essere attento conoscitore dei moti d’animo popolari anche quando parla del carattere dei calabresi che sono egli dice in fondo molto infantili ed ingenui e quel tanto di contorto che è in loro è in fondo infantilmente semplice. Ma creduto ancora in questa semplicità se solo avesse potuto conoscere i numerosi delitti delle famiglie di 'ndranghetista e la rovinosa diffusione del malaffare in mezzo mondo? Non credo si possa parlare di fascino della semplicità della gente Calabra che o era una favola malcelata o s’è definitivamente persa.
S’è detto tante volte da voci diverse dell’immobilismo meridionale, del senso di stanchezza che sembra opprimere le popolazioni. Su queste componenti egli ha una sua diagnosi: l’abitudine ad essere dominati ed asserviti ai tanti dominatori che si sono susseguiti nel passato non ha certo creato stimoli ed incoraggiato la ripresa in senso dinamico. E’ vero, ma questo retaggio non si cancella mai? La natura spontanea o acquisita non può essere corretta e modificata? Verrebbe da rispondere: sì, con la cultura. Ma questa non è una voce vincente e preponderante.

L'unico autore calabrese menzionato è Alvaro che tuttavia serve solo a confermare l’arretratezza degli abitanti. Pasolini aggiunge: “La borghesia Calabrese, come tu sai, è di formazione molto recente. Corrado Alvaro dice addirittura, con una boutade che contiene però molta verità, che essa è nata in quest'ultima guerra, con la «borsa nera››. E' una borghesia recentissima, dunque, e quantitativamente scarsa. Le forme più moderne di questa borghesia, mi pare si riscontrino a Crotone: nelle altre grosse città calabresi, la borghesia è forse la peggiore d'Italia: appunto perché in essa c'è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili. Non è possibilista, scettica, elastica come in altre regioni del Meridione, dove ciò che la salva, è proprio la sua corruzione, cioè la sua antica esperienza. In Calabria, ripeto, è rigida, moralistica: e perciò faziosa.
Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti: dico, naturalmente, gli adolescenti di classe borghese. Questo mi ha costernato. È un problema, quindi, che passo ai dirigenti politici: esso mi sembra realmente grave, e da affrontarsi risolutamente. Da tutto quello che ho detto qui sopra può risultare, infatti, storicamente chiaro che la borghesia calabrese tende agli estremismi di destra.
Naturalmente c'è il Crotonese che fa eccezione. Ed è per questo - per questa possibilità, per questa speranza che il Crotonese autorizza ad avere - che io continuo ad appassionarmi a questo problema, come se fosse mio, e non perderò certo mai occasione per parlarne: e dire - sia essa gradevole
o no - quella che a me sembra la verità.”
I problemi suggeriti da questa seconda parte di considerazioni di Pasolini riguardano la borghesia, una classe che a sud ha attirato su di sé prevalentemente le colpe del degrado e dell’arretratezza, non essendo riuscita, dopo l’Unità, a rivelare autonomia e slancio di iniziative. Si e invece vincolata con la prestazione dei voti, pur di essere privilegiata, ai gruppi parlamentari che la sostenevano di volta in volta, senza avere a cuore i veri interessi dei cittadini. Tutti sanno che l'annosa questione meridionale è cominciata da qui e inutili sono stati i suggerimenti dei vari economisti e sociologi perché la situazione mutasse. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”, questa l'accusa di Gramsci per sottolineare l’inerzia di questa classe a sud, mentre per Dorso la debolezza di tutto il sistema è venuta dall’assenza di una classe media libertaria capace di risollevare le sorti compromesse dall’impasse di tutta l’area. La classe operaia, che pure era stata protagonista di memorabili lotte contro le prevaricazioni feudali negli anni prima e dopo il fascismo, non ha avuto l'energia e i mezzi necessari per attuare quella rivoluzione proletaria che era negli auspici del partito comunista.
Alle accuse di ieri si sommano quelle odierne che riguardano il generale superamento della distinzione delle classi, ma non una pacificazione sociale promotrice di progresso e di sviluppo. Ancor oggi l’economia è stagnante e l’industria del turismo, che pure con successo potrebbe essere impiantata, è solo una pia vocazione astratta. Mancano strumenti bancari adeguati e mezzi di comunicazione rapidi ed efficienti.

Neppure i giovani che sempre lo scrittore ha considerato come promessa del futuro spingono a ridenti speranze. Il motivo non nasce solo dalla loro appartenenza a partiti di destra, com'è detto nella risposta pasoliniana, quanto dalla dispersione che è intervenuta nei loro progetti, dalla demotivazione che li caratterizza per carenza di lavoro e per necessità d’espatrio.
A ben vedere quindi il quadro prospettico calabrese, a distanza di decenni è mutato, ma solo superficialmente. La grande utopia d’un partito comunista che risana le piaghe e che dà vigore alla classe operaia per renderla matura e responsabile è pur essa tramontata dopo la caduta del muro di Berlino. Si e generata una confusione di ruoli e la nuova classe capitalistica ha fallito nelle sue mire ed una generale grigia ed amorfa gora di sopravvivenza è subentrata. Il privato ha avuto un gioco più libero di quello pubblico, ma non sempre schietto e onesto. Si sono infiltrati gruppi di potere malavitoso cui si attribuisce in maggior parte la stagnante e pericolosa deriva.

Calabria Sconosciuta n. 132 Anno XXVIV ottobre - dicembre 2011.


NOTA La risposta di Pasolini al lettore che lo interrogava era apparsa sul settimanale di attualità “Vie Nuove”, n. 49 a. XV, 10 dicembre 1960, fondato nel 1946 da Luigi Longo, Pasolini collaborò con una sua rubrica dal 1960 al 1965.

Fonte:



Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, un'ora con Ezra Pound - Trascrizione

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"ERETICO e CORSARO" 


UN’ORA CON EZRA POUND

Intervista a cura di Vanni Ronsisvalle
Programma: Incontri, a cura di Gastone Favero
Produzione: RAI, Italia, 1967-1968
Trasmissione: giugno 1968



[…]
Pasolini: 
«Ah, lasciate che un vecchio abbia quiete.»
Così finisce il suo ottantaduesimo canto. Ed io so benissimo che sono qui a. turbare la. sua quiete, Pound. Però prima di tutto vorrei esternarle lo stato d’animo con cui io sono qui di fronte a lei. Leggerò un suo testo; se ricorda, una delle poesie di Lustra in cui lei si rivolge a Walt Whitman e dice così: «stringo un patto con te, Walt Whitman, ti detesto ormai da troppo tempo, vengo a te come un fanciullo cresciuto, che ha avuto un padre dalla testa dura, sono abbastanza grande ora per fare amicizia, fosti tu ad abbattere la nuova foresta, ora è tempo di intagliare il legno, abbiamo un solo stelo ed una sola radice, che i rapporti siano ristabiliti fra noi».
Ora io potrei leggere questa poesia cambiando soltanto due piccoli particolari, cioè il suo nome e un’altra cosa che adesso sentirà. Potrei leggergliela così: «stringo un patto con te, Ezra Pound, ti detesto ormai da troppo tempo, vengo a te come un fanciullo cresciuto, che ha avuto un padre dalla testa dura, sono abbastanza grande ora per fare amicizia, fosti tu ad intagliare il legno, ora è tempo di abbattere la nuova foresta, abbiamo un solo stelo e una sola radice, che i rapporti siano ristabiliti fra noi.»

Pound: 
Bene amici, allora: Pax tibi, Pax mundi.

Pasolini:
Un’altra osservazione che vorrei fare è questa; vorrei chiederle così, brutalmente: lei si sente un po’, rispetto alla cultura europea, come appartenente a uno di quelli che lei chiama «οἰ βαρβάροι», i barbari? Quando lei è venuto a Gibilterra dall’America, si è sentito un po’ uno di questi «οἰ βαρβάροι» che venivano in Europa, o no?

Pound:
Non credo di aver avuto nessun complesso di inferiorità in gioventù. E l’arrivo a Gibilterra nel 1908 non era un primo approdo, ma un ritorno. All’età di dodici anni avevo visitato l’Europa, come scrissi poi nelle Indiscretions, Indiscrezioni, un brano autobiografico sui miei primi anni.

Pasolini
: Sa perché le dico questo? Perché alla fine della lettura dei suoi saggi – bellissimi saggi letterari – malgrado l’immensa erudizione e l’immensa acutezza critica dei saggi, c’è in essi qualcosa di barbarico.

Pound:
La mia prosa è divenuta, in un certo periodo, cruda. Una reazione forse all’entourage molto per bene...

Pasolini:
«Non mangiarne nel mondo sotterra, / bada che il sole o la luna, benedicano il tuo pasto, / core, cose, per i sei semi di un errore, / o che le stelle benedicano il tuo pasto, / O Lince fa la guardia a quest’orto, / evita il solco di Demetra, / questo frutto chiude in sé un fuoco, / Pomona, Pomona, / non vi è vetro più chiaro dei globi di questa fiamma, / quale mare è più chiaro del corpo di melagrana, / che racchiude la fiamma? / Pomona, Pomona, / Lince, fa la guardia a quest’orto / che ha nome melagrana, / o il campo di melagrani / il mare non è più chiaro nell’azzurro, / né le Eliadi che recano luce / ecco le linci, ecco le linci, / c’è un suono nella foresta / di pardo o di bassaride / o crotalo o di foglie che s’agitano? / Cythera, ecco le linci, / Il querciolo eromperà in fiore? / C’è una rosa canina in questo sottobosco. / Rossa? Bianca? No, ma di un colore intermedio / quando la melagrana è schiusa, e la luce cade / a mezzo su di essa. / Lince, bada a queste spine di rampicante / o lince, γλαυκῶπις, sale dei terrazzi di ulivi, / Kuthera, ecco le linci e il tinnire dei crotali / c’è un ribollio di polvere dalle foglie vecchie / vuoi barattare le rose con le ghiande, / mangeranno le linci foglie di biancospino?»
Ecco, le leggo questo verso: «Sotto nuvole bianche, cielo di Pisa, / da tutta questa bellezza qualcosa deve uscire.»

Pound:
Questi sono due versi buoni.

Pasolini:
Sì, molto buoni, sono tra i suoi più belli.

Pound:
Ma i versi buoni nella mia opera sono sparsi. Non sono riuscito a metterli in un cosmo.

Pasolini:
No, non credo questo, non credo. Cioè io trovo che la sua poesia assomigli molto alla vita. Lei dice che la sua poesia sono i discorsi che si fanno tra persone intelligenti, a un certo punto, e i discorsi che si fanno tra persone intelligenti seguono una curva un po’ casuale, appunto a casaccio, con dei momenti altissimi e dei momenti, invece, grigi, e la sua poesia, secondo me, segue proprio questo arco Quindi non è vero che i suoi versi belli non siano, diciamo così, sintetizzati...

Pound:
Si cerca di metterli in una coerenza, e non ci si riesce. Pasolini: Eh., invece lasci dire a un lettore che ci è riuscito. […]
Quando lei scrive, è un po’ nella situazione in cui si trova a scrivere un surrealista., per esempio? Cioè lascia che l’ispirazione, le parole, la lingua, le escano quasi automaticamente, oppure scrive molto lentamente pensando ad una ad una le parole?

Pound:
Ho mancato in questo.

Pasolini:
Tutti i critici sono d’accordo sul fatto che la sua poesia è enormemente vasta, cioè è come se la sua poesia si estendesse in superficie, occupando un territorio poetico immenso. Ed è vero questo, perché citazione dopo citazione...

Pound:
Sono fatte a casaccio.

Pasolini:
Sono fatte a casaccio, che cosa? Le critiche o le citazioni?

Pound:
Sono fatte a casaccio, dicono, ma non è poi così. È musica, temi musicali, che si ritrovano.

Pasolini:
Mi sembra giusto, in fondo, questo giudizio critico. La sua poesia è enormemente vasta, ma a una prima, impressione; però, leggendola meglio, in fondo, tutti gli elementi che la rendono vastissima, in un certo senso si riducono. Per esempio per un lettore come me, che non conosce la letteratura cinese o la saggezza cinese, tutte le citazioni cinesi diventano come dei flatus vocis, che si riducono ad un unico elemento. E così tutti i richiami ai poeti provenzali o ai poeti italiani del dolce stil novo, eccetera, eccetera; anche questi si riducono ad un elemento unico.
Cosicché mentre in principio la sua poesia sembra vastissima territorialmente, poi, un po’ alla volta più che vasta diventa profonda. Non so come dire, invece che immaginarla, immaginare lei espanso in un enorme territorio linguistico, la vedo come in fondo a un pozzo, in cui ha ridotto il mondo a pochi elementi, in fondo. Cioè a un gruppo di citazioni che sono sempre le stesse, e un gruppo di amici che ritornano sempre gli stessi, Yeats, Eliot, etc, etcr Cioè la vedo come in fondo a un ristrettissimo pozzo in cui lei ripensa e ricorda continuamente la sua vita.

Pound:
Lei va in profondo, ed è difficile rispondere dalla superficie dove sto adesso.

Pasolini:
«In Primavera e autunno non ci sono .guerre giuste». E poi ancora: «Perché le guerre? – disse il sergente contrabbandiere di rhum. Troppa gente, quando si diventa troppi, devi ammazzarne qualche po’».
Sono dei versi pacifisti. A lei piacerebbe in questo momento, per esempio, partecipare a una. di quelle dimostrazioni che si fanno in America o in Italia per la pace?

Pound:
Credo alle buone intenzioni, ma non all’efficacia di queste dimostrazioni. Vedo da. un altro punto di vista. Come ho scritto in Canto incompleto: «When one’s friends hate each other, how can there be peace in the world?», «quando i nostri amici si odiano tra di loro, come è possibile la pace mondiale?»

Pasolini:
Non capisco cosa significhi questo brano che le ho riportato, «in Primavera e autunno non ci sono guerre giuste». Vorrei sapere, «in primavera e autunno» che cos’è, cosa significa?

Pound:
Sono le ali, sono i ricordi, la storia trasmessa.

Pasolini:
Primavera e autunno, ma cos’è, il titolo di un libro cinese forse, della tradizione cinese?

Pound:
Primavera e autunno è un libro attribuito da alcuni a Confucio, che era notoriamente tutt’altro che guerrafondaio.

Pasolini:
Volevo chiederle, Pound, lei non è mai stato in Cina, in tutti i suoi viaggi.

Pound:
No.

Pasolini:
Non c’è mai stato? È un rimpianto questo, nella sua vita, non avere visto la Cina che l’ha tanto ispirato, o no?

Pound:
Sì. Ho sempre voluto vedere la Cina. È tardi ormai, ma chissà.

Pasolini:
Senta, poi volevo chiederle una cosa, Confucio, uno dei nomi che torna più spesso nelle poesie è Confucio. Allora io volevo farle questa, domanda, che per me è un problema: Confucio in fondo è l’unico dei riformatori religiosi, diciamo così, dei grandi filosofi religiosi, che non sia religioso. La cui filosofia sia soprattutto una filosofia pratica e quasi laica direi. Vorrei sapere come inserisce Confucio nella sua. poesia che invece, pur essendo molto laica nel ritmo, è invece così enormemente religiosa nella sua irrazionalità, nella sua indecifrabilità.

Pound:
Io forse avevo provato di vedere l’universo confuciano come una serie di tensioni. Series of tensions.

Pasolini:
Uno degli elementi che formano i Canti, che sono innumerevoli, ma che in realtà poi si riducono a un piccolo territorio, ossia al fondo di questo pozzo in cui lei rimacina la sua vita, uno. di questi elementi è l’Italia. Che cosa, le è piaciuto in Italia quando è arrivato?
È stato il paesaggio italiano a piacerle, o gli italiani?

Pound:
Quel vecchio paesaggio è tanto rovinato da queste strade, dove si cambia la. terra per l’asfalto.

Pasolini:
L’Italia, in cui lei è arrivato era un’Italia ancora preindustriale, agricola, artigianale. Adesso è una nazione in gran parte industrializzata, quindi produce fenomeni letterari analoghi a quelli che produceva forse l’America, l’Inghilterra in quel periodo, in quegli anni. In questo momento l’Italia fa parte di queste nazioni industrializzate, quindi culturalmente avanzate, e sta esprimendo un nuovo tipo di letteratura che è tipico delle nazioni fortemente borghesi industrializzate. C’è in Italia, quindi, una specie di movimento avanguardistico, in cui si fa spesso il suo nome. Lei riconosce la paternità di certi movimenti avanguardistici che si hanno adesso in Italia, o no?

Pound:
Lei dice nazioni industrializzate, e quindi culturalmente avanzate. È questo «quindi» che non mi va. È difficile per me rispondere a questa sua domanda, poiché non è solamente nell’Italia industrializzata che sono enormemente aumentati questi, come dice bene lei, «prodotti neo-avanguardistici», ma in tutto il mondo, ed è impossibile per me tenermi aggiornato e al corrente... stavo per dire a galla.

Pasolini:
Ma lei ha piacere che il suo nome venga fatto in questi prodotti neo-avanguardistici italiani, oppure è una cosa che lei non ama?

Pound:
Se la sua tesi del vecchio esule in fondo al pozzo buio rimasticando la sua vita passata è esatta – a me non sembra, ma può darsi che abbia ragione lei – non sarei in una posizione che mi consentirebbe di vedere chiaro in quel che accade fuori, nella luce al neon del neo-mondo dei neo-avanguardisti, che spero capiranno e perdoneranno chi non può vederli.
[…]

Pasolini:
Voglio leggerle due versi, che, secondo me, riguardano la sua vita, che lei ha scritto nei Canti Pisani, cioè in un momento molto dolorosa di questa sua vita. «Dumas giovane piange solo perché Dumas giovane ha lacrime».
Lei con questo Dumas giovane intendeva pensare a se stesso giovane, o no?

Pound:
No, con Dumas giovane non pensavo a me stesso. Anzi in uno dei Canti Pisani ho scritto: «Tard, très tard, je t’ai connue, la tristesse», «tardi, molto tardi, ti ho conosciuto, la tristezza».

Pasolini:
«Quello che veramente ami non ti sarà strappato, / quello che veramente ami è la tua. vera eredità, / il mondo a chi appartiene, a me, a loro, / o a nessuno. / Prima venne il visibile, quindi il palpabile / Eliseo, sebbene fosse nelle dimore d’inferno / quello che veramente ami è la tua vera eredità / strappa da tè la vanità, non l’uomo/che creò il coraggio, o l’ordine o la grazia, / strappa da te la vanità, ti dico, strappala / cerca nel verde mondo quale luogo possa essere il tuo, / nel raggiungere l’invenzione o nella vera abilità dell’artefice / strappa da te la vanità / Paquin,
Strappala / il casco verde ha vinto la tua eleganza / Dominati e gli altri ti sopporteranno / strappa da te la vanità / sei un cane bastonato sotto la grandine / una pica rigonfia in uno spasmo di sole / metà nero metà bianco, / e distingui un’ala da una, coda / strappa da te la vanità / come sono meschini i tuoi rancori / nutriti di falsità / Strappa da te la vanità / avido di distruggere, avaro di carità, / strappa da te la vanità, / ti dico, strappala! / Ma aver fatto in luogo di non avere fatto / questa non è vanità. / Avere con discrezione bussato perché un Blunt ti aprisse, / aver raccolto dal vento una tradizione viva, / o d’un bell’occhio antico la fiamma inviolata, / questa non è vanità, / perché qui l’errore è in ciò che non si è fatto, / nella diffidenza che fece esitare».

Intervista pubblicata parzialmente in «Galleria» del 1 aprile 1985 e, 
con varianti, in «Leggere» del luglio-agosto 1992. 
Trascrizione non integrale.


DOTTORATO DI RICERCA IN
Filologia, Letteratura italiana, Linguistica
CICLO XXXI
COORDINATORE Prof.ssa Donatella Coppini

«Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle.»
Pier Paolo Pasolini e la lingua della modernità

Settore Scientifico Disciplinare L-FIL-LET/12


                  Dottorando                                                                                      Tutore
       Dott.ssa Maria Teresa Venturi                                                           Prof. Neri Binazzi



Coordinatore
Prof.ssa Donatella Coppini

Anni 2015/2018


Qui la tesi




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

PASOLINI E IL LINGUAGGIO NAZIONALE - Intervista a cura di Bartolo Ciccardini - Trascrizione

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"ERETICO e CORSARO"


PASOLINI E IL LINGUAGGIO NAZIONALE

Intervista a cura di Bartolo Ciccardini
Rubrica: Sapere.
Produzione: RAI, Italia, 1968.
Trasmissione: 19 febbraio 1968.
Durata: 4’ 20

(Trascrizione inedita, non integrale.)



Ciccardini:
[…] Abbiamo invitato nel nostro studio Pier Paolo Pasolini che oltre essere stato un noto regista cinematografico è ed è stato prima ancora un cultore dei problemi della lingua italiana. Senta Pasolini, a Lei vorremmo domandare come si è verificato questo fatto per un paese così diviso, così anche pieno di inimicizie municipali abbia avuto molto presto una lingua, unitaria, l’italiano.

Pasolini:
Si è verificato nell’unico modo possibile, cioè attraverso la letteratura., l’italiano praticamente è una lingua, soltanto letteraria per molti secoli, cioè sino praticamente a dieci o vent’anni fa, mentre per esempio il francese si è formato come lingua unitaria per ragioni politiche, burocratiche o statali, 1’italiano è diventato una lingua unitaria che comprende tutta l’Italia, per ragioni puramente letterarie/ripeto e questo prestigio letterario è nato a Firenze in una situazione storica naturalmente molto diversa da, quella attuale.. 1 tre grandi padri letterari dell’italiano e cioè Dante, Petrarca e Boccaccio, si sono imposti al resto della popolazione italiana per ragioni esclusivamente di prestigio letterario.

Ciccardini:
Questo che significa, che la maggior parte degli italiani, fino a quindici o vent’anni fa non parlava quindi l’italiano in realtà.

Pasolini:
No, parlava ... nemmeno ora si parla l’italiano, perché Lei sente, il mio italiano non è il suo... cioè praticamente in questo momento abbiamo un italiano strettamente unitario dal punto di vista linguistico, cioè un giornale di Milano usa più o meno lo stesso italiano che un giornale di Palermo, però quando gli italiani aprono la bocca e parlano, parlano ognuno un italiano particolare, regionale, cittadino o individuale cioè la cosiddetta coinè dialettizzata, è l’italiano dialettizzato.
Ciccardini:
Ma, vicino all’italiano poi ci sono i dialetti veri e propri…

Pasolini:
Certo, che sono delle lingue potenziali che non sono arrivati al grado di lingua, perché sono state soppiantate dal prestigio letterario del fiorentino.

Ciccardini:
Senta Pasolini, ma nella lingua italiana, ci sono un po’ direi le vestigia di questa vicenda italiana unitaria così burrascosa, così dura, così difficile.

Pasolini:
Beh, le vestigia effettivamente non sono poi molte, cioè ci sono moltissime parole del lessico italiano che non sono di origine latina, sono di origine germanica, celtica spagnola, addirittura araba, ma queste sono delle trance assolutamente superficiali e poco significative. In realtà l’italiano linguisticamente è molto unito, è molto unitario la sua derivazione dal latino è molto precisa, anche perché essendo appunto una lingua. - ripeto - una lingua più letteraria che burocratica, comunicativa ecc. ecc., tende ad essere molto fissatrice delle proprie istituzioni linguistiche.

Ciccardini:
Senta un’ultima domanda, vorrei rifarmi ad alcune polemiche recenti che ci sono state a questo proposito, l’italiano va cambiando?

Pasolini:
L’italiano va cambiando nel senso che si sta facendo più veramente unitario, fino a quindici-vent’anni fa, trenta anni fa, non si poteva parlare veramente di un italiano unitario, si può cominciare a parlare adesso, anche per merito della televisione, dei giornali oppure della vita statale che è infinitamente più unita che molti anni fa, le infrastrutture sono enormemente cresciute, mah il centro linguistico dell’italiano – si deve dire – non più letterario e non è più Firenze, ma è tecnico o tecnologico, ed è Milano, cioè per esempio l’italiano è unito secondo me, soprattutto dal linguaggio tecnico, mettiamo la parola frigorifero è una lingua, che tutti gli italiani adoperano, la massaia di Milano, la massaia di Palermo, tutte usano la parola frigorifero, cioè le parole tecniche sono una specie di cemento... non so come dire, di patina che sta livellando e unificando tutto l’italiano.

Ciccardini:
Bene, questo Lei trova che sia migliore, diciamo questa egemonia tecnologica o tecnocratica sulla lingua che non l’egemonia letteraria.

Pasolini:
Mah cosa vuole, non è né peggiore né migliore, questa è la realtà. Io tendenzialmente, certo, tendo ad amare di più alla guida di una lingua nazionale una lingua letteraria ma se questa lingua invece di essere letteraria è tecnologica, non posso fare altro che prenderne atto.


DOTTORATO DI RICERCA IN
Filologia, Letteratura italiana, Linguistica
CICLO XXXI
COORDINATORE Prof.ssa Donatella Coppini
«Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle.»
Pier Paolo Pasolini e la lingua della modernità
Settore Scientifico Disciplinare L-FIL-LET/12

                  Dottorando                                                                                      Tutore
       Dott.ssa Maria Teresa Venturi                                                           Prof. Neri Binazzi


Coordinatore
Prof.ssa Donatella Coppini
Anni 2015/2018



Qui la tesi




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

III B: FACCIAMO L’APPELLO - E. Biagi e P.P.Pasolini - Trascrizione.

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"ERETICO e CORSARO" 



III B: FACCIAMO L’APPELLO

Programma di Enzo Biagi.
Intervista a cura di Enzo Biagi
Regia: Pier Paolo Ruggerini
In studio: Pier Paolo Pasolini, Odoardo Bertani, Agostino Bignardi, Carlo Manzoni, Nino Pitani, Sergio Telmon, Carlo Galavotti, Mario Borgati.
Produzione: RAI, 1971 (ma non andò in onda perché Pasolini era coinvolto un processo a «Lotta Continua» di cui era stato direttore per un numero.)
Trasmissione: 3 novembre 1975
Durata: 60’



(Già pubblicato parzialmente in «Radio Corriere TV», 25 luglio 1971, «La Stampa», 27 luglio 1971 e nei volumi L. De Giusti (a cura di), Il cinema in forma di poesia, Pordenone, Cinemazero, 1979, pp. 145-151; P.P. Pasolini, Interviste corsare, a cura di M. Gulinucci, Liberal pp. 178-181.)



Biagi:
Liceo Galvani 1938. Questi ragazzi con la paglietta, dall’aria lievemente inglese, sono invece di Bologna. Le loro famiglie appartengono in genere alla buona borghesia. I giovanotti portano nella foto ricordo il cappello come...un segno di distinzione, forse si sentono già un po’ diversi dagli altri, molti di loro infatti hanno fatto carriera. A un nostro appello rispondono: Bertani Odoardo, Bignardi Agostino, Manzoni Carlo, Pasolini Pier Paolo, Pitani Nino, Telmon Sergio. C’è anche un professore: Carlo Galavotti. Facciamo un rapido esame delle vostre professioni; qual è il tuo lavoro?

Bertani:
Il giornalista.

Bignardi:
Se lavoro si può chiamare: deputato al Parlamento

Biagi:
Si deve chiamare un lavoro.

Manzoni:
Medico condotto.

Pasolini:
Non so se scrittore o regista, scegliete voi.

Pitani:
Io faccio l’attore, mi chiamo Daniele Vargas, in arte.

Telmon:
Io faccio il giornalista come Bertani.

[…]

Biagi:
Professor Galavotti, lei è qua in mezzo ai suoi ragazzi... era un cattivo, allora, o...

Galavotti:
Non direi. Comunque valeva la classe nella sua composizione. I singoli venivano, in un certo senso, in una classe molto affiatata, molto vivace, ricca di energia, gente di ingegno, i singoli venivano presi nell’insieme... ed è questo che conta veramente in una scuola, in una classe.

Biagi:
Ma lei come li ricorda?

Galavotti:
Beh...ricordo...ricordo Bignardi perché dava una specie di tono, di serietà, di compostezza, di peso alla classe...

Biagi:
Ma il primo della classe?

Galavotti
(continuando) … Poi la vivacità di Pasolini, le vivacità di… delle traduzioni di Pasolini dal greco...

Biagi:
Lei insegna ancora greco?

Galavotti:
Io insegno letteratura greca all’Università di Roma, già da molti anni sono a Roma.

Biagi:
Lei come trova i ragazzi di allora a confronto con i ragazzi di oggi?

Pitani:
Questa è una bella domanda!

Galavotti:
Credo che questa stessa nostra riunione e la domanda che mi ha fatto lei dimostri proprio la diversità di costume. In fondo queste riunioni tra amici, compagni di scuola, si facevano anche trenta-quarant’anni fa: si risolvevano in una bicchierata, in una allegria, in una scampagnata, si parlava di tutto e non c’era mai un professore, credo. Adesso invece mi pare che voi mi state ponendo un problema, un confronto, e questo corrisponde certamente ad una maggiore intensità spirituale, di ricerca, di indagine, di problemi che oggi la gioventù si pone e che si pongono anche gli uomini. Quella classe era bella perché spensierata, attiva, intelligente, impegnata, ma non aveva forse il tormento dell’indagine, sentiva di più il desiderio di leggere, imparare, soprattutto di leggere, di capire i testi. Ciò che tentavo di fare era impegnarmi sulla responsabilità di uno studio che fosse intelligenza di valori diversi dalla nostra civiltà e soprattutto - lo dico a Pasolini - intelligenza di forme diverse di espressione. Il gusto di tradurre dalla lingua che ha un peso lessicale diverso, una sintassi diversa e riuscire a rendere motivi e valori di quel testo, trasferiti in un linguaggio che ha un altro significato, un’altra impostazione ... lo credo che questo sia una delle opere dell’intelligenza, una maniera di impegnare l’intelligenza a una precisione, a una logica, a una chiarezza mentale.

Biagi:
Pasolini, lei a scuola era molto bravo?

Pasolini:
Ma, molto no. Ero un po’ discontinuo... Cioè sì ero sull’otto, però avevo delle discontinuità. Per esempio in greco delle volte prendevo otto, delle volte un misero sei, ecco... Ma quello che amavo soprattutto era il latino più del greco - visto che il professor Galavotti ha parlato di questo - e mi piaceva, più che tradurre per scritto tradurre oralmente. Leggevamo le Egloghe in classe, a voce alta, in latino e traducevamo improvvisando. Questo mi piaceva molto.

Biagi:
Quali sono le illusioni che lo studente Pasolini ha perduto?

Pasolini:
Ma nessuna. Assolutamente nessuna... […] La domanda mi sorprende, perché la mia vita stessa è caratterizzata dal non aver perso nessuna illusione.

Biagi:
Lei non si è mai sentito, per esempio, vittima dell’ingiustizia?

Pasolini:
Sì, ma son casi personali che non ho mai voluto generalizzare.

Biagi:
Chi ha più influito sulla sua vita: suo padre o sua madre?

Pasolini:
I primi tre anni mio padre, che ho completamente dimenticato, e poi mia madre.

Biagi:
E suo padre che lavoro faceva?

Pasolini:
Era ufficiale di fanteria, a Bologna, era capitano.

Biagi:
Lei aveva... un fratello?

Pasolini:
Sì.

Biagi:
Andavate molto d’accordo?

Pasolini:
Sì. Cioè litigavamo molto, come succede tra fratelli, però fondamentalmente ci volevamo molto bene e andavamo molto d’accordo, sì.

Biagi:
Lui è stato partigiano?

Pasolini:
È stato partigiano, sì.

Biagi:
E lei no?

Pasolini:
Beh, io non ero partigiano armato, ero - diciamo così - partigiano ideologico, ero con lui, ero in rapporto con lui, ci scrivevamo, io scrivevo articoli per i suoi giornali... partigiani...ecc... Lui era armato e combatteva, era, come dire, di leva in quei giorni, in quegli anni....

Biagi:
Ho letto di recente in un’intervista che... lei ha detto che suo padre e sua madre non andavano d’accordo; come influiva questo su di lei, e su suo fratello?

Pasolini:
Su mio fratello ... non lo so, credo che agisse in modo normale, cioè come sempre succede in casi normali, il padre e la madre non vanno d’accordo e il figlio accetta la situazione. Per me invece è stata una tragedia...una vera tragedia.

Biagi:
I racconti che le faceva sua madre nell’infanzia, hanno avuto un peso nella formazione del suo carattere?

Pasolini:
Mah... i racconti non tanto...la sua ideologia sì, che era formata da tutte quelle illusioni di cui lei mi parlava prima: sono l’illusione dell’essere buoni, essere bravi, generosi, darsi agli altri, credere, sapere, ecc… ecc...

Biagi:
La sua famiglia era religiosa?

Pasolini:
No. Mio padre, che era nazionalista, e se non proprio fascista quasi, aveva una religione puramente formale: cioè in chiesa la domenica, alla messa grande, dove vanno i borghesi e i ricchi. Mia madre, invece, aveva una religione contadina, rurale, presa da sua nonna, la mia bisnonna. Una religione molto poetica, ma per niente convenzionale, per niente confessionale.

Biagi:
Da giovane, lei era triste?

Pasolini:
(agli altri) Ero triste?

Altri:
No.

[…]


Biagi:
Il professor Galavotti ha detto che allora c’era un sentimento dell’amicizia e che questa generazione, alla quale anch’io appartengo, non aveva tutti i problemi che hanno i giovani d’oggi. Invece, è un ricordo personale, a me pare che già allora ci fossero tanti problemi, una specie di vaga infelicità che sentivamo, non so, dai film francesi che arrivavano allora, da una certa letteratura, anche di carattere popolare, c’erano i romanzi ungheresi delle generazioni infelici, e altre cose che hanno avuto una certa influenza anche sulla formazione del nostro carattere, cosa ne dice lei, Bertani?

Bignardi:
Mah, io penso...sono poco amico della mia giovinezza e della memoria che quindi siamo sollecitati a rinverdire. Sono poco amico, perché è stata una giovinezza quieta, e anche se dotata di virtù come quella dell’amicizia, che ci portava poi a trovarci insieme, addirittura a recitare insieme nelle nostre case, tuttavia io desideravo assolutamente quasi dimenticarla. E pensare a me da oggi in avanti, mi ritengo adesso continuamente in uno stadio aperto e penso che la giovinezza non mi ha...

Biagi:
... condizionato in niente.

Bertani:
No, mi ha assolutamente condizionato, mi ha assolutamente frenato, e... troppo tardi forse è cominciata una possibilità di diventare uomo. Nella mia adolescenza non sono diventato uomo.

Biagi:
Telmon, come ve la cavavate con la G.I.L., le adunate, la premilitare, il sabato?

Telmon:
Devo dire che per certi aspetti era abbastanza divertente. Perché era l’unica maniera di trovarci fuori della scuola. E direi che avevamo una maggiore libertà di discussione quando andavamo in gruppetti alle adunate e non c’erano solo le adunate - io non rivaluto nulla del fascismo, assolutamente - io dico che in quel periodo...

Biagi:
Stiamo facendo della biografia.

Telmon:
... era un po’ un modo di incontrarci. Al G.U.F. io non ci sono quasi stato. Bignardi, mi pare, forse tu c’eri... e c’erano delle pubblicazioncelle…

Bignardi:
Come «Architrave».

Biagi:
Importanti per noi...

[…]

Biagi:
Lei Pasolini come se la cavava con queste adunate col moschetto?

Pasolini:
Mah... io sono d’accordo con Telmon; cioè da una parte ho un ricordo spaventosamente deprimente, perché si stava per delle ore fermi in certe viuzze battute dal sole e allora lì i ragazzi, presi dalla noia, dalla frenesia, cominciavano a dire delle stupidaggini, delle follie... i discorsi che si fanno tra adolescenti che mi deprimevano in modo atroce. Però d’altra parte ha ragione Telmon. Per esempio io e Telmon una volta siamo andati a sciare, mi pare...

Telmon:
A Cortina.

Pasolini:
A Cortina, c’era una specie di campeggio spaventoso, miserando, e si facevano spesso dei discorsi antifascisti, appunto; l’antifascismo, almeno il mio, è nato più o meno nell’anno di Bignardi, ecco. Cioè lui ha letto per conto suo Baudelaire, invece l’anno dopo, o lo stesso anno...non ricordo, il professor Antonio Rinaldi, che è un poeta, che scrive...è venuto a fare il supplente e non sapendo che cosa fare con noi...credo che fosse supplente di Patrizi, del professore di storia dell’arte...

Altri:
...di storia dell’arte... di storia dell’arte...

Pasolini:
...e non sapendo che cosa dire, era un ragazzo anche lui, ci ha letto una poesia di Rimbaud: ecco, in quel momento lì è scattato in me l’antifascismo, proprio in quel momento credo.

[…]

Biagi:
Lei Pasolini credeva, è una domanda così piuttosto astratta, che Bignardi sarebbe diventato un giorno deputato del Partito Liberale Italiano?

Pasolini:
No, io pensavo che lui avrebbe proseguito la carriera letteraria che aveva cominciato. Lui ha pubblicato un libro di poesie, San Paolo e altre poesie...

Biagi:
Firmando Augusto Bignardi, perché allora andavano di moda gli scrittori del «Frontespizio», no?

Bignardi:
Ma il guaio è che ne ho pubblicato anche un secondo libro di poesie, ma poi che... .il guaio è che qualche poesia la scrivo anche adesso, ma la tengo rigorosamente nascosta, perché mi pare che il vice-segretario generale di un partito non so se possa permettersi il lusso di scrivere cose letterarie.

Pasolini:
Perché?

Biagi:
Beh, non vedo...

Bignardi:
Non lo so, può darsi che a un certo momento mi decida a tirarle fuori....

Pasolini:
Fossero belle, sì.

Bignardi:
Può darsi anche, ma non so se sono belle.

Pasolini:
Non deve... un vice-segretario di un partito non può pubblicare poesie brutte.

Bignardi:
Non so se sono belle o brutte, può darsi che ricorra alla consulenza letteraria di Pasolini, a questo riguardo, un giorno o l’altro.

Biagi:
Tu Bertani, che scrivevi poesie e che ne hai scritte, credevi che Pasolini un giorno sarebbe diventato uno scrittore e un poeta famoso?

Bertani:
Beh, sì... lui già dal ginnasio aveva questo timbro di scrittore sicuro, era...

Bignardi:
Ti ricordi del bellissimo tema su Pascoli, di Pasolini. Ricordo un bellissimo tema, era un commento a una poesia di Pascoli, La servetta di Monte.

[…]


Biagi:
Telmon, che cosa era per te e per i tuoi compagni la politica allora?

Telmon:
Alcuni di noi cercavano, come diceva Bignardi, il fascismo vero, altri, tra i quali mi metto anch’io, scoprirono che non c’era nessuna possibilità di evoluzione in quel senso e si diedero a letture, e questi nostri professori effettivamente, Valli, Gabelli, questi professori del Galvani, professori di filosofia che sono stati direi il nerbo di questa conversione all’antifascismo della mia generazione, le letture che ci davano questi individui - e Antonio Rinaldi che ha menzionato prima Pasolini - ci portavano rapidamente ad avere una visione del tutto diversa della politica e dell’avvenire del nostro Paese. E ricordo le discussioni con Pasolini. Pasolini già allora capiva che il fascismo non ci avrebbe condotto che a delle avventure, eravamo su questo perfettamente d’accordo, però già c’erano delle differenze sulla... sul modo di vedere il domani, cioè la democrazia, verso la libertà era comune fino ad un certo punto, perché c’erano posizioni già più avanzate, posizioni diremmo oggi più moderate e ricordo che Pasolini quando fece il salto lo fece verso posizioni estremamente avanzate.

Biagi:
E ho visto anche oggi, il più ribelle fra tutti voi è, sembra Pasolini, quello che sfida di più il compromesso. Cosa ne pensi tu, Bignardi?

Bignardi:
Guarda, Pasolini era uno strano tipo di ribelle, perché questa sua ribellione non si esternava, era una specie di ribellione interna, una specie di... non so... vorrei dire di fuoco intimo. Intanto c’è da dire che Pasolini, almeno come io lo ricordo allora, non era una persona di facilissima comunicativa, era una persona che aveva una vita interna molto ricca, ma che nei rapporti umani non è che proprio si buttasse completamente fuori, era in fondo... era uno che stava per conto suo anche quando era in compagnia.

Biagi:
E delle sue proteste attuali, di questo suo impegnarsi di oggi cosa ne pensa?

[…]

Bignardi:
[…] Io avrei visto la sua carriera come quella di un letterato puro, ecco, non avrei immaginato certe forme di protesta che poi ha portato fuori, e se Pasolini me lo consente, se Pier Paolo me lo consente, certe volte, ancora oggi, nelle sue produzioni attuali vedo una specie di conflitto fra il letterato puro, che egli è, e certe forme di protesta politica perché quasi lui ha paura di essere diminuito come uomo a essere solo letterato, vuole anche impegnarsi, adesso questa è un’interpretazione... io ho scritto una recensione del suo primo libro di poesie, però non mi fiderei a scrivere una recensione, o un articolo, su tutto il personaggio e lo scrittore Pasolini .

Biagi:
Senta, Pasolini, perché ogni sua opera, ogni suo gesto suscita sempre polemiche?

Pasolini:
Mah, forse per il conflitto di cui parlava Agostino adesso. Cioè, perché se c’è una tentazione violentissima verso la letteratura, per esempio anche nell’ultimo libro di poesie, c’è proprio questa specie di opposizione che non è dialettica, è veramente, meramente oppositoria, non è che da una parte ci sia l’amore per la letteratura, dall’altro ci sia l’odio per la letteratura e poi ci sia una bella sintesi che trascende a tutte e due...no, non c’è questo. C’è un amore oppositorio inconciliabile, la figura che predomina le mie opere è quella che Fortini chiama la sineciosi o che si potrebbe chiamare oxymoron, cioè il definire le cose per opposizione: ragazza bionda e mora, per esempio. Ora, se la figura centrale nelle mie opere è questo oxymoron, questo definire per opposizione, questo insanabile contrasto, può darsi che questo dia alle mie opere l’impossibilità di essere consumate in modo normale, quindi susciti le reazioni di cui lei parla.

Biagi:
E come ci si sente ad essere tanto contestato?

Pasolini:
Mah, le cose non arrivano molto, in realtà, perché chi lavora è impegnato nel suo lavoro; poi i discorsi degli altri li fanno tra di loro, in parte arrivano, in parte no, non sono abbonato a «L’Eco della Stampa», quindi non leggo niente di quel che si dice di me, evito di ascoltare discorsi fatui, ogni tanto mi arrivano delle cose, insomma non me ne occupo molto.

Biagi:
Lei ha scritto: «Sul piano esistenziale io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche mi porta a una forma di anarchia apocalittica». Che mondo sogna?

Pasolini:
Per un certo tempo, da ragazzo, ho creduto nella rivoluzione come credono i ragazzi di adesso. Adesso comincio a crederci un po’ meno, quindi, a questa palingenesi... sono in questo momento apocalittico. Cioè io vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze, quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro.

Biagi:
Mi pare che lei non creda più ai partiti. Che cosa ha da proporre in cambio?

Pasolini:
No, perché? Se lei mi dice che non credo più ai partiti mi dà del qualunquista, invece io non sono un qualunquista, tendo più verso una forma anarchica che verso una scelta ideologica di qualche partito, questo sì, ma non è che non creda ai partiti, ecco.

Biagi:
Perché lei sostiene che la borghesia sta trionfando, ad esempio? Ma lei non critica anche il Partito Comunista contemporaneamente, non si pone come un precursore della contestazione?

Pasolini:
Sì, questo è vero. Oggettivamente è vero. Insomma, la borghesia sta trionfando in quanto la civiltà neocapitalistica è la vera rivoluzione della borghesia. Non vedo altre alternative, perché anche nel mondo sovietico, in realtà, la caratteristica dell’uomo non è tanto quella di aver fatto la rivoluzione e di viverla, ma quella di essere un consumista. La rivoluzione industriale, in un certo senso, livella tutto il mondo.

Biagi:
Lei si batte contro l’ipocrisia, sempre. Quali sono i tabù che vuole distruggere: le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alla realtà più cruda, la mancanza di sincerità nei rapporti sociali?

Pasolini:
Mah, questo l’ho detto fino a dieci anni fa. Adesso non dico più queste cose, perché non ci credo. Come le ho detto, la parola «speranza» è cancellata completamente dal mio vocabolario, quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza, perché non ci credo più.

Biagi:
Lei non ha speranze?

Pasolini:
No.

Biagi:
Vive giorno per giorno?

Pasolini:
Vivo giorno per giorno, sì. Non ho più quelle speranze che sono alibi, ecco...

Biagi:
Questa società che lei non ama, in fondo le ha dato tutto: le ha dato il successo, una notorietà internazionale...

Pasolini:
Il successo non è niente...

Biagi:
Che cosa è per lei il successo?

Pasolini:
Il successo è una forma... l’altra faccia della persecuzione, non so come dire; e poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo, può esaltare al primo momento, può dare delle piccole soddisfazioni, delle certe vanità, ma in realtà appena ottenuto si capisce che è una cosa brutta. Per un uomo il successo, per esempio il fatto di aver trovato i miei amici qui, alla televisione, non è bello, per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video e a ricostruire qualche cosa di reale, di sincero, ma come posizione, la posizione è brutta, è falsa.

Biagi:
Perché, cosa ci trova di così anormale?

Pasolini:
Perché la televisione è un medium di massa, e il medium di massa non può che mercificarci e alienarci.

Biagi:
Ma oltre ai formaggini e al resto, come lei ha scritto una volta, questo mezzo che porta soprattutto i formaggini in casa, porta adesso le sue parole. Noi stiamo discutendo tutti con una grande libertà, senza alcuna inibizione, o no?

Pasolini:
No, non è vero.

Biagi:
Sì, è vero. Lei non può dire tutto quello che vuole?

Pasolini:
No, non posso dire tutto quello che voglio.

Biagi:
Lo dica.

Pasolini:
No, non lo potrei, perché sarei accusato di vilipendio del codice fascista italiano. In realtà non posso dire tutto, e poi, a parte questo, se oggettivamente di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose, quindi mi autocensuro. Ma a parte questo... non è tanto questo... è proprio il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.

Biagi:
Beh, io penso che in certi casi sia anche un rapporto alla pari, lo spettatore che è davanti al teleschermo rivive attraverso le nostre vicende anche qualcosa di suo, non è in uno stato di inferiorità. Perché non può essere alla pari?

Pasolini:
Sì, teoricamente sì, questo può essere giusto. Alcuni spettatori che culturalmente, per privilegio sociale, ci sono pari prendono le nostre parole e se le...ma in genere proprio il video...le parole che cadono dal video, cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, anche le più sincere, è proprio il fatto...

Bignardi:
Io ho l’impressione che Pasolini abbia fatto una dichiarazione di fede aristocratica in questo momento tremenda, cioè la sua contestazione e la sua incomunicabilità...e in sostanza lui dichiara l’appartenenza ad un ceto intellettuale che è in certa misura incomunicabile, ora questo qui io lo vorrei definire una definizione di aristocrazia...

Pasolini:
Ma io non ho detto questo!

Bignardi:
In senso buono, intendiamoci, in senso di aristocrazia intellettuale, di aristocrazia etica, anche, se vogliamo...

Biagi:
Non sono d’accordo.

Pasolini:
Ma io non ho detto questo ... non ho detto proprio questo!

Biagi:
... io ho avuto l’impressione di una persona estremamente... che vive in una grande solitudine e può magari sentirsi vittima o incompreso e che... in ogni caso rassegnato a quelli che sono i fatti, è esatto?

Pasolini:
Avete capito malissimo, io adesso non parlo di voi.... […]

Biagi:
Non so, gli altri che impressione... Telmon?

Telmon:
No, Pier Paolo ha sempre avuto una visione affatto aristocratica della realtà, è un uomo che ha sempre sentito profondamente le cose, ha sempre sentito profondamente i rapporti umani, ora io credo che lui interpreti questo mezzo televisivo come un diaframma intermedio di cui non c’è nessun bisogno per i rapporti tra uomo e uomo, per i rapporti tra la società…

Biagi:
Lei ha allargato il discorso alla sua visone della società, del mondo, non soltanto a…

Telmon:
Per me è eccessivamente pessimista, Pier Paolo, ma io che ricordo i suoi grandi ottimismi posso capire che possa... non possa che essere pessimista e scettico.

Pasolini:
Il grande pessimismo implica sempre un grande ottimismo, questo è certo e viceversa, ma scusate...

Bignardi:
Torniamo nella dialettica dei contrari....

Pasolini:
Torniamo alla sineciosi. No, però vorrei chiarire una cosa che mi sembra importante. Cioè io non parlavo di noi in questo momento alla televisione. Parlavo della televisione in sé, come medium di massa, come mezzo della circolazione di massa; ammettiamo che oltre a noi qui ci sia anche una persona assolutamente umile, un analfabeta interrogato dall’intervistatore, l’insieme della cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene sempre data come da una cattedra. Il parlare dal video è parlare sempre ex-cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità, da eccetera eccetera.

Biagi:
Ma credo che la stessa cosa possa avvenire con un libro, con un giornale, secondo me... Lei è stato, molti anni fa, per Ragazzi di vita uno dei primi scrittori italiani chiamati a comparire nei tribunali con l’accusa di oscenità, ed è stato difeso, se ricordo bene, da Carlo Bo, da un critico cattolico. A distanza di tempo come le pare questo processo? Come giudica certi scrittori erotici di oggi, e questo dilagare dell’erotismo, nel cinema, nelle librerie, nelle edicole?

Pasolini:
Mah, per me l’erotismo nella vita è una cosa bellissima, e anche nell’arte, è un elemento che ha diritto di cittadinanza in un’opera come qualsiasi altro. L’importante è che non sia volgare. Per volgarità non intendo quello che si intende generalmente, ma una disposizione razzistica nell’osservare l’oggetto dell’eros, ecco... La donna come compare nei film erotici o nei fumetti erotici è vista razzisticamente come un essere inferiore, allora in questo caso è vista volgarmente, in questo caso allora l’eros è puramente una cosa commerciale, volgare.

Biagi:
Che ne pensa dei giovani? C’è una sua definizione degli appartenenti al movimento studentesco piuttosto aspra: imberbi coronati di barba, se la ricorda? Come erano gli allievi del Galvani? Che differenza c’è tra gli imberbi di allora e quelli di oggi?

Pasolini:
Mah, in queste cose faccio delle affermazioni che per quanto sgradevoli in un senso e timide dall’altro possono sembrare reazionarie. Quel gruppo di giovani della fotografia era un gruppo di giovani tutto sommato obbedienti, ma non soltanto obbedienti al regime, perché fino a un certo punto noi eravamo obbedienti al regime, non sapevamo che ci fosse altro, eravamo immersi dentro questa atmosfera, non avevamo possibilità di alternative o di scelte; ma nel momento in cui abbiamo fatto un’altra scelta, cioè ognuno per la sua strada (io allora verso il Partito d’Azione, mettiamo, Bignardi verso il liberalismo, ecc...), nel momento in cui siamo diventati antifascisti non lo siamo diventati aggressivamente, abbiamo anche lottato, diciamo...mio fratello è morto, altri miei amici sono morti lottando, ma non è mai stata una lotta aggressiva, feroce, fatta con gli stessi sentimenti delle persone contro cui lottavamo.

Biagi:
Lei ha detto durante un dibattito: «Voi studenti siete figli di papà e io vi odo come odio i vostri padri».

Pasolini:
Sì, lo ripeto. Ma questo non riguarda, diciamo così, i movimenti studenteschi extraparlamentari e i gruppi avanzati, ideologicamente pieni, non so come dire, «Lotta continua» o «Potere operaio», riguarda la massa amorfa degli studenti.

Biagi:
Come mai un marxista come lei trae tanto spesso ispirazione da soggetti che escono dal Vangelo o dalle testimonianze di seguaci di Cristo?

Pasolini:
Mah, torniamo sempre alla cosa che ha adombrato Bignardi, cioè a quel mio vivere in maniera molto interiore le cose. Cioè evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, laico, vedo sempre le cose come un po’ miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così, non confessionale, ma in un certo qual modo religiosa del mondo. Ecco perché investo questo mio modo di vedere le cose anche nelle mie opere.

Biagi:
Il Vangelo la consola?

[…]

Pasolini:
Mah, non cerco consolazioni. Cerco umanamente, ogni tanto, qualche piccola gioia, qualche piccola soddisfazione, ma le consolazioni, proprio, sono sempre retoriche, insincere, irreali... Ah, lei dice il Vangelo di Cristo? No, in questo caso proprio escludo totalmente la parola «consolazione» ...

Biagi:
Che cosa è per lei il Vangelo?

Pasolini:
Per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera del pensiero che non consola, che riempie, integra, che rigenera, non so come dire... che mette in moto i propri... ma la consolazione... che farsene della consolazione? «Consolazione» è una parola come «speranza» ...

Biagi:
E quali sono i suoi nemici?

Pasolini:
Mah, non lo so, non li conto... sì, sento ogni tanto delle ondate di inimicizia, delle volte inesplicabile... che non ho voglia di occuparmene molto.

Biagi:
Quali sono, invece, le persone che ama di più?

[…]

Pasolini:
Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese, almeno nella mia nazione – ma forse anche in Francia e in Spagna – è qualcosa che porta sempre delle corruzioni e a delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si trova ad altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice.

Biagi:
E se dovesse fare dei nomi? Per esempio lei ha avuto molta amicizia per Maria Callas, questa donna straordinaria, che cos’è che l’affascinava in lei, o che l’affascina?

Pasolini:
M’affascinava in lei la violenza totale dei sentimenti, cioè quando lei prova un sentimento non è mai un piccolo sentimento, mediocre o trattenuto, quando prova un sentimento lo prova totalmente senza freni. È questa ricchezza sentimentale che mi piace soprattutto in lei.

Biagi:
Lei non beve, non fuma, mangia poco, potrebbe fare delle corse da maratoneta... che hobby ha?

Pasolini:
Il gioco del pallone e mi è rimasto fin da allora, ecco quando lei prima ha parlato di divertimenti tendevo disperatamente a parlare del pallone.

Biagi:
Eh sì, lei ha detto anzi che il gioco del pallone è l’ultima rappresentazione sacra, o no?

Pasolini:
In un certo senso sì, beh, insomma...

Biagi:
Del nostro tempo...

Pasolini:
Adesso non... se adesso affermiamo alla televisione questo, ecco, vede cos’è la televisione, se noi diciamo questo alla televisione diventa immediatamente un’affermazione... un’affermazione apodittica, capito? Invece... l’ho detto così, un po’ metaforicamente, va presa con prudenza, insomma, questa mia affermazione. Sa perché l’ho detto? Perché mentre per esempio la televisione è un mezzo meccanico di diffusione, io in questo momento sono un’immagine in uno schermo, mentre il pallone è una rappresentazione dove coloro che danno la rappresentazione, cioè i giocatori, sono in carne ed ossa di fronte ad altri spettatori in carne ed ossa. Quindi un rapporto da singolo
a singolo, fisico, reale, materiale, come era il teatro nei suoi grandi momenti e come adesso purtroppo non riesce ad essere più.
Biagi: Qual è stato il suo più grande dolore?

Pasolini:
Detto così a bruciapelo non so rispondere, probabilmente la morte di mio fratello, oggettivamente, soprattutto il dolore di mia madre alla notizia della morte di mio fratello.

Biagi:
Lei ha detto che invecchiando si diventa allegri. Perché?

Pasolini:
Perché si ha meno futuro e quindi meno speranze, e questo dà un grande sollievo.

[…]

Biagi:
Secondo lei gli intellettuali italiani scendono a troppi compromessi […]. Che tipo di compromessi accettano gli intellettuali italiani?

Pasolini:
Mah! Gli intellettuali italiani, diceva? Ma per intellettuali intende quelli specializzati, oppure mettiamo un medico è un intellettuale. Lo dice in senso marxista oppure...

Biagi:
No, lo dico in senso suo. Io ho letto in un suo pezzo che gli intellettuali italiani accettano troppi compromessi. Che cosa vuol dire? Chi sono? Cosa fanno per accettare questi compromessi?
[…]

Pasolini:
Il compromesso si può riassumere in uno solo: quello di accettare in modo acritico - perché se fosse critico lo si potrebbe anche ammettere. anzi credo che sia inevitabile - in un modo acritico l’integrazione.

Biagi:
Non l’accetta anche lei?

Pasolini:
Sì, ma in modo critico (ecco che mi ero già premunito). Cioè certo non posso non accettarla, perché devo essere un consumista per forza, anch’io mi devo vestire, devo vivere, non soltanto... devo scrivere, devo fare dei film, e quindi devo avere degli editori, dei produttori...

Bignardi:
Quindi produci anche tu per il consumo...

Pasolini:
Ma certo...

Bignardi:
Un consumo intellettuale, ma produci per il consumo...

[…]

Pasolini:
La mia produzione consiste nel criticare la società che in un certo modo mi consente, almeno per ora, di produrre in qualche modo.

Bignardi:
La società ha sempre tremendamente amato chi produceva dicendo di non amarla.

[…]

Pasolini:
Sì, è vero, la società cerca di assimilare, di integrare, certo: è un’operazione che deve fare per difendersi. Però non sempre riesce, a volte ci sono delle operazioni di rigetto. Tanto più che poi adesso non possiamo parlare in realtà di poesia come di merce: cioè io produco, tu dici, ed è vero, ma produco una merce che è in realtà inconsumabile, e quindi c’è un rapporto strano tra me e i consumatori. […] Cioè io produco una merce, che dovrebbe essere la poesia, che è inconsumabile: morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata.

Biagi:
E quando fa il Decamerone?

Pasolini:
Quando faccio il Decamerone faccio un’opera la quale è probabilmente, apparentemente, meno ideologica di altre. […] Mi son divertito perché... per le ragioni che dicevo prima: perché con l’avanzare dell’età cala il futuro, calando il futuro calano i problemi, calano le speranze, cala la retorica, e quindi si è più allegri.
E ho fatto l’opera di uno che comincia ad essere un po’ più allegro: il Decameron in qualche modo esprime questo mio momento, ecco.

[…]



Fonte:

DOTTORATO DI RICERCA IN
Filologia, Letteratura italiana, Linguistica
CICLO XXXI
COORDINATORE 
Prof.ssa Donatella Coppini
«Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle.»
Pier Paolo Pasolini e la lingua della modernità
Settore Scientifico Disciplinare L-FIL-LET/12

                  Dottorando                                                                                      Tutore
       Dott.ssa Maria Teresa Venturi                                                           Prof. Neri Binazzi


Coordinatore
Prof.ssa Donatella Coppini
Anni 2015/2018







Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi



Pasolini, "Ai margini di Babilonia" - Il popolo di Roma, giovedi 30 agosto 1951

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"ERETICO e CORSARO"

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma


Ai margini di Babilonia
Pier Paolo Pasolini
Il popolo di Roma 
Giovedi 30 agosto 1951



È molto difficile incontrarsi, nelle letture dialettali in un libro come questo di Franco de Gironcoli (F.d.G.: Elegie in friulano, Edizioni di Treviso, 1 95 1 ). C'è tanta asciuttezza nei suoi ritmi elementari, nelle sue piccole quartine perdute in mezzo alla pagina, nate a stento si direbbe, ma intere, tutte d'un pezzo, che quanto di volgare solitamente in torbida i testi in Volgare - rispetto alla koinè letteraria - pur senza una sua poetica viene tutto depositato nel fondo; ne risulta un libretto onesto e delizioso, impacciato e squisito. Che già il friulano non sia un dialetto dell'italiano, è molto - apparterrebbe per l'Ascoli al ceppo delle lingue ladine - ma se pure si accreditasse la nuova teoria del Battisti che lo vuole dialetto alpino, ossia veneto in una fase anteriore, la sua arcaicità è tale che praticamente lo differenzia in modo determinante: è molto nel senso che permette un immediato distacco dai colorismi plebei del vernacolo. Ha già potenziale una sua pronuncia letteraria. Tanto più per il de Gironcoli, che dà alla sua varietà goriziana una patina arcaica, presa dal friulano del Seicento usata dai barocchi dialettali e in specie dal Colloredo. In queste poesie, scritte come casualmente dal '43 al '45 - diciotto in tutto, e molto brevi - il fondo sentimentale è unico, indistinto, si direbbe addirittura informe: da un amaro risentimento per la prosaicità del mondo a una elementare nostalgia per l'infanzia perduta insieme con la particolare Gorizia dell'infanzia. De Gironcoli è forse incapace di darsi altro che le immagini ultime, già fatte di questo a priori sentimentale. Qualcosa che si avvicina a certa stupefacente, insolubile paratassi dei temi dei fanciulli: ma coltivata nel magma non certo tenero di un medico ormai cinquantenne venuto ai versi senza aloni sentimentali, con lucida ingenuità.

Da Gorizia, scendendo giù con l'Isonzo all'Adriatico, dietro a valli e bonifiche, in vista ideale di Trieste, ma di luce veneziana, si incontra l'isola di Grado. A Trieste un secolo fa si parlava ladino: a Grado, in ritardo nei confronti del grande porto, si parla un dialetto che non è più friulano e non è ancora veneto, un dialetto che avrebbe fatto fremere di entusiasmo linguistico il D'Annunzio della Nave (e, naturalmente, del francese arcaicizzante). E dai Fiuri de tapo, pubblicati nel ' 1 2 alla recente <<Ultima refolada>>, dunque quasi quarant'anni di attenzione poetica, Biagio Marin ha ridato fuori dal tempo la vicenda della sua «isola» (l canti de l'isola, Del Bianco editore, Udine 1 95 1 ) , vicenda minima, annate inconsistenti come ore, ma ore interminabili come annate, che finisce con l'elidersi in un tempo indifferenziato, il non-tempo del mare. È una lingua senza colori e senza sorprese, nobile e elementare: prigioniero di questa lingua isolata, caduto nella sua mancanza di tempo, nella sua marginalità, nel suo albore, Marin rimane quasi privo di un contenuto, preso in una ripetizione di piccoli motivi, piccoli come i progressi del tempo. È un minimo Pascoli dialettale (finalmente), oggettivato nelle cose o persone che sono poco più che cose di cui si occupa, amalgamato col suo malinconico e bianco Adriatico. Tecnicamente la sua immagine è sempre un po' sfuocata, in leggera dissolvenza, troppo aperta e facile (da «la luna bianca lumina la tera» in Fiuri de tapo a «bianco e pesante navega un corcal - sora i fondali vasti e le barene>> ne L'ultima refolada non c'è come si vede evoluzione di tecnica), la massima dote di questa sua immagine è una eleganza e un candore che fanno pensare a certo Saba, o a quel Giotti che è di Saba l'ideale supplemento, in un certo senso la purificazione. Potendo antologizzare citare potremmo raccogliere da questo immobile canzoniere di Marin una dozzina di poesie veramente belle: del resto anche tutto l'abbondante connettivo non poetico possiede una dignità e una purezza che lo tengono quasi sempre al di fuori dall'orbita dialettale.

Cosa che non si può dire invece per questo nuovo libretto di E.A. Mario <<Pampuglie>> ed. R. Pironti, Napoli 195 1 ), chiuso tutto dentro il limite che il dialetto impone a chi lo usa secondo la tradizione (che è idealmente orale). Pieno di una facile e puerile saggezza, di una facilissima polemica di costume, inutilmente svuotato, in fondo, dei colori napoletani, quando al loro posto è stato poi usato un colore genericamente vernacolo. Resta però da dire che al Mario non manca qualche buona carta: intanto i suoi novenari duri, inamabili, prosaici, potevano già essere una notevole scoperta tecnica per cogliere una Napoli che sarebbe piaciuta per esempio a Rea (cfr. Le due Napoli, «Paragone» n. 19) così, senza rima, o rimati a caso, con qualche pezzo linguistico privo dei soliti canori chiaroscuri napoletani, ma agro, romanzo. E c'è poi una poesia 'E miracule d''o sole tutta risolta, che si potrebbe adoperare per una raccolta di poesia dialettale moderna. Forse polemicamente, la . tradizione digiacomiana qui manca: purtroppo, del resto, questa tradizione è passata ai canzonettisti pseudo-anonimi, è divenuta la tradizione tout court, con quanto di immorale e di stupido esso comporta.

Pier Paolo Pasolini
Il popolo di Roma
giovedi 30 agosto 1951
Oggi anche in:
Saggi sulla letteratura e sull'arte Tomo I
Meridiani _ Mondadori
Walter Siti e Silvia De Laude

(trascrizione curata da Bruno Esposito)

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

CONTROCAMPO: Italiani, oggi - In studio: Pier Paolo Pasolini - Sabato 19 ottobre 1974. Trascrizione

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"ERETICO e CORSARO"


Vedi anche:

CONTROCAMPO: Italiani, oggi

Programma a cura di Giuseppe Giacovazzo


In studio: Pier Paolo Pasolini; 

Giuseppe Cassieri, scrittore; 

Maurizio Ferrara, giornalista; 

Franco Ferrarotti, professore; 

Filippo Maria Pandolfi, parlamentare; 

Giovanni Russo, giornalista e meridionalista.


Produzione: RAI, Italia, 1974.
Trasmissione: 19 ottobre 1974
Durata: 55’

L'Unità - Sabato 19 ottobre 1974

Stampa Sera - Sabato 19 ottobre 1974

Giacovazzo:
Fascisti e antifascisti, che sembrerebbero ormai tutti uguali, anche somaticamente, secondo quel che dice Pasolini. Naturalmente anche questa volta grosse personalità si sono mosse per contestare la tesi di Pasolini, e tra questi Franco Ferrarotti […] un professore di sociologia, Giuseppe Cassieri, scrittore, Giovanni Russo, giornalista e meridionalista, un altro giornalista, Maurizio Ferrara, e un parlamentare, Filippo Maria Pandolfi.
A Pasolini vogliamo subito chiedere di chiarirci una cosa: Pasolini non è tenero con i valori della vecchia Italia sottomessa, sanfedista, contadina, come ci ha detto nell’articolo; non è tenero però neanche con la nuova borghesia, che ha sepolto questi vecchi valori. Allora, cosa vuole Pasolini? Perché rimpiange con il cuore questa Italietta rustica e paesana che egli invece non accredita poi con il ragionamento e con la sua mente? La parola a Pasolini.

Pasolini:
Io non sono né un sociologo né un politico, e quindi il mio modo di parlare su questi problemi è piuttosto impreciso, forse anche un po’ impacciato. Invece è proprio con una precisione terminologica che vorrei cominciare, cioè vorrei fare una distinzione che spero sia definitivamente netta, accettata, addirittura codificata, fra sviluppo e progresso. Tra le due parole c’è una differenza enorme, e tutte le polemiche che sono nate in seguito ad alcune cose che io ho scritto in realtà si basano proprio su questo equivoco, cioè confondere lo sviluppo con il progresso, che invece sono due cose non soltanto diverse, ma addirittura opposte e, per quel che riguarda nella fattispecie questo concreto momento storico, addirittura inconciliabili. Infatti questo sviluppo, non parlo dello sviluppo in generale, ma di questo storico sviluppo, chi è che lo vuole? Lo vuole la destra economica, non parlo nemmeno della destra ideologica, o del fascismo, no, parlo proprio della destra economica, ed è a questo punto che io uso Potere con la P maiuscola, in un modo forse un po’ estetizzante e vagamente mistico, perché è veramente difficile definire oggi quale sia il potere reale, e anziché chiamarlo “potere con la P maiuscola” chiamiamolo pure “i nuovi padroni”. È chiaro però che questi nuovi padroni non corrispondono più perfettamente a quelli che noi siamo stati abituati a considerare padroni, da molti anni a questa parte, o per lo meno che io consideravo padroni quando ero ragazzo, poi quando ero giovane, poi quando ero nella piena maturità. Sono cambiati questi padroni, e questi nuovi padroni vogliono lo sviluppo, che sarebbe lo sviluppo economico, quello al cui fenomeno enorme abbiamo assistito in questi ultimi 4,5, 6, 7 anni in Italia e che ha causato quegli enormi cambiamenti di cui stiamo parlando.

Giacovazzo:
Che però per lei non sono progresso…

Pasolini:
Ecco, no, non sono progresso, perché il progresso non è voluto da questi nuovi padroni, in realtà il progresso è voluto, mettiamo, dall’opposizione, che purtroppo non è una nuova opposizione, cioè ai nuovi padroni non corrisponde una nuova opposizione, l’opposizione si mantiene su posizioni abbastanza tradizionalistiche. Comunque il vero progresso è voluto dall’opposizione. In che cosa consiste poi il conflitto, l’esplosione conflittuale fra questo sviluppo voluto dai nuovi padroni e il progresso voluto invece dagli uomini di sinistra? Consiste, per semplificare le cose forse, in un fenomeno molto semplice, cioè lo sviluppo, almeno qui in Italia, questo sviluppo vuole la creazione, la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui, mentre in realtà coloro che vogliono il progresso vorrebbero invece la creazione, la produzione di beni necessari.

Giacovazzo:
Ora, lei ha già riconosciuto che sotto quella P maiuscola che chiama ora Potere, ora Nuovi Padroni, c’è qualcosa di molto generico, di non facilmente distinguibile, però anche quando dice «l’opposizione di sinistra» ho l’impressione che si parla […] di un altro schieramento abbastanza generico e indistinto, tant’è che molti della sinistra in fondo non si riconoscono nelle sue tesi. Fra cui, appunto, il professor Franco Ferrarotti, che pure è un uomo di sinistra e a cui diamo subito la parola.

Ferrarotti:
[…] Vediamo subito di arrivare alla sostanza della questione: Pasolini ci dice che c’è una opposizione fra sviluppo economico e progresso. Niente di nuovo, è evidente. Direi, in maniera forse solo un pochino più precisa, che c’è una opposizione, cioè una contraddizione oggettiva fra sviluppo sociale in senso globale e espansione economica. In effetti è vero, noi in Italia abbiamo avuto uno sviluppo economico negli ultimi 10-15 anni, un processo di industrializzazione che non ha significato la modernizzazione reale del nostro Paese, quindi anche della nostra cultura […]; ha significato soprattutto, diciamolo pure, la creazione di una serie di squilibri […]. Ma non è questo il punto. Direi che anche questo è un fenomeno generale, il bisogno di far quadrare determinate economie aziendali è un bisogno generale, non solo italiano […], ma non è questo il punto; il punto è questo, mi sembra: identificare, se possibile, individuare le forze sociali che hanno interesse, un interesse oggettivo, a un tipo di sviluppo che sia anche progresso sociale abbastanza equilibrato, che non distorca cioè i bisogni delle gente, e invece le forze sociali che hanno un interesse effettivo nello spingere a fondo questa espansione economica che, mentre non soddisfa i bisogni elementari e necessari accelera, e addirittura fagocita, il mercato, le persone con dei beni superflui. Io credo che, quando abbiamo visto un po’ queste forze, allora possiamo capire che in sostanza, il fascismo per esempio, cioè le forze della conservazione, oggi non sono più quelle di ieri, sono delle forze che si legano non a una conservazione statica, ma sono delle forze conservatrici che paradossalmente si presentano come forze dinamiche. Questo è il fatto nuovo. La conservazione è diventata dinamica, è diventata tecnocratica.

Giacovazzo:
Ecco, Pasolini…

Pasolini:
Beh, sono perfettamente d’accordo, quindi non capisco in cosa consista…

Ferrarotti:
Glielo dico subito se posso; […] mentre Pasolini dice che è d’accordo su questo punto, in realtà parla di fascisti e antifascisti, cioè di forze conservatici e di forze che denunciano l’equazione fra espansione e sviluppo o, nei suoi termini, fra sviluppo e progresso, come se in realtà si trattasse di forze equivalenti. È questo il punto.

Pasolini:
No, non è questo il punto. È qui che cade l’equivoco, perché è chiaro che tra persone di un certo livello è impossibile l’equivoco. Io quando parlavo di una certa omologazione degli italiani parlavo a un livello statistico che abbracciava milioni e milioni e milioni di persone, non parlavo degli intellettuali, degli uomini politici, dei leaders, eccetera eccetera, e neanche dei gruppi politici coscienti e nemmeno delle élites coscienti, cioè gli unici che sono privilegiati a poter seguire questo nostro dibattito. Io quando parlavo di omologazione degli italiani parlavo a livello proprio il più basso, il più medio possibile, e allora in questo senso la produzione enorme, sproporzionata, assillante di beni superflui ha finito per cambiare antropologicamente gli italiani, tutti gli italiani. E il fatto che tu abbia detto che la destra tradizionale non sia più statica, non abbia più una conservazione di tipo statico e tradizionale ma sia dinamica, questo sta a dimostrare che la destra è profondamente cambiata, e questo rientra nel quadro di cui parlavo io, cioè la destra accetta lo sviluppo, è per questo che dico che è cambiato profondamente quello che si chiama fascismo, va inventato un altro nome! Sarà sostanzialmente la stessa cosa, ma bisogna cambiare nome, perché sennò si creano degli equivoci…

Giacovazzo:
Su questo tema del fascismo torneremo subito dopo…

Ferrarotti:
Una sola precisazione però è doverosa, è molto importante quando si parla di omologazione culturale, mutazione antropologica e di italiano medo: […] omologazione vuol dire in fondo corrispondenza o processo di amalgamazione, di rassomigliamento, di appiattimento anche, in qualche modo. Voglio solo fare una precisazione ed è questa, io capisco che da un certo punto di gusto personale uno possa proiettare, diciamo, su tutta una nazione, su molti milioni di italiani, come ha detto Pasolini […], quella che può essere un’esperienza personale, ma andiamo cauti e qui bisogna allora guardare alle statistiche. È giustificata questa polemica anti-consumistica generica in una nazione, in fondo, nel nostro paese in cui il reddito medio pro-capite è ancora solo la metà di quello dei francesi? No, bisogna stare veramente molto attenti, io capisco, c’è un certo ceto intermedio, vero, che in qualche modo si è, in maniera spuria, o crede di essersi, modernizzato, ma si è modernizzato in maniera spuria, solo perché ha un po’ di luce al neon, e ha la macchina il frigorifero ecc Però non dimentichiamo l’insieme del paese. L’Italia non ha bisogno di nessun francescanesimo di ritorno di nessun genere, è ancora un paese francescano, è ancora un paese povero, in qualche modo, e non devo dirlo io a Pasolini, chiunque abbia fatto qualche indagine sa che la nostra situazione è ancora profondamente ritardataria rispetto al resto d’Europa.

Giacovazzo:
Ora sentiamo Maurizio Ferrara, cosa pensa delle prime battute di questo nostro dibattito?

Ferrara:
Io penso che una contrapposizione così netta sviluppo e progresso sia in sé insufficiente a delimitare il campo della questione e penso che, anche in quello che ha detto Pasolini, anche in quello che dice Ferrarotti, c’è della concezione dello sviluppo e del progresso una dimensione puramente economica, economicistica. A mio modo di vedere lo sviluppo e il progresso si misurano su diverse dimensioni, la dimensione della politica, la dimensione culturale: […] lo diciamo da tanti anni, c’è stato uno sviluppo distorto, scelte sbagliate, antipopolari, assolutamente al servizio di un certo tipo di profitto, il massimo del profitto, ma questo ha creato delle contraddizioni, ha creato delle controspinte, ha creato un movimento politico del tutto nuovo. Si dice spesso, anche io l’ho detto, che Pasolini […] mitizza l’Italia di prima di questo scatto sviluppo-progresso come se si trattasse di una realtà più limpida, più pura. Secondo me noi dobbiamo mettere nel conto, al positivo, di questi 25 anni, 30 anni, il fatto che l’Italia sia profondamente cambiata e migliorata. Insomma, io vorrei domandare a Pasolini, l’Italia del primo dopoguerra contenne in sé due elementi di grande contraddizione: gli ideali della Resistenza, che erano in realtà ideali di forti élite, e poi un pregiudizio a livello di massa che li annullava. L’Italia del dopoguerra non si può mitizzare, non si può dimenticare che, accanto alla Resistenza avvenne ad esempio il 18 aprile. Oggi il rapporto è rovesciato. […] Questo è il nostro giudizio, l’Italia è cambiata in questo senso: che domani saremo in grado di fare egualmente la Resistenza, e già oggi siamo in grado di impedire il 18 aprile. Questo fa parte dello sviluppo del nostro paese in questi 30 anni, questo è sviluppo politico, è sviluppo sociale, e credo sia un dato dal quale non si possa assolutamente decampare quando si affronta una situazione come questa in termini, mi permetta Pasolini, assolutamente politici così come me lui li ha affrontati nell’articolo di cui parliamo.

Pandolfi:
[…] Io qui vorrei dire che il senso del nostro dibattito di oggi, del nostro confronto di oggi, è proprio questo, io credo che occorre superare il rischio di alcune generalizzazioni improprie […]. È stato riconosciuto giustamente che l’Italia è profondamente cambiata, e oggettivamente non possiamo noi dire che è cambiata in peggio, o che, così, ci siamo trovati improvvisamente a scoprire una mutazione antropologica, quasi che il processo sia un processo di rottura del patrimonio genetico della nostra società. Abbiamo avuto una ibridazione, attraverso cioè una evoluzione normale, lenta, dove si sono mescolati fattori positivi e fattori negativi. L’Italia è cambiata, non è ancora cambiata abbastanza per quanto riguarda ad esempio la distribuzione del reddito, probabilmente nemmeno la produzione complessiva del reddito. Però che cosa è accaduto? È accaduto che, nel mentre noi andavamo avanti abbiamo creato nello stesso tempo dei fattori condizionanti, che hanno reso più difficile la liberazione che è insita in qualunque progresso autentico. E quindi credo che la individuazione netta di una discriminante fra coloro che sono per il progresso e coloro che sono per lo sviluppo, coloro che sono soltanto per la espansione bruta, e coloro che sono invece per una espansione autentica richiede molta accortezza. Quindi anche la distinzione che faceva Ferrara… io sono d’accordo con lui quando rigetta in sostanza questa tesi che il mondo è cambiato necessariamente in peggio perché oggi abbiamo dei condizionamenti, questa borghesizzazione, questa massificazione che ha tolto alcuni valori e che forse ci impedisce di raggiungerne altri. […] Io credo che la distinzione più profonda che vale oggi, e vale soprattutto anche guardando alle giovani generazioni, è fra coloro che sono per una società aperta e che rifiutano il modulo di una società chiusa e coloro che invece sono per una società invece costretta nei suoi limiti storici che sono quelli di sempre.

Russo:
A me mi pare che finora il dibattito si sia un po’ mosso su una linea un po’ astratta anche terminologicamente, cioè la distinzione fra progresso da una parte e sviluppo dall’altra come una contrapposizione. In realtà, io vorrei riferirmi a dei fatti di cui anche Pasolini ha parlato in questo suo ultimo intervento così ricco di motivazioni e di stimoli, e cioè al fatto che, se c’è una contrapposizione, secondo me, è una contrapposizione da una parte tra un Paese che, nonostante uno sviluppo economico distorto, è progredito moralmente, civilmente e intellettualmente, e un certo tipo di classe dirigente che questo progresso e questo modo di vedere i problemi non l’ha capito. La vera contrapposizione mi pare che sia risultata in maniera veramente luminosa con i risultati del referendum sul divorzio. A mio parere, quindi, omologare, diciamo così la situazione generale delle strutture del paese come se fosse stata livellata da questo processo così caotico di sviluppo economico del paese mi sembra un errore. Secondo me il problema bisogna porlo in altri termini: bisogna porlo cioè nei termini di domandarci […] se questa destra o questa sinistra rappresentano veramente qualcosa che interpreti la situazione reale che sta avvenendo nel paese, o se invece loro non seguono certe leggi o ideologiche tradizionali e sono un po’ allontanati dalla realtà.

Giacovazzo:
E ora la parola a Cassieri

Cassieri:
Mah, io mi riporterei alla sortita di Pasolini… ma volendo schematizzare mi sembra che siano tre i momenti dell’articolo di Pasolini a cui dobbiamo rifarci per necessità: il primo, che vagamente può suonare come la nostalgia di un’Italia paleoindustriale, arcaica e contadina, e questo si può respingere in quanto Pasolini ha già chiarito in che termini vada intesa questa presunta nostalgia. Il secondo momento, la contraddizione o meglio la negazione di ogni distinzione fra fascismo e antifascismo in nome della omologazione perfino […] di natura somatica. Il terzo momento, invece, è quello che mi sembra più importante, perché Pasolini non parla da sociologo, l’ha già detto, non parla in termini strettamente politici, lo ha già detto, ma parla da scrittore, e quindi ha denunciato, secondo me, una connotazione di tipo piuttosto esistenziale. La sua preoccupazione […] si riferisce al momento di edonismo del consumismo, […] ed è quella che mi sembra la più vitale, la più difficilmente contestabile a Pasolini. Senonché questa nozione di omologazione al punto di non distinguere più fisicamente, antropologicamente campi contrapposti anche politici, […] ha due rischi, cioè ha un rischio e una necessaria estensione: il rischio è che noi diamo al fascismo una terminologia, un termine un’espansione talmente universalistico da fargli perdere ogni significato storico; veramente, […] a furia di essere tutti fascisti nessuno lo è più, cioè si arriva alla vanificazione della terminologia, si arriva a un nominalismo sterile

Giacovazzo:
Per concludere questa prima parte, diciamo, del nostro dibattito, vorrei fare una domanda a Pasolini, cioè Pasolini, in mezzo a noi, a differenza di tutti quanti noi, è anche un personaggio, […] che vuol dire essere un personaggio? Intanto la televisione è spettacolo, quindi lui sa benissimo […] che non possiamo fare a meno […] di riferirci anche, nel prendere le mosse di questo discorso, al suo viso, alla sua faccia, che è una faccia che non cambia, mentre gli italiani, secondo lui, cambiano abbastanza. Cos’è questa faccia? È una faccia abbastanza triste, severa, seria, e Pasolini ha le sembianze di un uomo triste, quasi […] di un uomo senza speranza. È per questo che egli non crede nel progresso, nell’immediato domani, è per questo che egli si rifugia nelle fantasie del passato.

Pasolini:
Tutto sbagliato. Prima di tutto io sono di natura molto allegra, molto gaia. Divento serio in certe occasioni, come questa, una sede ufficiale che mi imbarazza un po’. Poi non è affatto vero che non credo nel progresso, io credo nel progresso, non credo nello sviluppo e nella fattispecie in questo sviluppo, ed è questo sviluppo semmai che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica, perché appunto perché non sono un sociologo, un professore, ma faccio un mestiere molto strano che è quello dello scrittore, sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici, cioè io tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell’avere rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando, e quindi questo fa parte della mia vita intima, della mia vita privata, della mia vita quotidiana, ed è un problema mio, che mi dà dolore…

[…]

Ferrara:
Posso fare una domanda a Pasolini? Cioè, ogni volta che Pasolini parla di cose che cambiano, mi pare, lo mette diciamo al negativo, nel senso che cambiano come fenomeni, cambiano sul terreno dell’edonismo e del consumo; io, prima ho posto una questione che mi pare politica ma non partitica. In questi 30 anni questo sviluppo e questo progresso, visti come li vede Pasolini, si sono svolti nel vuoto o hanno avuto a favore o contro uomini? Insomma, in questi vent’anni ci si è schierati o non ci si è schierati? Io ho cercato i dire che in questi 30 anni non è che lo sviluppo o il progresso sono andati avanti come delle macchinette indipendenti, abbiamo avuto battaglie incredibili, Pasolini ha anche partecipato a questi scontri, mi meraviglio che oggi dia un’idea di quello che è l’Italia di oggi solo in termini di sviluppo, progresso visti come dei fatti puramente tecnici. Noi ci siamo schierati per trent’anni da una certa parte, contro le cose che dice Pasolini, contro lo sviluppo distorto, l’alienazione, il potere con la P maiuscola, invisibile… questo è quello che conta. […]. Io capisco la tristezza (non condivido la questione delle facce, l’ho già detto), […] il dolore, anche la disperazione, però accanto a questo noi […] abbiamo avuto degli scatti in positivo enormi rispetto a quella che era l’Italia miserella, gretta, senza sviluppo e senza progresso così come l’abbiamo trovata almeno noi della nostra generazione, negli anni del 1945/46.

Pasolini:
Allora, li abbiamo avuti ma non ne abbiamo, cioè la mia polemica con il Partito comunista, che dovrebbe essere la bandiera di questa lotta contro lo sviluppo economico di destra ecco, è cominciata dal momento in cui si è cominciato a parlare di compromesso storico, […] ed è una polemica costruttiva, non vorrei che venisse presa per una polemica distruttiva o negativa, ecco…

Ferrara:
Se metti sullo stesso piano i fascisti e gli antifascisti, caro Pasolini…

Pasolini:
Io dico certe cose e non posso fare a meno di dirle…

[…]

Giacovazzo:
Arriviamo subito all’antifascismo e al fascismo, un attimo, però, una breve risposta di Ferrarotti.

Ferrarotti:
Io vorrei dire che sono in completo disaccordo su un punto fondamentale: in Italia si continua a personalizzare i problemi e a confondere il piano esistenziale degli umori, del gusto più o meno azzeccato, più o meno raffinato, con quelli che sonno dei problemi che hanno anche, e soprattutto, una configurazione oggettiva. […] Se non si arriva a poter in qualche modo scindere la sfera del privato e la sfera del pubblico per poter percepire con esattezza quelli che sono i problemi, evidentemente tutte le responsabilità si appannano e costantemente noi rischiamo di fare, che so io, non dico cattiva letteratura, certamente cattiva politica e di tradurre problemi etici e politici in atteggiamenti estetici, questa è la storia italiana.

Pasolini:
Scusatemi, a questo punto io considero assolutamente ingiusto quest’intervento, io non faccio della cattiva letteratura!

Ferrarotti:
Non mi riferivo…

Pasolini:
Non farò della buonissima letteratura ma faccio della buona letteratura, il che significa che faccio della buona politica. […] È chiaro che la mia esperienza è un’esperienza esistenziale, diretta, fatta sul concreto, queste distinzioni si faranno poi, le facciamo insieme ognuno nei limiti delle sue possibilità, però per me contano le facce, Ferrara, contano le facce… […]

Ferrara:
Non contano le facce, però, Pasolini! […] Ma perché rifiuti l’aggettivo, che non è infamante, di esteta della politica?! Le facce sono le facce! […] Non puoi avere, come dire, i piedi in due staffe, come esteta dici una cosa e poi vuoi che io come politico l’accetti, una delle due!

Pasolini:
Ho capito…

Ferrara:
Io ti ho chiesto tu da che parte ti sei schierato e so che ti sei schierato dalla parte giusta, a prescindere dalle facce! […]

Pasolini:
Ma scusa, Ferrara, fammi dire una cosa… io quando parlo delle facce non parlo in senso razzistico o in senso sensibilistico, parlo in senso semiologico, ora quando io dico facce intendo dire questo: il percepire un linguaggio, semiologicamente scientifico, delle persone che mi circondano; tu in una piazza popolata da cinquemila persone, mentre una volta, soltanto fino a dieci anni fa, tu stesso dall’alto del quinto piano indicandoli dicevi: quello è uno studente, quello è un operaio, quello è un ragazzo del sud, quello è un vecchio del nord ecce cc, questo non lo puoi più fare. In una piazza tu non distingui più nulla, cioè il linguaggio del comportamento, il linguaggio fisico, mimico, è completamente omologato.

Cassieri:
Pasolini dice, a un certo momento, non credo a questo sviluppo, a questo modello di sviluppo e quindi è una dichiarata confessione di pessimismo e di sfiducia, non è che tu Pasolini ne ipotizzi un altro? […]

Pasolini:
Non escludo un altro possibile.

[…]

Giacovazzo:
Sì, e adesso mi pare che sia venuto veramente il momento di affrontare questa tematica del fascismo e dell’antifascismo, cioè della omologazione cosiddetta anche in questi termini: dice Pasolini che nella nuova generazione fascisti e antifascisti ormai non si divergono molto nella sostanza. Questo poi vuol dire che il fascismo non è cambiato poi tanto su scala mondiale da essere irriconoscibile. Si può dire, non so, che il fascismo del ’22 per esempio è stata la violenza dei padroni, organizzata e pagata dai padroni per stroncare il movimento sindacale; […] si può vedere che in Portogallo per 50 anni il fascismo ha avuto sempre questo stesso volto, che questo è il volto che ha in Ispagna, che questo è il volto che ha preso anche in Grecia, che ha in Cile con Pinochet, non escludo che nella prospettiva di coloro che mettono le bombe adesso ci possa essere questa stessa visione di fascismo.

Russo:
Quello che noi dobbiamo invece sottolineare è quello che sta succedendo realmente nel nostro paese; di fronte a questo fenomeno si sono sviluppate contraddizioni profondissime; noi non saremmo nella situazione in cui siamo ora, non ci sarebbero le bombe, non saremmo in questa crisi così profonda, politica e civile, se proprio questo fenomeno […] non avesse creato […] dei contrasti profondi. In fondo è vero che in una piazza non riusciamo a distinguere lo studente, un ragazzo del sud o il vecchio da come è vestito, da come è fatto, ma se guardiamo come sono fatte le nostre città, noi distinguiamo perfettamente le borgate dal villino residenziale, sono tutti problemi nei quali si dimostra che in fondo questo stesso sviluppo ha creato l’esigenza e un’aspirazione a certi valori in cui c’è un contrasto proprio profondo tra chi vorrebbe livellare, omologare e chi […] vuole la giustizia, vuole il progresso, e vuole non lo sviluppo […]: i fascisti sono semplicemente il prodotto anche di questa società consumistica, e in questo senso forse diversi come matrice dal passato, ma in realtà identici come violenza politica, come metro ideologico e come nessun rispetto per la libertà per lo spirito, per i valori che secondo me sono eterni e di fronte ai quali non possiamo assumere un atteggiamento liquidatorio, né da un punto di vista estetico né culturale né sociologico.

Giacovazzo:
Pandolfi.

Pandolfi:
Mah, anch’io vorrei dire qualche cosa sul fascismo; comincerò col dire il Croce aveva dato una curiosa definizione del fascismo, mi pare nel ’44. Lo chiamava un accidente storico […], l’inatteso intervento di un fattore irrazionale nella storia: e oggi possiamo giudicare quanto sia parziale e insufficiente quest’analisi. Poi abbiamo altre definizioni più classiche […], però io credo che bisogna andare forse ancora più in là di queste approssimazioni successive: il fascismo in sostanza, per quanto riguarda la vicenda del nostro paese, è stato un po’ una malattia ereditaria dello Stato e della società italiana, ed è in questo senso che sopravvive o tende a sopravvivere a se stesso. Ecco perché il segnale che ci ha mandato Pasolini lo interpreto appunto semiologicamente, cioè il rischio che una omologazione livellatrice faccia perdere il senso di una minaccia che è ancora all’interno della nostra società. Ecco che questo segnale è un segnale interessante, vale a dire abbiamo il dovere, credo, di stimolare dentro di noi questi anticorpi rispetto a quelle forme di adagiarsi in sé della società, o di annullarsi, che in sostanza impediscono quel progresso di valori, quella creatività di valori… io qui non sarei però pessimista, perché io vedo al di sotto di questi rischi della nostra società anche una creatività nuova, che certamente scorgiamo oggi più nelle generazioni che vengono su, nelle nuove, che non […] in quelle a cui credo la maggior parte di noi appartiene […], certo con i rischi che noi abbiamo visto, con uno sviluppo che tende a essere meno liberatorio (come pure è nel senso anche etimologico del termine sviluppo, il togliersi da un intreccio da un condizionamento); credo che, nonostante tutto, si possa ancora avere speranza, cioè credere nella società aperta che è la vera maniera per non essere fascisti.

Giacovazzo:
Una parola…

Russo:
Io vorrei fare una domanda brevissima a Pasolini, cioè lui […] a un certo punto, quando ha parlato di fascisti, dice: «dobbiamo trovare un termine nuovo.» Allora io gli voglio domandare questo: la sua preoccupazione di trovare un termine nuovo da che cosa è dettata? Dal fatto che se noi diciamo fascisti diciamo una cosa che in fondo non corrisponde a una realtà attuale e quindi quasi li svalutiamo, li collochiamo storicamente nel passato, oppure è dettata dal fatto che lui pensa che i fascisti non ci sono più?

Giacovazzo:
Con questa domanda subito la parola a Pasolini.

Pasolini:
Secondo me la cosa è molto semplice. Ci sono dei fascisti sopravvissuti dal vecchio fascismo arcaico, orribile, rozzo e ridicolo e feroce, e ci sono delle nuove generazioni, per cui il problema è molto diverso, che si dicono fascisti, ma sono comunque, accettano di essere, dei fascisti classici, ecco dei rozzi antichi fascisti, ma sono completamente anacronistici, e soprattutto con i giovani ci comportiamo razzisticamente, se crediamo che alcuni giovani, che sono alcune migliaia di giovani, vengano al mondo marchiati da qualcuno, dal loro destino, a esser fascisti. La loro scelta invece è perfettamente casuale, gestuale, è dettata da un momento di dispersione per cui forse basterebbe una parola, a scuola o detta da uno di noi, perché non lo fossero, questi ultimi fascisti. Dunque esiste questo fascismo, anacronistico, continuiamo pure a chiamarlo fascismo, ma il fascismo non è più questo, perché questo nuovo potere, che poi qualcuno di voi forse saprà indicare meglio non ha più bisogno di questa forza armata, l’edonismo consumistico è abbastanza forte per garantirgli la tranquillità.

Russo:
Ma perché allora si mettono bombe da sei anni in Italia, sui treni, alla banca dell’agricoltura, in piazza della loggia e il terrorismo è diventato una cosa con cui conviviamo, me lo sa spiegare?

Pasolini:
Ma certo, è il fascismo arcaico che esplode nelle contraddizioni…

Russo:
Ma sono ragazzi di diciannove-vent’anni, sai, chi li strumentalizza?

[…]

Pasolini:
Ne abbiamo parlato, ne abbiam parlato prima, ne ho parlato prima, rispondo che ci sono dei vecchi valori che continuano a sopravvivere e di cui i fascisti nominalmente si dichiarano campioni, ma in realtà non lo sono, perché chiedi a uno di questi giovani fascisti, anche uno di quei inimmaginabili disgraziati giovani che sono andati a mettere quella bomba ultimamente a Brescia, tu prova a parlare con loro e dimmi se sono capaci di rinunciare a qualcuna delle cose, delle comodità, che ha dato loro lo sviluppo. L’abbiamo detto fin dal principio, cioè la vera destra di oggi non è più una destra conservatrice, è una destra dinamica, quindi se un fascista, uno di questi fascisti potesse essere sincero, avesse per ipotesi la possibilità di esser sincero, non rinuncerebbe a nessuna di queste comodità che ha avuto con lo sviluppo, non vorrebbe mai lui tornare indietro a quella famosa Italietta rustica, rozza, eroica, romana, sinceramente.

Russo:
Sì, ma vorrebbe un’altra cosa! […] Vorrebbe la fine della libertà, vorrebbe la dittatura, vorrebbe l’autoritarismo!

Pasolini:
Lui, lui, lui in quanto rozzo fascista, invece in realtà il nuovo Potere non ha bisogno di questo, perché questa dittatura il nuovo Potere l’ottiene con la forza della produzione, dell’imposizione dei suoi prodotti, della televisione eccetera eccetera… non ha più bisogno di questa forza.

Russo:
Ma c’è una contraddizione, è strano allora che usi questi giovani in questo modo

Pasolini:
Certo, c’è una contraddizione, perché è chiaro che viviamo… non è mica finito tutto, non siamo mica in una nuova epoca, stiamo passando a una nuova epoca, siamo in un momento dei conflitti

Pandolfi:
Non crede Pasolini che ci sono alcune opzioni che ciascuno di noi compie o che più di noi insieme compiono, che nel momento in cui vengono compiute ci mettono in un campo piuttosto che in un altro e che quindi oggettivamente ci danno, direi un ruolo che non è il ruolo annullato dalla omologazione, dal livellamento… per questo io credo che occorra utilizzare il messaggio di Pasolini più come un segnale di un rischio, ma non tirarne delle conseguenze come quelle su cui probabilmente ci stiamo avventurando, non riuscendo più forse a districarci…

Giacovazzo:
Ferrarotti…

[…]

Ferrarotti:
Beh io molto semplicemente volevo dire che sì, è vero, la politica esiste, ma ci può essere tuttavia più politica fuori dalla politica ufficiale che non dentro, questo è il punto… voglio dire che la politica proprio non va ridotta alla decisione partitica… […]

Ferrara:
Nessuno dice questo, Ferrarotti, è come dice Pasolini, la politica è una cosa complessa, c’entrano tante cose dentro…

Ferrarotti:
Ecco, ma questo è uno dei punti della nostra situazione italiana, […] c’è stata una certa atrofia del momento politico, cioè nel momento in cui tutto è politicizzato, dalla nomina, che so io, di un presidente d’ospedale al bidello eccetera…

Ferrara;
Ma questi so’ ’ntrallazzi, non è politica, è un altro discorso! […] Gli operai che lottano fanno politica, però mica nominano loro i presidenti dei consigli! Se noi confondiamo ogni giorno l’intrallazzo con la politica, non siamo dentro, siamo dei qualunquisti puri.

Ferrarotti:
Ma questo l’ho detto, l’ho detto comunque prima, ho fatto valere duramente questa distinzione.

Ferrara:
Eh perbacco!

Ferrarotti:
Tuttavia vorrei che questa distinzione non venisse, diciamo così, presa per una cesura totale, a dire qui fissiamo… qui c’è la politica, la politica è questo discorso, e del resto Ferrara è d’accordo su questo, tutti son d’accordo con lui. 
Pasolini: Una cosa che mi sembra comune a molti che contraddicono quello che sto dicendo, male, evidentemente, è questa, che ha una enorme importanza, cioè ha una decisiva importanza una scelta ideologica, cioè nonostante l’omologazione operata eccetera eccetera mi vien detto sia da un democristiano, che da un comunista, sia, per esempio, dal mio amico Moravia ha importanza la scelta ideologica poi. Io dico: sì, certo, ha un’enorme importanza, soprattutto per quelli della nostra generazione: generalizziamo questo discorso, cioè voglio dire che enorme importanza ha la scelta ideologica, penso che mi crediate sincero quando dico questo, però non è tutto! Voglio dire che la scelta ideologica di un operaio o di uno studente di dieci anni fa era una scelta ideologica estremamente diversa da quella che può essere fatta oggi.

[…]

(Qui si interrompe la registrazione)


Fonte:

DOTTORATO DI RICERCA IN
Filologia, Letteratura italiana, Linguistica
CICLO XXXI
COORDINATORE 
Prof.ssa Donatella Coppini
«Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle.»
Pier Paolo Pasolini e la lingua della modernità
Settore Scientifico Disciplinare L-FIL-LET/12

                  Dottorando                                                                                      Tutore
       Dott.ssa Maria Teresa Venturi                                                           Prof. Neri Binazzi


Coordinatore
Prof.ssa Donatella Coppini
Anni 2015/2018







Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Omicidio Pasolini - Lettera di Alberto Moravia, del 16 novembre 1975, al quotidiano Paese Sera

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"ERETICO e CORSARO"

Paese Sera - sabato 16 novembre 1975

Omicidio Pasolini
Lettera di Alberto Moravia, 

del 16 novembre 1975, 
al quotidiano Paese Sera

(Trascrizione dal cartaceo, curata da Bruno Esposito)

Tu mi chiedi di dire quello che so. Ti rispondo che non so nulla all'infuori di quello Che ormai sanno tutti. Ma ho fatto delle riflessioni sull'assassinio di Pasolini e non ho alcuna difficoltà a comunicarle. 
Che dire prima di tutto della trasmissione televisiva che accettava pienamente la versione dell'Ansa la quale a sua volta accettava quella della polizia che accettava completamente quella dell'assassino? 
Che dire se non che la nostra società rozza e incolta non si contenta di essere <<maschile>>, vuole essere anche <<virile>>' e per dimostrare a se stesa di esserlo davvero ha trattato in questa orrenda occasione Pier Paolo Pasolini né più né meno come sono trattati i negri in certi stati del Sud, negli Stati Uniti? 
Cioè, che. una volta di più, il pregiudizio contro l'omosessualità, fatto dl totale ignoranza, di odio del diverso e di senso di colpa ha funzionato con deplorevole automatismo? 
Venendo al delitto e alle indagini sul delitto, ho l'impressione che polizia, carabinieri e magistratura sono cascati o hanno voluto cascare nella trappola della confessione <<spontanea>>. Essi non si sono resi conto che <<senza pentimento>> qualsiasi confessione, come sanno benissimo i sacerdoti, è falsa. 
E' sinceramente, profondamente pentito l'assassino? Ne dubito. Bisognava dunque contestargli tutto fin da principio, mettere in dubbio tutte le sue dichiarazioni. Non è stato fatto, l'accettazione della sua pseudo confessione ha fatto si che le Indagini sono state condotte con lentezza, sbadataggine, distrazione, pigrizia e superficialità << Tanto >> si diceva abbiamo In mano l'assassino e per giunta ha confessato. Che serve indagare, ormai? 
E invece, no! Bisognava far fare << immediatamente >> le perizie (quella dell'anello, quella dell'automobile, quella della benzina, quella delle ferite dell'assassino e dell'assassinato, quella sulla possibilità di un rapporto sessuale, quella del sangue sui bastoni e sulle pietre, quella della camicia, quella del denaro e cosi via e cosi via). 
Ancora, bisognava portare l'assassino sul luogo << subito dopo il delitto >> a caldo, e fargli ricostruire I fatti senza lasciargli il tempo di riprendere fiato, di organizzarsi un alibi psicologica e morale, senza aspettare la luna e altre condizioni favorevoli, tanto una ricostruzione di più non avrebbe fatto alcun danno. Infine. bisognava risalire senza indugio dall'assassino ai suoi amici, solidali compagni, alla sua società, insomma, perché ogni uomo appartiene ad una società o gruppo sociale e nella società o gruppo sociale spesso sta celata la verità.
Di tutto questo non si è fatto nulla. Si direbbe che, essendo il delitto avvenuto la notte prima del giorno dei morti, cioè durante uno dei più lunghi << ponti >> dell'anno, una specie di << ponte >> professionale, psicologico, culturale e morale si sia installato nella mente degli inquirenti. Alla fine, come sempre succede da molto tempo in Italia, dl fronte al modo col quale sono state condotte le indagini, vien fatto di domandarsi non più: << Ma come è morto Pasolini? >> bensi: <<  Ma chi "realmente" sono, nella realtà umana, sociale,  culturale, psicologica  coloro che si occupano della sua morte? >> in altri termini, il delitto viene quasi sopraffatto dalla idea che in queste condizioni << nessun delitto >> potrà mai essere chiarito. 

Paese Sera - sabato 16 novembre 1975




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Conversazioni con Pasolini, di Ferdinando Camon - Prima conversazione

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"ERETICO e CORSARO"


Conversazioni con Pasolini
di Ferdinando Camon
Prima conversazione


Pubblichiamo questa prima, di due conversazioni, tra Ferdinando Camon e Pier Paolo Pasolini. 

Le due conversazioni sono tratte dal libro di Camon: 
"Il mestiere di scrittore"
conversazioni critiche con: 

Giorgio Bassani
Italo Calvino
Carlo Cassola
Alberto Moravia
Ottiero Ottieri
Pier Paolo  Pasolini
Vasco Patrolini
Roberto Roversi
Paolo Voloni

Una serie di conversazioni critiche condotte tra gli anni Sessanta e Settanta da Ferdinando Camon, scrittore militante della letteratura: non secondo la modalità dell'intervista né quella del ritratto, ma più propriamente di una narrazione a due voci...

(La trascrizione è stata curata da Bruno Esposito)

"Per gentile concessione di Ferdinando Camon"




Pasolini ha una voce malata, risultato di un lavoro protratto al di là della sopportazione, La sua non sembra la stanchezza del tirar sera, ma del tirar mattina. Lo vedo seduto al suo tavolo, davanti a una lampada fioca, schermata solo dalla parte dell'ospite, con gli occhi stanchi ma fermi dietro le lenti, con la voce fievole di chi veglia da tempo, e mi accorgo che mc l'aspettavo così c diverso : così, con questo segno di sincerità che sono ormai in pochi a contestargli, illuminata da una sofferenza chiusa; diverso, cioè più polemico, più vivace, meno mite. In un uomo come Pasolini, cupo e corrosivo, violento, denunciatore e polemista, la mitezza e l'umiltà non sono prevedibili: sembrano quasi presagio di una sconfitta. Invece sono in lui aspetti immediati, e costituiscono le armi della sua vittoria perché rivelano la sua sincerità. Mentre mi si cancella l'immagine prefabbricata di Pasolini, e lentamente prende luogo l'immagine vera, che ho davanti a me, sento, come sentiva una volta Leonetti, che mi è definito e indefinito (e tale ancora mi rimarrà) il suo nodo di passione e intelletto, di viscerale e ideologico, di sofferenza voluta e di esasperazione inutile, di ribellione, di accettazione, di consolazione, di forza oscura e di illuminazione : quell'insieme di sentimenti opposti o diversi e compresenti ch'egli riconduce tutti alla matrice comune dell'« amor di vita » ma che a noi si rivelano solo quando è provocato c soffre, e che formano la sua « vitalità ».
 

Camon 
La sua multiforme attività rischia di far dimenticare ad alcuni che la sua vocazione originaria, anche 
in senso cronologico, è e resta quella poetica: come poeta lei si è rivelato, e l'attività di poeta accompagna sempre quella di regista, di critico e di romanziere. 

Pasolini 
Sì. Fino a quasi trentanni io ho scritto soltanto poesie, oltre ad alcuni primi romanzi di ambiente friulano che sono inediti, chiusi qua nel mio cassetto, e molto autobiografici: uno si chiamava Atti impuri, un altro Amado mio. 


Camon 
Il nome Pasolini ha una etimologia? è friulano? 


Pasolini 
No, è ravennate: mio padre è di Ravenna, di un'antica famiglia nobile [ride], di un ramo cadetto; Pasolini deriva da Pase, donde Pasini - Pasolini. Lo stemma dei Pasolini ha un'onda con sopra una vela, su questa vela sta scritto « Pax ». Non so se sia un'etimologia empirica, ma credo proprio di no. 

Camon 
La filologia è una delle sue passioni. Lei è stato uno dei fondatori dell'« Academiuta de lenga furlana ». 
Che scopi aveva quella Accademia?
 
Pasolini 
Aveva un duplice scopo: da una parte rispondeva a un'esigenza nostalgico-conservatrice cioè regionalistica: l'amore per il Friuli come piccola patria a sé, isola linguistica e morale; e da un'altra parte si proponeva studi linguistici lanciati verso l'avvenire. Come in tutte le mie opere di allora, si distingue insomma una parte nostalgica-cristiana-romantica e una parte populistica-umanitaria. Il friulano lo consideravo una lingua poetica in concreto, pronta cioè per la poesia. È difficile farsi un'idea della mia situazione di allora. Pensi a un giovane di 16-18 anni, nel fascismo imperante, che non aveva nessuna possibilità di diventare antifascista; privo di mezzi per uscire da quel circolo chiuso in cui era nato e cresciuto; a meno che non appartenesse a una famiglia di antifascisti, ma questo non era il mio caso. Mia madre, sì, era antifascista, ma in un modo del tutto paesano, sentimentale, innocente. Mio padre invece era nazionalista, quindi abbastanza filofascista. 
Io ho percorso le due strade che sole potevano portarmi all'antifascismo: quella dell'ermetismo, cioè della scoperta della poesia ermetica e del decadentismo, ossia in fondo del buongusto (non si poteva essere fascisti per ragioni di gusto, anche se questo è un modo molto irrazionale e assurdo e a-ideologico di essere antifascisti), e, seconda, quella che mi portava a contatto col modo di vivere umile c cristiano dei contadini, nel paese di mia madre, modo che esprimeva una mentalità totalmente diversa dallo stile fascista. Le mie prime poesie in friulano riflettevano dunque da una parte una friulanità come lingua, dall'altra un alone sentimentale e vagamente socialista di tipo cristiano-romantico : i contadini coi loro vespri e le loro campane. 
Ambedue questi clementi, lingua e società, dovevano poi approfondirsi nelle mie successive esperienze, portandomi da una parte ad una elaborazione linguistica verso zone meno strettamente ermetiche e decadenti, dall'altra all'evoluzione dell'idea di Cristianesimo verso forme sociologiche più concrete: la scoperta della lotta dei braccianti friulani contro i latifondisti, per esempio. Per me, restare dalla parte dei braccianti significava restare nella scia della poesia di adolescente. La lotta dei braccianti è diventata il punto cruciale della mia storia, perché è lì che io ho intuito e subodorato prima, scoperto e studiato poi, il marxismo. 

Camon 
I rapporti e gli aspetti di questa lotta son cambiati oggi, in Friuli? 

Pasolini 
Son tredici anni che non capito in Friuli, se non per fughe di un giorno. Non ne so più niente. 

Camon 
Mi pare che, come in tutte e tre le Venezie, la lotta si esprima oggi attraverso l'emigrazione. 

Pasolini 
Veramente, è questo il fenomeno che più mi ha colpito durante le mie ultime apparizioni in quei paesi : non c'è più gioventù. Accanto ai vecchi, i giovani rimasti son quelli che potevan rimanere : piccoli possidenti, artigiani, meccanici.  

Camon 
Ma si tratta di un fenomeno di urbanesimo? di emigrazione interna?
 
Pasolini 
Assolutamente no. Quasi tutti i miei amici sono emigrati in Australia o in Canada. 

Camon 
Nel Veneto invece si realizza un flusso stagionale per l'estero, oppure un fenomeno di emigrazione interna verso i centri industriali. 

Pasolini 
Ma il Friuli ha una vecchissima tradizione di emigrazione in altri continenti. Si sa come avvengono queste partenze : una famiglia chiama le altre. 

Camon 
Da una posizione di reazione al fascismo attraverso l'ermetismo, si passò, in tempi che sembrano ma non sono lontanissimi (circa un decennio fa), a un'accanita polemica antiermetica. Nel panorama di questa polemica e per un superamento della polemica stessa va inserita la nascita della rivista « Officina » : che, giusta la definizione di Romanò, fu la prima a tentare la storicizzazione dei rapporti tra letteratura e ideologia, relativamente a un tempo in cui la letteratura teorizzava la propria autonomia. Fin qui, penso che tutti siano d'accordo. Ma poi Romanò scrive che « Officina », pur ribadendo che origini e significati della letteratura vanno ricercati non nella letteratura ma nelle condizioni generali della cultura, e cioè in quel territorio che ha per confini ideali Croce e Gramsci, — pur rompendo, 
dicevamo, il circolo per cui letteratura e poesia presuppongono esperienze letterarie e politiche, ha cercato di impedire un nuovo circolo ideologia-poesia, teorizzando l'impossibilità, in letteratura, di scegliere ideologicamente, e che anzi proprio per questo ha rimosso le ipoteche ideologiche che gravavano sul discorso, liberandolo verso molteplici direzioni. 


Pasolini 
Esplicitamente, « Officina » parlava di scelta ideologica, diceva anzi che il dovere del letterato c dello scrittore era una scelta ideologica, che il letterato e lo scrittore dev'essere anzitutto un ideologo, che le scelte devono avvenire in sede culturale prima che in sede sentimentale-intuitiva. Questo diceva « Officina » a chiare lettere. Che poi sotto ci fosse una qualche contraddizione, che continuasse a serpeggiare la vecchia cultura contro cui « Officina » combatteva, cioè la cultura ermetica, che contemporaneamente, nuove forme irrazionalistiche, questo non era nelle intenzioni di « Officina », accadeva anzi malgrado « Officina ». 

Camon 
Alcuni critici, quasi esclusivamente recensori di terza pagina, o perché condividono l'utilità di questo metodo schematico o perché costretti dalla necessità di esemplificare, hanno parlato di una antitesi, sul piano contenutistico, tra lei e Luzi. 

Pasolini 
Sono termini troppo vaghi, che nascondono una inconsistenza di fondo. Perché antitesi? Avrò posizioni diverse, una ideologia diversa, ma parlare di antitesi mi sembra a dir poco semplicistico. Cristo dice: « Dite di sì se sì, no se no, perché il resto vien dal Maligno. » Noi in verità siamo in preda al Maligno, perché non c'è mai un sì o un no. In Luzi possono esserci inconsciamente molte delle mie posizioni; in me, come del resto il Vangelo ha dimostrato, ci sono moltissime delle posizioni che Luzi ha detto essere sue in modo esplicito. 

Camon 
Ma forse, mesi o anni addietro, l'approdo al Vangelo non era ancora previsto, in questa forma. 


Pasolini 
Previsto da un pubblico no, per il semplice fatto che non esiste un pubblico della poesia, anche se, lo dico con orgoglio, a questo proposito io devo lamentarmi meno degli altri. Ma dai critici di poesia doveva essere previsto, o almeno supposto : leggendo le mie raccolte friulane, l'Usignolo della chiesa cattolica, La religione del mio tempo, dovevano almeno supporre che c'erano in me dei fermenti attivi del mondo cristiano e cattolico contro cui io ideologicamente mi ponevo in sede politica. 

Camon 
Rileggendo i suoi versi A un papa, ho pensato che in fondo Il Vicario di Hochhuth non sia che un allargamento, ma smisurato, della polemica aperta da lei sullo scarso amore di Pio XII verso gli oppressi e i diseredati. 


Pasolini 
Non ho letto Il Vicario, e non ne ho vista la rappresentazione. Conosco appena, attraverso i giornali, le polemiche suscitate. 

Camon 
L'accusa di Hochhuth è rivolta contro il silenzio di papa Pacelli di fronte agli orrori dello sterminio degli ebrei e ancor prima dei polacchi. Silenzio che è, per gli storici, un enigma. Le varie giustificazioni addotte non hanno convinto. Personalmente, penso che un fondo di verità possa racchiudere l'intervento di quei critici che spiegano, con le prove di discorsi e lettere espressamente citati, che la neutralità assoluta della Chiesa e di Roma doveva permettere a Pio di essere desiderato o accettato come arbitro del conflitto, di poter passare alla storia come colui che ha la pace. È noto che il papa pensava che un'Europa senza una Germania forte o comunque non prostrata non avrebbe potuto difendersi dalla Russia vittoriosa c dalle sue aspirazioni. L'idea, osservano quei critici, era politicamente rispettabile. Contro la rivoluzione francese il Congresso di Vienna ebbe pressappoco la stessa politica, ed in parte riuscì ad attuarla. 

Pasolini 
Un simile progetto, in un papa, se ci fu, poté solo dimostrare una colpevole ignoranza dei testi del marxismo. I russi stavano per vincere: come avrebbero voluto o gradito quale intermediario un pontefice che non aveva pronunciato una parola di fronte ai massacri ad opera dei tedeschi? Un simile papa si sarebbe reso accettabile soltanto ai tedeschi. 

Camon 
Le sembra esatto il giudizio dei critici per cui, con Poesia in forma di rosa, lei è giunto a un punto morto, negando la presenza e la possibilità di ideologic fissate una volta per tutte? Per cui demolisce tutti i miti in cui crede l'uomo contemporaneo, e in cui ha creduto anche lei?

Pasolini 
Questa interpretazione può essere vera in certi punti del libro, non nell'insieme del libro. Il libro ha la forma interna, anche se non esterna, di un diario, e racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore in questi anni. Se avessi fatto un'opera di memoria, avrei cercato di sintetizzare e livellare le. esperienze che han formato la mia vita. Ma facendo un diario, mi son rappresentato volta a volta completamente immerso nel pensiero o nell'umore in cui mi trovavo scrivendo. È la forma diaristica del libro quella che fa sì che le contraddizioni vengano rese estreme, mai conciliate, mai smussate, se non alla fine del libro. Alla fine del libro, il lettore sente che esso chiudeva una specie di rabbia distruggitrice, uno scoraggiamento che diventa passione di demolire certe idee fisse e punti fermi degli anni cinquanta, anzi addirittura una vera e propria 
abiura. Ma questa abiura va letta come si legge una poesia. 

Camon 
Cioè, quell'abiura è una soluzione letteraria e poetica, non filosofica e definitiva... 

Pasolini 
Quell'abiura è fondamentalmente vera perché considera certe posizioni degli anni cinquanta superate oggettivamente dalla società : altri sono i problemi oggi. Ma il « tono » di quell'abiura è poetico e non reale, e mi suggerisce termini eccessivamente carichi di rancore e di nuove speranze. 


Camon 
È ancora Romanò che ha parlato di lei come del più clamoroso caso di estroversione, che ha diretta ascendenza solo in D'Annunzio, con la differenza che l'esistenzialismo e l'erotomania di D'Annunzio erano un modello per la società contemporanea, mentre lei è provocatorio, e ancora: D'Annunzio era panico e innamorato della natura, mentre lei è tetro e angosciato. 

Pasolini 
Il bellissimo saggio di Romanò era condotto con chiara intelligenza. Forse qualche dubbio si può avanzare sul termine « estroversione ». « Estroversione », nel senso clinico-scientifico della parola, indica certi tratti del carattere che non sono miei, ma anzi opposti ai miei: sono essenzialmente un introvertito, io. Io tendo a forme di nevrosi, di ipersensibilità, a complessi di inferiorità, che sono 
tutte forme di introversione, clinicamente parlando. E direi anzi che l'estrovertito ha caratteri anche somaticamente diversi dai miei. La parola, dunque, se usata in questo senso clinico-psicologico, non credo di poterla accettare. Se invece è usata in un senso che ora direi sociologico (la mia introversione diventata estroversione attraverso gli strumenti della poesia)... 

Camon 
A questo appunto accade di pensare, leggendo i suoi versi, a un bisogno che è in lei di scavare in sé per dare fuori, continuamente. 


Pasolini 
Allora dirò che questo « dare » accade mio malgrado, per le vie che non sono tipiche dell'estroversione, e inconsciamente. Alcune forme esibizionistiche ci sono evidentemente in mc, ma in quel profondo che non implica responsabilità, fanno parte dei miei traumi, della mia psicologia patologica e io non le domino. Può darsi che l'estroversione sia una rivincita su certe mie esigenze inconsce, che nella vita pratica io non registro e quindi non riconosco per mie, ma che in realtà ci sono.

 Camon 
È stato scritto anche che lei ha un concetto strumentale della poesia, e in certo seno non ne ha rispetto. Qualcun altro (Pignotti) ha detto, con intenzioni elogiative, che lei scrive articoli in versi. Accetta questi due giudizi, o forse quest'unico giudizio? 

Pasolini 
È un discorso ambiguo. Nella mia cultura c'è un enorme rispetto per la poesia: non per niente mi son formato in un'epoca in cui la poesia era un mito: il decadentismo, l'ermetismo, la poesia in senso assoluto, la poesia pura, la Poesia con la P maiuscola. Io « non posso » non avere un senso altissimo della poesia. Ma ho dovuto contraddirmi proprio perché a livello storico la poesia era di- 
ventata un mito. Che andava demistificato. Perciò, con uno sforzo di volontà, ho reagito a me stesso, riconducendo la poesia a forme strumentali. Che, ripeto, sono dovute a un mio sforzo di volontà, a una mia lotta storica, quotidiana : ma nel fondo di me resta, solido come quarzo, un senso di venerazione per la poesia. 


Camon 
Con ciò lei ha praticamente risposto a una osservazione, conseguente alla domanda precedente, che poteva nascere a questo punto. E cioè: i materiali poetici sono in lei oggetto di passione e di biografia, un aspetto del suo malessere, come fu detto. Il che li porta a non essere mai enunciati una volta per sempre, in una forma fissa, definitiva, ma sempre relativamente all'esperienza di un frammento di vita. 

Pasolini 
Sì, ma forse la parola « malessere » va sostituita. Essa torna a galla negli articoli che toccano la mia poesia nei suoi punti clamorosamente appariscenti. Ma il fondo del mio carattere non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non solo nell'opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità quell'« amor di vita » che coincide con la lietezza. E gaia, Vitale, affettuosa è nell'intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere. 

Camon 
Crolla, dopo questa confessione, la contrapposizione, cui poco fa accennavo, di lei tetro e angosciato a D'Annunzio panico e gaudioso. 

Pasolini 
In verità, tetro e angoscioso è D'Annunzio che ha dovuto mascherare il suo fondo d'impotenza e di tetraggine inscenando una teatrale forma di vitalismo. A me succede il contrario: poiché sono profondamente innamorato della vita, « mi piace la vita » in tutti i suoi aspetti, ma sono impedito a che questo inesauribile amore si esplichi, ecco che questo amore diventa per me tragedia. 

Camon 
Mi spiego ora quella che era per me un'impressione immediata, quando chiudevo un suo libro di poesia: pur avendo la consapevolezza che il poeta mi si era mostrato cupamente angosciato, io mai mi sono sentito disperato o tetro. Ma non ho creduto o sospettato che tale doveva anche essere, nel suo fondo, l'animo del poeta. Forse anche qui c'è una delle tante ragioni che possono spiegare 
l'approdo al Vangelo. 

Pasolini 
Mi scusi se correggo anche la parola approdo: in me c'è sempre stato, fin dalla Meglio gioventù, un costante interesse per il Vangelo. 


Camon 
Matteo sostiene che Gesù è il Cristo o Messia Marco prova che Gesù, figlio di Dio, è dominatore della natura; Luca sostiene che Gesù è la salute dei giudei e dei gentili. Luca può apparire oggi borghese: la sua è la storia della chiesa nascente, di una rivoluzione che diventa istituzione. La tesi di Marco — che Gesù è veramente figlio di Dio — è sempre presente, almeno come ipotesi, negli altri Vangeli. Fra i tre dunque non si poteva scegliere che Matteo. Ma le è nata qualche incertezza fra Matteo e Giovanni? Giovanni sostiene che Gesù è il figlio naturale di Dio, e, descrivendo il suo ministero svolto a Gerusalemme, ne espone largamente le affermazioni, con pathos e misticismo : poteva far nascere a maggior ragione un'opera epica e sociale. 

Pasolini 
L' idea di trarne un film mi è nata proprio leggendo « un » vangelo, e cioè quello di Matteo. Inoltre, in Matteo mi attraeva una tendenza che sembra contraddirsi nei termini: la concretezza storica. Inoltre ancora, il personaggio Cristo mi sembra più affascinante in Matteo: un Cristo più inflessibile, più esigente, più travolgente, senza un momento di requie c di pace. Io fui soggiogato da questa figura. 


Camon 
Qualche critico ha avanzato delle riserve sulla voce di Enrico Maria Salerno. Applicata al Cristo di Mat 
teo, quella voce può ancora essere preferibile; a Giovanni, non più. 


Pasolini 
In Giovanni sono più forti, infatti, gli elementi mistici, religiosi, filosofici. In Matteo prevale la preoccupazione di compiere l'integrazione dell'Antico Testamento, d'intendere il Cristo come la conclusione delle profezie, e prevale l'idea metafisica dcl figlio di Dio e l'insegnamento morale.

Camon 
In generale, salvo qualche riserva particolare (per esempio, di Filippo Sacchi) i critici sono convinti dei 
valori del film. E più, mi è parso, dopo la seconda e terza visione che non dopo la prima a Venezia. 


Pasolini 
La prima visione serve soltanto a togliere la prevenzione, immancabile, con cui si assiste al film. 

Camon 
Una curiosità: perché sceglie i letterati come interpreti? Personalmente ho sempre pensato che sia per 
un bisogno autobiografico. Lei, cioè, trasferisce sullo schermo un dialogo poetico nato come colloquio amicale o epistolare. 

Pasolini 
No, le cose non stanno così. L'esigenza che mi guida è quella di non scegliere attori di professione; perciò devo prendere dalla strada i protagonisti più umili, dalla cerchia di amici letterati e intellettuali i personaggi più complessi. 
La borghesia italiana è molto volgare: gli unici membri non volgari sono o quelli che hanno un'autentica vocazione religiosa, o quelli che hanno una vocazione letteraria o scientifica. 


Camon 
Non li trova poco plasmabili i letterati? 


Pasolini 
Questa qualità non m'interessa: non voglio avere degli attori, se no prenderei dei professionisti. Io voglio avere del materiale umano vivo e vero. A volte non spiego nemmeno di che cosa si tratta al mio interprete. Gli dico, per esempio : Sorridi pensando a tuo figlio. Li prendo insomma per quello che sono: non voglio che fingano di essere degli altri. 

Camon 
AI testo della sceneggiatura del film, lei ha premesso, tra l'altro, una lettera in cui dice: « Per mc la bellezza giunge a noi sempre come bellezza mediata : attraverso la poesia o la filosofia o la pratica. Il solo caso di bellezza morale non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l'ho sperimentato nel Vangelo. » Mi pare che sia importante in lei questa ricerca di bellezza morale. 

Pasolini 
Perché la bellezza-bellezza è una bellezza estetizzata, è un vagheggiamento della bellezza, una volontà di bellezza. Parlando di bellezza morale, io tiravo le conclusioni dei pensieri elaborati attorno agli anni cinquanta, cioè all'epoca di « Officina », che ha respinto e distrutto l'idea di bellezza come bellezza e di poesia come poesia: filiazioni dell'estetismo, che ormai han fatto il loro tempo. 

(1965) 





Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA - di Roberto Chiesi

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"ERETICO e CORSARO"


APPUNTI PER  UN’ORESTIADE AFRICANA  

di Roberto Chiesi 


Titolo: Appunti per un’Orestiade africana
Regista: Pier Paolo Pasolini.
Anno: 1970 
Durata: 55’ 
Soggetto: Pier Paolo Pasolini.
Musiche: Gato Barbieri.
Fotografia: Giorgio Pelloni.
Produzione: Gian Vittorio Baldi.
Distribuzione: Dae.

(Ringrazio Roberto Chiesi, per il cortese consenso alla pubblicazione)


Nella primavera del 1968, Pier Paolo Pasolini stava progettando un film diviso in cinque episodi, sotto il titolo complessivo di Appunti per un poema sul Terzo mondo, che avrebbe voluto ambientare, rispettivamente, in Africa, India, America Latina, nei Paesi  Arabi  e  nei  quartieri  neri  dell’America  del  Nord.  Per  l’episodio  africano, considerò l’ipotesi di rielaborare la sceneggiatura di un film mai realizzato, Il padre selvaggio, ma alla fine decise di ispirarsi all’Orestiade di Eschilo.   
Erano  trascorsi  quasi  dieci  anni  da  quando  Pasolini  aveva  tradotto  la  trilogia eschilea per uno spettacolo teatrale diretto e interpretato da Vittorio Gassman. Nella Lettera  del  traduttore  (1960),  scriveva:  «Il  momento  più  alto  della  trilogia  è sicuramente  l’acme  delle Eumenidi,  quando  Atena  istituisce  la  prima  assemblea democratica  della  storia.  Nessuna  vicenda,  nessuna morte,  nessuna  angoscia  delle tragedie dà una commozione più profonda e assoluta di questa pagina. Le Maledizioni si  trasformano  in  Benedizioni.  L’incertezza  esistenziale  della  società  primitiva permane  come  categoria  dell’angoscia  esistenziale  o  della  fantasia  nella  società evoluta».  
Nell’immaginazione pasoliniana, la “società primitiva” venne ad identificarsi con l’Africa  tribale  e  arcaica.  Mentre  il  progetto  di Appunti  per  un  poema  sul  Terzo mondo si arenava per ostacoli produttivi, nel dicembre 1968, si concretizzò invece la possibilità di realizzare l’Orestiade sotto forma di “appunti per un film da farsi”, in Kenia e Tanzania.  

«Il tema profondo dell’Orestiade, almeno per noi lettori moderni, è il passaggio tra un  periodo  storico  “medievale”  e  un  periodo  storico  “democratico”:  indi  della trasformazione delle Menadi (dee medievali del terrore esistenziale) in Eumenidi (dee dell’irrazionalità  in  un  mondo  razionale).  Se  oggi,  nell’Africa,  accade  qualcosa  di simile,  è  indubbio  che  Atene  (modello  di  forme  democratiche)  è  il  mondo  bianco 73progressivo: e Atena, la Dea che ha insegnato a Oreste la democrazia, istituendo il primo tribunale umano e l’istituzione  della votazione, è una dea bianca. Il progetto di un  film  dall’Orestiade  di  Eschilo  ambientato  nell’Africa  nera  moderna,  potrebbe essere intanto un perfetto filo conduttore per un documentario, appunto sull’Africa nera moderna» (da L’Atena  bianca, 1968).  

Come era già avvenuto con il mediometraggio documentario prodotto dalla RAI Tv, Appunti  per  un  film  sull’India  (1968),  anche  il  film  girato  in  Africa,  segue  un itinerario scandito dalla ricerca dei volti e dei luoghi, in questo caso per le figure di Agamennone, Oreste, Clitennestra, Cassandra e Pilade, tra le popolazioni delle tribù e dei  villaggi  della  Tanzania  e  dell’Uganda.  La  voce di  Pasolini  si  sofferma  a commentare le possibili scelte di visi e corpi per i personaggi del suo film, ma sceglie e filma anche una povera capanna sul lago Vittoria, con gli umili utensili del lavoro quotidiano, il villaggio di Kasulu, “ancora vicino alla preistoria”, un mercato e la folla che lo gremisce, i sarti e i loro clienti, un barbiere, un altro mercato della città di Kigoma,  perduto  nella  Savana.  Negli Appunti  per  un’Orestiade  africana,  appaiono anche  le  immagini  della  modernità,  come  una  fabbrica  nelle  vicinanze  di  Dar  es Salaam, una scuola moderna “Livingstone”, nei pressi di Kigoma. Il poeta confronta la sua visione dell’Africa a quella di alcuni studenti africani dell’Università La Sapienza di  Roma,  cui  mostra  alcune  sequenze  girate.    Per  rappresentare  le  Furie, irrappresentabili  sotto  l’aspetto  umano,  Pasolini  ha  una  geniale  intuizione  visiva  e filma le forme degli alberi africani. Nel film si inseriscono anche sequenze di diverso registro: come i brani di repertorio sulla guerra del Biafra, che, nell’immaginazione di Pasolini, diventano una sorta di evocazione contemporanea della guerra di Troia da cui ritorna Agamennone all’inizio dell’Orestiade.
  
Ad un registro diverso appartiene anche la sequenza di un duetto cantato, “nello stile del Jazz” da Yvonne Murray e Archie Savage con la musica di Gato Barbieri. In seguito,  Pasolini  mette  in  scena,  quasi  come  sequenze  di  prova,  l’arrivo  di  Oreste (impersonato  da  un  giovane  africano)  sulla  tomba  del  padre  e  la  sua  fuga,  dopo  il matricidio,  perseguitato  dalle  Furie.  Nell’immaginazione  pasoliniana,  la  città  di Kampala, capitale dell’Uganda, evoca Atene e l’Università di Dar es Salaam il Tempio di  Apollo.  È  nella  libreria  del  college  che  la  mdp.  di  Pasolini  scopre  i  segni  della colonizzazione culturale neocapitalista e anglosassone, nonostante che la costruzione rechi una lapide di ringraziamento alla Repubblica Popolare Cinese.   Le riprese africane di Appunti per un’Orestiade africana avvennero in due tempi: nel dicembre 1968 e nel febbraio 1969. Ai primi mesi del 1970, risalgono, invece, le riprese  effettuate  all’università  di  Roma.  Per  la  prima  volta  nella  sua  attività cinematografica, Pasolini fece anche l’operatore per l’intera durata delle riprese, come per tutti i film realizzati successivamente.  

Appunti  per  un’Orestiade  africana,  prodotto  da  Gian  Vittorio  Baldi  per  la  IDI Cinematografica,  era  destinato  alla  RAI  Tv,  che  lo rifiutò  adducendo  motivi pretestuosi.  Venne  proiettato  per  la  prima  volta,  in  una  versione  non  definitiva (presumibilmente  più  lunga  di  oltre  venti  minuti), al  Mercato  Internazionale  dei programmi televisivi - MIDEM di Cannes, il 16 aprile 1970. Dopo alcuni interventi al montaggio,  Pasolini  stesso  lo  presentò  a  Venezia,  durante  le  Giornate  del  cinema italiano, il 1° settembre 1973. 

Le  prime  proiezioni  regolari  del  film  nelle  sale  della  penisola  avvennero  solo alcune  settimane  dopo  la  morte  di  Pasolini,  il  29  novembre  1975. Appunti  per un’Orestiade  africana  conobbe  una  diffusione  molto  limitata,  quasi  “confidenziale”. Nel  2005,  il  film  è  stato  restaurato  dalla  Cineteca  di  Bologna  presso  il  laboratorio “L’Immagine ritrovata”, grazie ai materiali messi a disposizione dal produttore Baldi. Dai  negativi  16mm  scena  e  colonna,  sono  state  stampate  matrici  di  conservazione 35mm. 

Libero, la rivista del documentario
PIER PAOLO PASOLINI n. 2  settembre-novembre 2005 
© Fondazione Libero Bizzarri Edizioni & Autore






Curatore, Bruno Esposito

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PASOLINI E... LA FORMA DELLA CITTÀ - di Roberto Chiesi

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"ERETICO e CORSARO"


PASOLINI E...  LA FORMA DELLA CITTÀ 

di Roberto Chiesi

 (Ringrazio Roberto Chiesi, per il cortese consenso alla pubblicazione)



Negli   anni   Settanta,   nonostante   il   servile   conformismo   che   già   allora   la caratterizzava,  la  RAI  produceva  ancora  qualche  programma  culturale  di  valore.  La serie Io e..., curata da Anna Zanoli, un’ex allieva di Roberto Longhi, era senz’altro una delle trasmissioni più intelligenti e riuscite. Un intellettuale, uno scrittore o un artista italiano  veniva  sollecitato  a  parlare  di  un’opera  d’arte  prediletta:  si  susseguirono,  fra gli  altri,  gli  interventi  di  Eugenio  Montale,  Cesare  Zavattini,  Andrea  Zanzotto, Tommaso  Landolfi,  Mario  Luzi,  Federico  Fellini,  e  altri.  Ogni  programma  durava circa un quarto d’ora ed era diretto da registi diversi, come Luciano Emmer e Paolo Brunatto.  
Nell’inverno   del   1973-‘74,   quando   gli   proposero   di partecipare   ad   una trasmissione,  Pier  Paolo  Pasolini  sulle  prime  disse  che  avrebbe  parlato,  non  di  un quadro o di un libro, ma dei vecchi casolari di campagna. Poi mutò idea e si orientò su un’anonima  fontana  di  Roma,  priva  di  valore  artistico,  ma  caratterizzata  da un’identità  sociale  particolare  come  luogo  di  ritrovo  di  prostitute  e  lenoni.  Scartata anche  questa  soluzione,  decise  di  parlare  di  Orte  e  Sabaudia,  due  città  che  amava molto e che appartenevano alla sua vita, perché da qualche anno possedeva un’antica torre e un’abitazione nel bosco del fiume Chia, vicino a Orte, e la sua casa al mare si trovava proprio a Sabaudia. 

In realtà, la scelta di quei due luoghi, così legati all’esistenza di Pasolini, divennero il pretesto per denunciare la speculazione edilizia, che stava devastando il paesaggio di  Orte,  ossia  l’armonia  fra  le  colline  e  la  natura  circostante  e  l’antica  cittadina medievale.  Un’armonia  che  aveva  resistito  per  secoli,  ma  che  venne  deturpata nell’arco di pochi anni da alcune recenti abitazioni, costruite nel modo più arbitrario e senza rispettare il disegno del paesaggio. Fu lo stesso Pasolini a dirigere la mdp per mostrare lo scempio mentre la sua voce dolorosa e assorta, esprimeva un’indignazione profonda.  Il  poeta-regista  introdusse,  poi,  l’inserimento  di  alcuni  frammenti  di Le mura  di  Sana’a,  un  bellissimo  cortometraggio  che  aveva  girato  a  Sana’a,  la  capitale dello Yemen del nord, al termine delle riprese che aveva effettuato in quei luoghi de Il  Decameron.    Era  una  città  stupenda  e  antichissima  che  la  modernità  stava minacciando di distruzione. Ritornando a commentare le immagini di Orte, Pasolini precisò che “mentre per Orte si può parlare soltanto di un lieve danneggiamento, di un difetto, per quello che riguarda, invece, la situazione dell’Italia, delle forme delle città nella nazione italiana, la situazione è decisamente irrimediabile e catastrofica”. Il poeta  esaltò,  poi,  la  bellezza  umile  di  un’antica  stradina  di  Orte  e  insistette 81sull’importanza  di  difendere  e  preservare  un  patrimonio  artistico  di  urbanistica  e edilizia popolare che aveva una grazia estetica mai più ripetuta. 

Sabaudia  è  percorsa  dallo  sguardo  di  Pasolini  in  una  “grigia  luce  lagunare”  e  le forme massicce degli edifici costruiti in piena epoca fascista sono descritte con parole inattese  dal  poeta-regista,  ricordando  l’ironia  che  gli  intellettuali,  lui  compreso, hanno  riservato  all’architettura  del  regime.  “Il  passare  degli  anni  ha  fatto  sì  che quest’architettura  di  carattere  littorio,  assuma  un  carattere,  diciamo  così,  tra metafisico e realistico. (...) Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso? Una   città   ridicola,   fascista,   improvvisamente   ci   sembra   così   incantevole...”. Arrestatosi su una spiaggia di Sabaudia, battuta dal vento invernale, Pasolini si rivolge direttamente alla mdp e concludendo il cortometraggio, ecco che lo trasforma in uno “scritto corsaro” in forma di immagini, condensando alcuni degli argomenti della sua geniale  polemica  contro  l’omologazione  che  aveva  intrapreso  da  pochi  mesi  sulle pagine  del  “Corriere  della  sera”.  Il  paesaggio  urbano  di  Sabaudia  rivela  oggi  una  sua grazia  perché,  in  realtà,  il  fascismo  non  è  riuscito  a  distruggere  l’Italia  popolare, rustica  e  contadina,  mentre  il  potere  della  società  dei  consumi,  con  le  armi  della televisione e il cancro dell’omologazione, sta distruggendo il paese nel profondo della sua identità. 

Trasmessa  per  la  prima  volta  il  7  febbraio  1974  dalla  RAI, La  forma  della  città  è firmata da Paolo Brunatto, ma costituisce uno di quei casi “impuri”, tutt’altro che rari nel cinema, in cui l’apporto di chi è filmato assume un rilievo così forte da assorbirne, in  un  certo  senso,  la  paternità:  infatti,  in  questo  cortometraggio,  Pasolini,  oltre  ad assegnare  al  film  il  respiro  della  propria  dialettica,  scelse  e  decise  numerose inquadrature. Non a caso, inserì nella versione definitiva di Le mura di Sana’a alcune sequenze girate a Orte in quell’occasione e, in un’intervista a Gideon Bachmann (La perdita  della  realtà  e  il  cinema  inintegrabile,  13  settembre  1974),  lo  attribuì  a  se stesso. 

Libero, la rivista del documentario
PIER PAOLO PASOLINI n. 2  settembre-novembre 2005 
© Fondazione Libero Bizzarri Edizioni & Autore





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Turoldo David Maria, Lettera alla madre di Pier Paolo Pasolini

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Lettera alla madre di Pier Paolo Pasolini




“Cercherò di dire quello che posso e meglio che posso. Sono un sacerdote e sono venuto come sacerdote ad accompagnare all’ultima dimora l’amico e fratello Pier Paolo. Vi leggerò i pensieri che ho avuto subito dopo aver avuto notizia della sua morte. È alla mamma che mi rivolgevo e che mi rivolgo. È un documento che non ho potuto pubblicare, perciò ve lo leggo qui, nel posto, forse più adatto. 
Mamma, è a te che scrivo con tono sommesso e senza rancore. Potrei lasciare libero sfogo all’odio e alla maledizione, ma a che serve? Oggi non serve neppure lo sdegno e il furore. C’è troppa violenza su Roma. Non c’è un fiore più che sbocci in questa periferia romana, e non un alito di vento che ne spanda il profumo; non un fanciullo con la faccia pura; non un prete che preghi… E le messe in piazza S. Pietro servono a poco, né convincono molti a credere che sia questo davvero un anno santo, e che Roma è la città di Dio, secondo la parola del cardinale… C’è solo gente ingrumata e torva, gente che urla dalle baracche; oppure gioventù che pensa a strappare e a uccidere, caricando la ragazza morta nel bagagliaio, e l’altra viva appena, per poter raccontare come “finalmente ce l’hanno fatta” ad ammazzare.

Mamma, ti parlo per lui, che ora ha la bocca piena di sabbia e polvere, e non ti può chiamare: ma ha tanto bisogno di te, mamma; come l’ha sempre avuto lungo tutta la sua martoriata vita: una vita di povero friulano, solo, senza patria e senza pace. 

Eri tu la vera sua patria, il luogo della sua pace, il solo asilo sicuro. Lui così timido, fino al punto di aver paura di ogni cosa, per cui era diventato tanto spavaldo. Tu che riassestavi per lui e per noi tutta quella nostra terra, e la gente umile di cui si sentiva amico e fratello, e il suo paese è la nostra storia di popolo “passato attraverso la lunga tribolazione“. Tu, che eri per lui la sua vera chiesa, il segno di una fede magari bestemmiata ma mai tradita nel profondo della sua passione. Tu, che sei stata la sua madre addolorata sotto la croce, immagine di una umanità che ancora, dalle nostre parti e nei paesi più poveri del mondo, continua a piangere su qualche figlio ucciso, su qualche innocente crocifisso. Mamma, vorrei dirti ora di tornare a casa, di lasciare questa maledetta capitale; di fuggirtene anche a piedi, vestita a nero come sei arrivata, col fazzoletto nero annodato al collo e che ti scende dietro sulle spalle; con la lunga sottana nera, come tutte le donne antiche del nostro Friuli antico, simili appunto a Madonne sul Calvario. Torna come una pellegrina a ritroso, verso paesi certo più miti e più cristiani. Ritorna, riaccompagnandolo in quella terra che non ha mai potuto dimenticare. Per quello era cosi gentile, appunto perché umile come umile è il suo Friuli. E tutti lo devono dire che era così buono, fino al tormento, fino a distruggersi con le sue mani. Ed era così bisognoso di amicizia, come appunto è il mio Friuli, così solo. E gridava ai quattro venti le sue contraddizioni e i suoi peccati, come un russo che ha bisogno di martoriarsi: noi abbiamo anche questi sconfinamenti nella nostra natura. E poi chiediamo scusa di esistere… Era come il minatore in esilio, il carpentiere e il manovale, insonne e ramingo. E tu ora immagina che sia successo appena una disgrazia sul lavoro, quasi fosse caduto da una impalcatura; e tu come madre di un emigrante, ora lo riaccompagni al piccolo cimitero del paese. Così avendo finito il tuo compito di angelo protettore di un figlio tanto fortunato e sfortunato insieme; un figlio divorato dalla stessa vita che tu gli hai dato: una vita rovinata dalla troppa umanità. Là c’è suo padre, ora in pace nella morte, e c’è l’altro figlio ucciso pure lui per la nostra liberazione, e ci sono gli altri morti; e ci sono gli amici ancora vivi, tutta una gente di cui ti puoi fidare; una gente che non viene a disturbarti, ma che ti è vicina; che patisce con te in silenzio, senza darti nemmeno l’aria di patire. Perché, anzi, ti canterà le villotte della gioia, quella che Pier Paolo aveva cantato e composto, giovanissimo, come sua prima e più viva poesia. 

Perché noi siamo un popolo che canta, anche quando ha da piangere. È questa la nostra natura migliore, come era quella di tuo figlio, vero grande poeta del popolo, voce dei poveri! Perché, per noi, tutto il resto è “segnato”, è il destino. Noi crediamo veramente nel destino! I verbi dei nostri canti sono: “Squegni“, “mi toce“, “è dovere”. Mamma, ricordi? Così ripeteremo la preghiera che un giorno, nel “Stroligut 2 di Cjasarsa” fin dal 1944, proprio questo tuo figlio, così maledetto e così buono, aveva scritto per noi, presi dentro la furia della guerra e della morte: “Crist, pietàt dal nustri paìs. No par fani pi siors di che ch’i sin. No par mandàni ploja. No par mandàni soreli. Patì cialt e freit e dutis li’ tempiestis dal seil, al è il nustri distìn…”. Cristo, pietà per il nostro paese. Non per farci più ricchi di quel che siamo. Non per mandarci la pioggia. Non per mandarci il sole. Patire il caldo e il freddo e tutte le tempeste del cielo, è il nostro destino. Lo sappiamo! Quante volte in questa nostra piccola chiesa di Santa Croce, noi ti abbiamo cantato le litanie, perché tu avessi pietà della nostra terra! Ma ora ci accorgiamo di averti pregato per nulla; ora ci accorgiamo che tu sei troppo più in alto e della nostra pioggia e del nostro sole e delle nostre brine. Oggi è la morte che ci gira intorno! Ma da dove viene questa morte? Da dove… ?. In fondo il tuo Pier Paolo, mamma, ha sempre vissuto con la morte dentro, se l’è portata in giro per il mondo lui stesso come suo fardello di emigrante, come suo carico fatale. Ed ora che l’ha raggiunta, è bene che ritorni anche lui a casa. Meglio che il silenzio scenda su quella notte. Quella tua morte del due novembre, Pier Paolo: pareva di sentire i morti morti un’altra volta, i miei morti morti ancora, tuo fratello ucciso ancora; pareva di masticare cenere di morti e .fango tra i denti; pareva che la morte spuntasse ad ogni angolo: Roma era tutta sporca… E tu che portavi sull’intero tuo corpo i segni di un orrendo e assurdo “ecce homo” contrapposto a Cristo… tu finito nella gehenna come il più repellente rifiuto della santa capitale. Ma tu non avevi colpa, tu gridavi la colpa nel tuo corpo di linciato, come figlio della stessa colpa; tu, prima, incarnazione impazzita della grandezza e miseria e ora simbolo della morte ormai dissacrata per sempre. Papa Giovanni e tu, ecco i due estremi di morire… Da ricordare l’orgia di inchiostri di tutti i colori in quei giorni; e il livore e la bava della gente “più pura”. No, meglio non dire più nulla. Dato che non siamo più capaci di un minimo gesto di pietà. E questo mi fa veramente paura: di quanto sia capace di odio e di furore distruttivo (di furor mortis) un uomo di religione; di quanto sadismo egli sia fonte come nessun altro. Ma forse la ragione è proprio questa: che è un uomo di religione, non un uomo di fede, non uomo di vangelo. Come la mettiamo in questo caso? Perché pare che la moltitudine dei “praticanti” sia scatenata.” 

David Maria Turoldo 

(Tratto da “Chiediamo scusa di esistere”, nel volume Pasolini in Friuli, ed. Corriere del Friuli in collaborazione con il Comune di Casarsa della Delizia, Arti Grafiche Friulane, Udine 1976)



Curatore, Bruno Esposito

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Mamma Roma e lo sfogo di Pasolini - Da “Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

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"ERETICO e CORSARO"

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962


Mamma Roma e lo sfogo di Pasolini

Da “Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)



No, è chiaro che accade qualcosa di ingiusto. L’avevo previsto, del resto. Su “Vie Nuove”, avevo scritto, ben prima che Mamma Roma uscisse, che “la sua fine avrebbe potuto essere la mia fine”, perché a me, in queste particolari circostanze mie, nella mia società, è proibito sbagliare. Ero eccessivo, come sempre, nelle mie passioni, ma anche lucido, purtroppo. A me è proibito non dico sbagliare, ma offrire appena il fianco. E se in questo ci fosse per caso un po’ di mania persecutoria, sarebbe più che lecita, mi pare.

In realtà, non si tratta della ‘fine’, del mio film o mia. Che anzi, il film va benissimo, e io sto altrettanto bene, già al lavoro alla nuova storia africana. Ma è chiaro che qualcosa di ingiusto sta accadendo: inafferrabile, come in tutte le situazioni kafkiane che si rispettino.

Lasciamo stare l’assurda denuncia del colonnello Fabi: atto – nel migliore dei casi – di psicosi collettiva e di ingenuità personale che, in fondo, mi fa più pena che indignazione. E, del resto, l’ingiustizia dell’iniziativa è stata largamente compensata dall’intervento del magistrato, che ha messo le cose a posto, con chiarezza di idee, coraggio e cultura, dall’accento, a dire il vero, poco italico, o almeno inconsueto nella nostra nazione.

E lasciamo stare anche il pivello fanatico, che in cima alle scale della galleria del Quattro Fontane, nel silenzio che seguiva la morte di Ettore appena accaduta sullo schermo, mi ha affrontato con l’urlo stentoreo che sapete (“Pasolini, in nome della gioventù nazionale, ti dico che fai schifo”). Anche qui c’è da avere più pena (magari ironica) che rabbia. E del resto, anche qui, l’ingiustizia dell’iniziativa patriottica è stata largamente compensata dagli incivili schiaffi che ho allentato all’eroe, non appena, sicuro dell’impunità, ha chiuso quella povera bocca di minus habens strillante il nulla. (Dovrei vergognarmi di quella mia reazione improvvisa, degna della giungla: sono ‘partito per primo’, come dicono i tanto disapprovanti ragazzacci del suburbio, e gli ho dato un ‘sacco di botte’. Dovrei vergognarmi, e invece devo constatare che, date le circostanze che mi riducono a questo – a ragionare coi pugni –, provo una vera e propria soddisfazione: finalmente il nemico ha mostrato la sua faccia, e gliel’ho riempita di schiaffi, com’era mio sacrosanto diritto).

Quello che mi sembra ingiusto è il modo come il mio film è stato accolto (prima a Venezia, e poi, finora, a Roma) dalla critica.

Dico subito che il primo a non essere completamente soddisfatto del mio lavoro, sono io; e dico subito che forse amo più Accattone. Ma con ciò?

Perché dico subito anche (visto che i miei giudizi su me pare abbiano valore oggettivo!) che non mi sembra neanche roba da tutti i giorni, Mamma Roma, da poter sbrigare con un penso da giudizio ‘mondano’, anziché culturale. Quasi che un’opera si inquadrasse in una storia di festival o di successi sociali, anziché in una storia dello stile. Credo di essere abbastanza lucido nei miei confronti se dico che sequenze come il banchetto iniziale, le due lunghe carrellate della Magnani, le sequenze della storia d’amore tra i ruderi e nel canalone tra Ettore e Bruna, e la sequenza finale, sono dei pezzi di cinema che non si possono accantonare in nome di discorsi generali più o meno leciti ideologicamente e esteticamente, o più o meno condizionati dalla vicenda mondana o pubblica del film.

Insomma, in un’opera quello che dovrebbe contare è quello che vale, non quello che non vale: invece, di Mamma Roma si è giudicato esclusivamente quello il cui valore può essere messo in dubbio, quasi che il critico farneticasse tra sé, preso dal suo cerchio particolare di interessi ideologici (o peggio): “Ma sì, le cose belle ci sono, e molte: ma è naturale che sia così. E tanto naturale che non me ne accorgo neanche. Mi accorgo invece, con acume d’eccezione, dei punti non riusciti, sia rispetto a Mamma Roma stessa, sia rispetto ad Accattone”.

Cosi è nato il dirizzone della critica, e la situazione d’ingiustizia in cui mi vedo precipitato.

Ma naturalmente, le cose si spiegano.

Anzitutto, la condizione di gran parte della critica cinematografica italiana, la cui preparazione culturale è penosa. Non c’è nessuno che non si senta autorizzato a scrivere di cinema, e io non so che criteri seguano certi direttori dei giornali nell’affidare la critica cinematografica... Ora, nel mio caso, succede che tale provvisorietà della competenza, sia specifica che generale, riesca più chiara: per il fatto che il giudizio su me, regista, implichi un giudizio, più o meno diretto, su me scrittore, o implichi almeno il riferimento a una storia stilistica che comprende una serie di opere letterarie. Ora, è successo varie volte che io dovessi leggere – come si dice? – allibito la strana colorazione che assume il giudizio letterario nella recensione cinematografica: giudizio letterario esclusivamente mediato dalla volgarizzazione giornalistica (volgarissima).

Il caso Mantegna, per esempio. Io avevo detto, in qualche intervista, e poi scritto abbastanza esaurientemente, in un lungo articolo-racconto (apparso sul “Giorno”, e poi nel volume di Mamma Roma) come la mia visione figurativa della realtà fosse piuttosto di origine pittorica che cinematografica: e con ciò spiegavo certi fenomeni tipici del mio modo di girare. Insomma, i riferimenti pittorici erano visti come fatti stilistici interni: non, accidenti!, come ricostruzione di quadri!

Ma certi critici cinematografici, leggendo evidentemente quei miei scritti con una fretta che nulla ha da vedere con la cultura, hanno tratto delle conclusioni che sono quasi commoventi, nella loro totale e disarmata ingenuità: siccome, nel finale, la figura di Ettore è vista di scorcio, ecco che tutti, in coro, hanno fatto il nome del Mantegna!

Mentre il Mantegna non c’entra affatto, affatto! Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero cosi essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?... Ma lasciamo perdere; figurarsi se simili ‘mistioni’ toccano la sensibilità di gente che ogni giorno deve buttar giù il suo pezzo, preoccupata solo di non sbagliare troppo, e quindi di seguire, soprattutto, quello che dicono gli altri...

Questa incompetenza che non potrebbe sussistere se non fosse sorretta dal conformismo e dal cinismo, è la base di gran parte della critica cinematografica italiana.

Ora per una produzione commerciale media, è una base che può anche andar bene: è un ingranaggio, manovrato dai vari interessi, nel rapporto fra produttore e consumatore. Un aspetto fatale del nostro mondo, una forma dell’aridità neocapitalistica.

Ma proprio al centro di questa fatalità del ciclo produzione-consumo, proprio nel cuore di questa aridità culturale, sta nascendo, contraddittoriamente, in Italia, un cinema di autore. Cioè un cinema caratterizzato, come tutti i casi di poesia, da una forte necessità culturale.

Perciò la critica cinematografica di tanti quotidiani, è ormai impari al suo compito. Mi sembra questo uno dei problemi centrali della nostra cultura.

Non si può pretendere rigore, intransigenza, amore della verità, onestà, infine, da dei mestieranti, che, in fondo al loro cuore di piccoli-borghesi, hanno per la cultura, un profondo, ideologico disprezzo. Il fatto che operi poi, nei giornali, una dozzina di critici bravi – onesti e geniali – non significa nulla: la situazione resta quella che ho tristemente delineato.

Nel mio caso, poi... A destra, nei giornali fascisti o clericali, c’è la malafede pura. Qui siamo davvero in pieno Kafka. Essi sono capaci di qualsiasi cosa, di negare le verità più lampanti, di distorcere le cose più semplici. Figurarsi cosa ci vuole a distruggere un film con la scusa dell'opinabilità di ogni giudizio del Rashomon della verità... Eppure per Accattone, pur masticando amaro, pur insultando, pur fingendo una indignata sufficienza, avevano in qualche modo dovuto accettarne l’esistenza, il fenomeno. Per Mamma Roma possono, invece, minimizzare. E questo perché? Perché la critica di sinistra, o la critica amica, in genere, ha avanzato sul film qualche dubbio.

È successo questo, insomma, che, dalla parte dove si doveva dir male, c’è abbastanza malafede per dir male anche di ciò di cui si doveva dir bene, per approfittare di una non totale riuscita per negare totalmente la riuscita. Mentre dalla parte amica c’è troppa buonafede per dir completamente bene di un’opera in cui si trovano dei difetti, e per difenderla quindi incondizionatamente.

Così i manutengoli di destra, i vari ‘vice’ dotati di una cultura di ripetente di terza media hanno approfittato di qualche onesto dubbio ideologico dei critici di sinistra, per mortificare stupidamente il film: per negarne anche il peso poetico, come non avevano potuto fare per Accattone.

È una situazione penosa (anche perché i dubbi degli onesti critici di sinistra non mi sembrano poi sempre chiari: non potrò mai accettare le ecolalie di Micciché sull’“Avanti!”), e indegna del livello a cui sta operando l’intera cinematografia italiana.

Si fanno tante storie, ci si indigna tanto a proposito dei Festival: che invece sono quello che sono, delle Fiere della Vanità, manovrate dai produttori, che, col cinismo del vecchio capitalista, conoscono fin troppo bene le debolezze umane. Comunque, tutto ciò non ha un gran peso nella reale vita culturale della nazione.

La critica cinematografica sì, invece. Ed è un problema che va urgentemente – non dico discusso e affrontato, per non dire delle cose inutili – ma almeno conosciuto nella sua triste e umiliante realtà.

Pier Paolo Pasoloni

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, gli Italiani oggi - Controcampo, trasmissione del 19 ottobre 1974

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"ERETICO e CORSARO"




Pasolini, Italiani oggi
Controcampo, trasmissione del 19 ottobre 1974
di Giuseppe Sibilla
Radiocorriere
13/19 ottobre 1974


[...]
Avevamo un tempo, neanche troppo lontano, un'Italia e degli italiani che parevano facili da riconoscere e da catalogare, non importa se fosse la risultante di una civiltà rurale oppure borghesemente e tranquillamente urbana. Sono poi successe cose che hanno rimescolato profondamente le carte: i contadini sono andati a lavorare in fabbrica, o si sono resi conto che sulla loro ecologicamente beata confidenza con la terra c'era qualcuno che aveva interesse a speculare; i lavoratori in fabbrica sono diventati ceto medio; il ceto medio che cosa sia diventato non lo sa ancora nessuno; e tutti in pari misura sono stati sottoposti al martellamento dei mezzi di comunicazione di massa e degli << esempi >> che quei mezzi hanno loro offerto e offrono, con effetti dei quali è molto difficile dire con sicurezza in che misura li si debba dividere in positivi e negativi.


Lo « scandalo »

Questa situazione esiste, e certo è assai più articolata e ambigua di quanto non possa risultare da una sommaria descrizione.
Ne parlano e ne discutono in molti, senza che la discussione si allarghi tutta via ad assumere proporzioni << scandalose >> Un giorno se ne occupa un personaggio di quelli che, a quanto pare, non riescono mai ad esprimere un atteggiamento o a prendere una posizione senza determinare sconquassi, e lo scandalo scoppia. Ecco perciò il << caso >> e lo spunto che Controcampo non si lascia sfuggire. Ed ecco la trasmissione che è stata approntata per questa settimana, col titolo, chiarissimo di "Italiani oggi".
Facciamo un passo indietro e partiamo dall'antefatto. Il 10 giugno Pier Paolo Pasolini pubblica sul Corriere della Sera un articolo intitolato "Gli italiani non sono più quelli", nel quale afferma in modo molto esplicito che, specialmente da una decina d'anni a questa parte, i suoi e nostri connazionali sono completamente cambiati, e sono cambiati in peggio. Il mutamento, dice, è cosi radicale da definire addirittura antropologico, e nessuno ne è rimasto escluso: non ceti medi, che hanno sostituito i valori magari discutibili in cui prima credevano con la 
<< ideologia edonistica del consumo e della tolleranza modernistica di tipo americaneggiante >>; 
non l'Italia contadina e paleoindustriale, che 
<< è crollata, si e disfatta, non c'è più >>, 
ed è presumibilmente in attesa di diventare qualcosa di molto simile all'Italia media, e quindi di assumerne i valori negativi, di farsi anch'essa 
<< modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante >>.
Fra questi italiani modificati è divenuto impossibile, secondo Pasolini, distinguere fra popolo e borghesia, operai e sottoproletari, e perfino tra fascisti e antifascisti. 
<< La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa >>, 
dice lo scrittore-regista:
<< Non c'è più dunque differenza culturale apprezzabile tra un  qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, intercambiabili >> Com'è logico, trattandosi d'un fenomeno recente, la confusione o << omologazione >> come Pasolini la definisce, riguarda soprattutto le giovani generazioni: << I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano e mettono bombe sui treni... sono in tutto e per tutto identici all'enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente  — ripeto — non c'è nulla che li distingua.„ Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo >>. 

Una mutazione 

La perniciosa omologazione » si è prodotta per opera di un « Potere » che Pasolini scrive con l'iniziale maiuscola << solo perché >> precisa in un altro articolo, apparso il 24 giugno sempre sul Corriere, 
<<sinceramente non so in che cosa consista e chi lo rappresenti>>. 
Egli si sente di attribuirgli, vagamente,
<< dei tratti " moderni ", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente: ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza infatti è falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una " mutazione della classe dominante, è in realtà — se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia — una forma totale di fascismo >>. 
Sono affermazioni sorprendenti, e non ci si può certo meravigliare che provochino l'immediata discesa in campo di scrittori, osservatori politici e politici attivi, saggisti e uomini di cultura in genere. Le risposte e non sono per niente entusiastiche. Pasolini è accusato di essersi lasciato andare a uno << sfogo poetico >>, a una << nostalgia mal riposta >>, e in sostanza di voler attribuire un significato e un peso politici a un modo di argomentare che è invece di tipo estetizzante e mistico, e che sta a livello pre-morale e pre-ideologico. Quest'ultima osservazione glie la fa l'amico Moravia, il quale aggiunge che sul piano politico
<< c è una maniera sicura di distinguere un cittadino italiano fascista da un cittadino italiano antifascista, ed è quella di prendere in considerazione le idee e l'ideologia o la visione del mondo in cui mostra di credere >>. 

Alcune opinioni 

Per lo storico Lucio Colletti, Pasolini ha probabilmente
<< solo nostalgia dell'Italia rustica e paesana, un mito letterario che non serve a niente >>. 
Il sociologo Franco Ferrarotti definisce la sortita pasoliniana
<< frutto di candida e accattivante ignoranza >> 
e aggiunge che
<< quando nessuna apprezzabile distinzione è più tracciabile tra fascisti e antifascisti, quando si è tutti fascisti, è chiaro che si è maturi per una sommaria assoluzione plenaria >>. 
Giorgio Bocca, che già in precedenti occasioni aveva giudicato indispensabile operare una distinzione fra il Pasolini « artista e letterato » e il politico
<< dilettante che farebbe meglio a stare attento alle parole >>, 
lo dichiara adesso
<< entrato in orbita >> e << scopritore dell'acqua calda >>. 
I politici reagiscono duramente. Sulla Voce Repubblicana l'articolo del 10 giugno viene definito << ambizioso >>, e il suo autore
<< letterato di corte, narcisista, politicamente mobilissimo >> 
Maurizio Ferrara con una lunga replica sull'Unità accusa Pasolini di confondere la politica con la metafisica, e quindi di compiere una pericolosa
<< fuga intellettuale dalla ragione e dai suoi obblighi >> 
e di
<< concedere un visto di entrata alle tesi di chi ha tutto l'interesse politico a che i contorni del fascismo restino annebbiati >> 
Nella pioggia di reprimende, che peraltro lo lasciano fermo nelle convinzioni che ha espresso e ribadito, l'unica voce parzialmente comprensiva è quella dello scrittore Leonardo Sciascia, che si dichiara in disaccordo sulla sostanza, ma gli riconosce almeno il merito di pensare.
<< Pasolini può anche sbagliare, può anche contraddirsi >>, dice, << ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare >>. 
Se a Controcampo piacciono gli spunti attuali e polemici, sarebbe stato difficile immaginarne uno migliore. Pasolini è chiamato a chiarire ed eventualmente approfondire il suo atteggiamento negli studi televisivi, dai quali, com'è noto, partono << messaggi >> abilitati a raggiungere destinatari ben più numerosi di quelli che di solito seguono le discussioni ideologiche sui giornali. Il suo oppositore primario è il prof. Ferrarotti, che già aveva avuto occasione di manifestarsi in pieno disaccordo con lui. Gli altri quattro interlocutori sono Maurizio Ferrara, anch'egli << sceso in campo >> subito e senza mezze misure, lo scrittore Giuseppe Cassieri, il giornalista Giovanni Russo e il parlamentare democristiano Filippo Maria Pandolfi. 
Pasolini esordisce sostenendo la necessità di distinguere fra sviluppo economico e progresso, due cose non soltanto diverse ma addirittura opposte.
Lo sviluppo, ha detto, tende alla produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa, di beni superflui, e conseguentemente ad imporne il consumo; e a volerlo e a incrementarlo sono i << nuovi padroni >> della società odierna, i detentori di quel << Potere >> con l'iniziale maiuscola di cui egli ha parlato nei suoi scritti. 
II progresso si identifica invece con la creazione e produzione di beni che siano autenticamente necessari per i singoli e per la collettività. 
E in Italia è successo questo:
che i nuovi padroni, il Potere, hanno avuto partita vinta. spingendo gli italiani ad un consumismo fine a se stesso che li ha per l'appunto << omologati >> , ossia resi eguali nel desiderio di beni per lo più superflui, e disponibili all'accettazione di mode che anche esteriormente li hanno livellati fino a renderli indistinguibili l'uno dall'altro. 


Niente di nuovo

L'opposizione fra sviluppo economico e progresso, gli fa osservare Ferrarotti, è in realtà la sempiterna contraddizione fra il sistema di produzione capitalistico e lo sviluppo sociale correttamente inteso: niente di nuovo e niente di << italiano >> in senso specifico. Il problema travaglia tutto il mondo allo stesso modo. << Ma non è questo il punto >>, secondo Ferrarotti:
<< il punto sta nella necessità di identificare le forze sociali che hanno un interesse oggettivo a un tipo di sviluppo che sia anche progresso sociale equilibrato, e quelle che invece spingono a fondo per una espansione economica che, mentre non soddisfa i bisogni elementari, accelera e addirittura fagocita il mercato e le persone con l'offerta di beni superflui. E qui si può già capire che oggi, per esempio, il fascismo e la conservazione non sono più quelli di ieri, sono forze che si legano non a una condizione statica. ma che paradossalmente si presentano come forze dinamiche. Questo è il fatto nuovo: la conservazione è diventata dinamica, è diventata tecnocratica >>. 

Al punto d'avvio 

Maurizio Ferrara, primo a intervenire dopo l'impatto fra i due contendenti principali, giudica la contrapposizione sviluppo-progresso 
<< insufficiente a delimitare il campo della questione >>
se la si mantiene, come a suo parere fanno sia Pasolini sia Ferrarotti, in una dimensione unicamente economica. << In Italia >>, dice
<< c'è stato uno sviluppo distorto. ci sono state scelte sbagliate, antipopolari, assolutamente al servizio di un certo tipo di profitto; ma questo ha creato delle contraddizioni e delle contro-spinte, ha creato un movimento politico del tutto nuovo. Dobbiamo mettere nel conto positivo di questi 25-30 anni il fatto che l'Italia è profondamente cambiata e migliorata >>. 
Anche Pandolfi, con sfumature e motivazioni diverse, concorda sul cambiamento in meglio degl'italiani. Russo lamenta piuttosto che la crescita morale, civile e intellettuale dei cittadini non sia stata affatto compresa dalle classi dirigenti. Cassieri chiede che si riporti la discussione al suo punto d'avvio, cioè allo << scandaloso >> articolo pasoliniano, e vi distingue alcuni momenti diversamente rilevanti.
La nostalgia verso l'Italia arcaica e contadina è da respingere, dice; è invece il 
caso di meditare sulle preoccupazioni di Pasolini in ordine al prevalere del consumismo gratuito; e quanto al fatto che egli insista sull'impossibilità di distinguere non solo sotto il profilo della cultura, ma anche fisico, somatico, i fascisti dagli antifascisti, bisogna stare attenti a non dare al termine << fascismo >> un'estensione tale da fargli perdere ogni significato storico: 
<< A furia di essere tutti fascisti, nessuno lo è più, e si arriva alla vanificazione della terminologia, a uno sterile nominalismo >> 
Con il che viene toccato il nodo centrale della discussione. Dice Russo: 
<< In fondo è vero che in una piazza non possiamo distinguere lo studente, o il ragazzo del Sud, o il vecchio, da come sono vestiti e da come sono fatti. Ma se guardiamo a come sono fatte le nostre città, noi distinguiamo perfettamente le borgate dal villino residenziale. Distinguiamo perfettamente chi ha la piscina e va a farsi il bagno comodamente. e chi invece deve andare a bagnarsi in certe acque infette perché, per esempio a Napoli non sono stati risolti i problemi delle fogne >>. 
Intorno a questi temi si discute, e la discussione e l'interesse di mostrano che, per distorto che sia stato. il nostro sviluppo ha creato un'esigenza e un'aspirazione a certi valori che tutti riconosciamo come positivi. Ed è qui che il fascismo interviene, continua Russo, 
<< proprio contro chi vuole la giustizia, il progresso, e non lo sviluppo economico puro e semplice. I fascisti di oggi, prodotto di questa società consumistica, sono forse diversi da quelli del passato quanto a matrice, ma restano gli stessi come modulo ideologico. come violenza politica; senza rispetto per la libertà, per lo spirito, per i valori che secondo me sono eterni. Di fronte ad esso non possiamo assumere un atteggiamento liquidatorio, ne dal punto di vista estetico, né da quello culturale o sociologico >> 

 Una minaccia 

Anche Pandolfi ritiene che il fascismo, 
<<malattia ereditaria dello Stato e della società italiana>> 
cambiato per certi aspetti esteriori; esso tuttavia 
<<sopravvive e tende a sopravvivere a se stesso>> 
Il rischio di una omologazione ingannatrice può quindi farci perdere il senso di una minaccia che e ancora all'interno della nostra società e che c'impone di stimolare gli << anticorpi >> che pure esistono e che devono servire ad evitare il conformismo e l'accettazione delle spinte al consumismo e alle mode livellatrici. La nostra società può ancora farlo, dice Pandolfi, è ancora in grado di esprimere 
<< creatività di valori. Al di là dei rischi vedo una creatività nuova. e più nelle giovani generazioni che in quella cui appartiene la maggior parte di noi >> 
Nessuno. neppure Ferrara e Cassieri, sembra voler seguire Pasolini sul piano al di là dell'oggi, oltre il contingente e il pragmatico. Ma questo è il terreno che Pasolini ha scelto, e dunque egli vi insiste. Il vecchio fascismo << arcaico, orribile, ridicolo, feroce >> dice, certo sopravvive nei rappresentanti delle generazioni anziane. Ma i giovani sono altra cosa. I giovani che oggi si dichiarano fascisti 
non rinunzierebbero in realtà ad una sola delle comodità che sono loro venute dallo sviluppo, 
<< non vorrebbero mai tornare indietro, a quella famosa Italietta rustica e rozza >> 
e in ciò sono i naturali alleati, anzi i portabandiera del « nuovo Potere» che non ha più bisogno di dittatura e autoritarismo espliciti, dichiarati. perché può ottenere lo stesso effetto con la forza della produzione, con l'imposizione dei suoi prodotti e con il generale livellamento che ne deriva. Qui sta il nuovo fascismo, qui stanno i massimi rischi, nei quali gli italiani « omologati » (ossia tutti gli italiani) sono già immersi fino al collo, e dai quali non potranno liberarsi se continueranno a riflettere e ad agire secondo schemi superati, insufficienti e non più utilizzabili.

Dibattito aperto 

Non è certo possibile. in sede di presentazione, esaurire i contenuti dl questo come di qualsiasi altro dibattito. ne restituirne la ricchezza di argomenti. Diciamo soltanto per concludere che ben poche concessioni sono venute da una parte della << barricata >> in direzione dell'altra e che proprio in questa mancata conciliazione sta il valore della testimonianza che ciascuno ha recato. Il dibattito doveva restare, ed e rimasto. aperto: i suoi destinatari sono gli ascoltatori, e se e vero che il loro interesse e destinato ad accrescersi a misura che e loro possibile identificarsi con i poli polemici sui quali la discussione è articolata, questo e un caso in cui l'identificazione dovrebbe essere massima, e perciò massimamente utile la partecipazione. << Di fronte a un tema come questo >> osserva Giacovazzo, << non si può restare neutrali, si deve scegliere, anche perché il moderatore non fa tentativi di sintesi ma, al contrario, si pone come elemento di stimolo fra le opinioni contrapposte. Per dir meglio aggiunge, 
<< non solo su un tema come questo, ma su qualsiasi tema: non c'è problema che non possa essere visto da punti d'osservazione contrari, e non c'è punto d'osservazione che non contenga almeno un nocciolo di verità >>.
Dev'essere per questo che, tutto sommato, a Giacovazzo piace sostituire il vecchio termine << moderatore >> con quello, opposto e più congruo, di      << provocatore >> 

Giuseppe Sibilla
Controcampo va in onda sabato 
19 ottobre alle ore 21 
sul Nazionale TV. 






Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

P.P.Pasolini - UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

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"ERETICO e CORSARO"



UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

Sono nel corridoio della Scuola, c’è un frastuono assordante, un freddo umido e tetro. Le maestre non ci lasciano uscire perché nevica; escono solo coloro che sono attesi dai parenti. Ecco arriva mio zio, prende per una mano me, per l’altra Franca, e così avventuriamo per il piazzale coperto di neve. Intendiamoci: in me non c’era nessuna inconsapevolezza, la mia vita interiore si concatenava con la freddezza e la passione di ora; c’erano in me, l’ironia lo scetticismo, ecc. . Eppure la traversata di quella
piazza enorme e bianchissima, soffocata dal vento, equivale per me alla traversata della Baia di Hudson 
(cfr. E. Salgari, “Un’avventura al Polo”).
Secondo esempio: siamo nella cucina, presi da un’allegria natalizia fuori la neve è altissima. A un certo punto mia zia, mia madre e non so quali altre donne prendono una decisione che letteralmente mi travolge: vanno a fare alle pallate di neve. Nei loro volti c’è un riso una luce… dio mio, che finalmente mi si riveli il loro secondo aspetto (l’aspetto notturno?). esse vanno a giocare prese da quel misero entusiasmo che ora conosco bene; io resto nella cucina, eroicamente solo, colto dall’angoscia dell’esclusione. Ancora un passo indietro e giungo alle domeniche di mia madre fanciulla: l’immagine che conservo non è molto diversa, ma radicalmente mutata all’interno, imbevuta com’è di una luminosità più corporea, scialba e virile. I morti vivono in essa emozioni la cui rusticità paesana, tra antiquata ed epica, ha quella sicurezza scanzonata, quell’allegria brutale e quella severità esemplare che i giovani, non senza allegria, salgono
ammassare come una luce freschissima nella gioventù o aurora dei loro vecchi. Ad ogni modo questa serie di domeniche dietro a me, nella mia vita e oltre, è venuta a costituire una materia nelle cui fibre preziose si impastano i pesanti azzurri del cielo, i colori dei vestiti, le voci indecisi degli adolescenti, le botteghe invase dalla luce.

Rivedo una fotografia del ’29, in cui con un vestito a righe marrone e bianche, compaio sul balcone della Canonica, insieme a una trentina di fanciullini, miei compagni di classe. È straordinario, ancora non mi riesce di non commuovermi davanti al mio aspetto fiero, al mio ciuffo impudente, alla tenerezza di bronzo della mia carnagione; ancora non mi riesce di non pensare a quel Pier Paolo, come una specie di Telemaco o di Astianatte, ma già rotto alle avventure più seducenti. Eppure so assai bene cos’era quel ragazzino: era mitologicamente, qualcosa come un incrocio fra Catune e un piccolo Belachù.

Mia madre da giovane era bellissima. Piccola, fragile, aveva il collo bianco bianco e i capelli castani. Nei primi anni della mia vita ho di lei un ricordo quasi invisibile. Poi salta fuori improvvisamente verso i tre anni e da allora tutta la mia vita è stata impernia su di lei.

Mio padre era ufficiale di fanteria. Nei primi anni per me lui è stato più importante di mia madre. Era una presenza rassicurante, forte. Un vero padre affettuoso e protettivo. Poi improvvisamente, quando avevo circa tre anni, è scoppiato il conflitto. Da allora c’è sempre stata una tensione antagonista, drammatica, tragica tra me e lui.

Mio fratello è nato a Belluno quando avevo tre anni. Ricordo mia madre incinta e io che chiedevo: “Mamma, come nascono i bambini?” E lei, mitemente, dolcemente mi ha risposto:”Nascono dalla pancia della mamma”. Una cosa a cui allora però non ho voluto credere, naturalmente.

Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciore agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento “simbolico” che ho cominciato a non amare più mio padre.

Con mio fratello litigavo, ma eravamo molto amici. Lui mi ammirava perché a scuola avevo la media dell’otto. Perché ero più grande, più forte. Andavamo a fare a sassate con gli altri ragazzi. Una volta a Idria (quarta elementare ) abbiamo avuto l’idea di farci costruire dei scudi di metallo dal fabbro del reggimento. Quello scudo è stato una delle più grandi gioie della mia vita. Quando i ragazzi della banda nemica hanno cominciato a tirare sassi, noi ci siamo lanciati in avanti, protetti dagli scudi, come un esercito di troiani all’assalto. Tutti sono rimasti travolti dall’ammirazione. Quell’anno il dispiacere più grosso è stato il maestro, il maestro Cravatta. Aveva una grande antipatia per me e io non capivo perché. Forse ero diventato un po’ troppo Pierino.

Alla quinta elementare è successo un fatto inaudito. Sono stato bocciato in italiano scritto. Hanno accusato il mio tema di essere troppo poetico.

Leggevo i libri di avventure. Mi ricordo la storia di un cow-boy che si chiamava Morning Star, stella del mattino. Un giovanotto dritto, coi calzoni di pelle e il fazzoletto rosso al collo. E poi Salgari, tutto Salgari.

Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovinetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sessuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome -. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione.

La mia infanzia finisce a tredici anni. Come per tutti: tredici anni è la vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza. 

Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l’estate del ’34. finiva un periodo della mia vita, concludevo un esperienza ed ero pronto a cominciarne un’altra.

Quei giorni che hanno preceduto l’estate del ’34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita.

Ho venticinque anni… il mio aspetto continua ad essere quello di un adolescente… se la mia eterna adolescenza è una malattia, è invero una malattia assai lieta. Il lato odioso di essa è il suo rovescio, cioè la mia contemporanea vecchiaia. In altri termini l’avidità con cui, in qualità di giovinetto, divoro le ore dedicate alla mia esistenza così che portandomi dietro tutto il mio tenero e lucente bagaglio di gioventù sono entrato in uno stato di precoce esperienza e quindi di indifferenza. Un giorno mi dicevo che tutti gli uomini hanno davanti a sé un’uguale quantità di vita, e che quindi, poiché io ne divoro con maggiore avidità di una parte degli altri, stava nella logica dei fatti che io dovessi morire assai giovane.

Questa punizione si è forse avverata, solo non nel corpo della cronologia, ma nel suo sistema: la presente indifferenza dovuta a quella operazione che distrugge se stessa e la vita; l’esperienza mi dà un specie di morte: e io, in effetti sono assai giovane. Siamo nel 1947: era questo l’anno in cui la natura, avrebbe perso per me il suo valore. Adesso sono seduto sul greto del Tagliamento per l’ennesima volta; ecco le vene di sabbia lungo le interminabili prospettive di ghiaia, che risalendo, contro un orizzonte tinto di un azzurro torbido, vanno a lambire il cielo. Ecco qui intorno a me, la proda con la sua erba stecchita; la sua polvere, i suoi pioppi…
Tutto questo non è sufficientemente misterioso per sedurmi ancora.






Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Pasolini, Vivo e Coscienza - Testo per un balletto

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"ERETICO e CORSARO"

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti

Vivo e Coscienza è un testo incompiuto del 1963, scritto da Pasolini su commissione della Biennale di Venezia (ma non se ne fece niente). Vivo e Coscienza, uno spettacolo-balletto dove la vita combatte con la coscienza attraverso due personaggi antagonisti - probabilmente Betti e Ninetto. Nella bozza pasoliniana troviamo quattro scene che si svolgono in quattro periodi storici: seicento, rivoluzione francese, fascismo, resistenza.

Primo

Vivo. rozzo, adolescente, sta lavorando la terra: a scelta può potare le vigne o falciare l'erba con una grande falce celtica, o fare la raccolta delle mele. o arare; un lavoro antico perché siamo nel 1660. Vivo potrebbe però anche essere un pastore abruzzese o pugliese, o un marinaio, o un pescatore - potrebbe trovarsi su una spiaggia a Terracina, a Napoli, ad Amalfi, ad accomodare le reti. a tirare in secco la barca.
Poiché è pura vita, il suo lavoro è una danza: non ha parole in lingua per esprimersi. La sua esistenza è molto anteriore ancora al XII secolo. perduta nella preistoria, ad altro livello. in altra cultura.
Entra Coscienza. Viene, forse, dal Concilio di Trento. II cambio dei cavalli è una locanda li vicino. Essa è li per caso, ricca, indipendente. vestita pudicamente e baroccamente come una monaca. Osserva Vivo nella sua antica danza di vita, sensualità. lavoro, sole, smemoratezza, fame.

COSCIENZA 

Ah! Sei lì! Monumento della vita,
incancellabile, pura prole di prole
senza padre che guidi, Dio che benedica.
Sei lì, perché solo esserci è i] tuo amore!
O mare, o campi, intorno, e tu,
nero d'ombra. o bruciante di sole,
condanni il mondo con la tua gioventù.
Gotico è il tuo capo, romanico il tuo membro, pagano il tuo sorriso. Non è più la tua storia nel mondo. Eppure sembro io estranea al mondo, io che lo rinnovo !
Io, che ti esprimo e ti comprendo! 

Vivo non l'ha vista, e nella sua mitica indifferenza si è lasciato guardare. Coscienza gli si avvicina. 

COSCIENZA 

Ragazzo, è buona la tua merce?
(Ah la terra è tua, tu ne fai
ciò che ti serve, su essa eserciti
un rozzo potere, che tu sai
dai padri, e non t'inganna mai!) 

Vivo ascolta, viene portando come in un'offerta la merce prodotta dal suo lavoro fisico, «con le sue braccia», Coscienza l'acquista allungandogli le monete d'oro. 

COSCIENZA 

Tieni l'oro che ti piace tanto
(Ah, le antiche gioie misteriose
che t) procura il ballo, il canto
nelle sere, gelide o afose.
profumate di strame

Vivo prende le monete e torna alla sua danza, pieno di rinnovata vitale felicità. 
Un improvviso furore invade Coscienza. Un gesuita lo saprebbe forse spiegare. La tenerezza colpevole si tramuta in severo odio. Il mancato possesso sessuale in una puritana pretesa di possesso ideologico. Lo rimprovera per la sua vitalità così animale e lo invita invece a pregare, ad avere coscienza del dogma ecclesiastico. 
(Controriforma). 

COSCIENZA 

Vieni qui! Inginocchiati! Orrenda
è la bellezza della tua danza muta.
Non c'è nulla in te che non offenda Dio La Chiesa in te rifiuta
l'incoscienza: vieni qui, inginocchiati!
Altro non hai che una vita ricevuta in dono, piccola creatura sciocca:
è il demonio, è il demonio che possiede
il dolce silenzio della tua bocca...

Vivo poveretto, man mano che Coscienza parla, si abbiocca. Un po' alla volta, spaventato. smette di danzare, e, come una bestia al suo domatore, le si avvicina ad ascoltarne la voce piena di divina maestà e di minaccia. 

COSCIENZA 
(vittoriosa, ipocrita)

Così sei degno dei padri e del padre.
Così obbediente China il capo
Usa per pregare le tue labbra ladre 

Lui, buono buono, le obbedisce, le si inginocchia accanto e si appresta a recitare le parole della preghiera imposta per Religiosa Autorità. 


COSCIENZA 
(quasi con un grido)

Un bacio, un bacio di pietà
un bacio della casta Coscienza
a chi non sapeva ed ora sa 

Si china su di lui per baciarlo. Lenta. incerta, come vuole la sensualità vergognosa, prepotente. egoista, come vuole la tentazione rinnegata. E lui, preso da religiosa soggezione, supino, puro indifeso, non si schermisce. 
Si lascerebbe baciare se una musica stupenda non scoppiasse Una musica che solo il popolo canta. Una vecchia melodia che riempie cielo e terra. 
Come portarti da essa, entrano gli amici di Vivo, i compagni di Vivo. i coetanei di Vivo: i giovani vivi. Giovanotti del Seicento, dal molle grembo, dalla gamba elegante, dalle facce gremite di luce e di ombra: con fiori e frutta. come in un quadro del Caravaggio, un racconto del Bandello. Ragazzotti contadini vivi tre secoli fa, che altro non sono che vivi; e lingua non hanno, se non la lingua muta della danza - e danzano. 
Danzano come portati dalla stupenda forza della melodia, semplice, antica e terribile come il mondo. 

Vivo è strappato dalle labbra di Coscienza fatalmente. senza crudeltà. la lascia - le volta le spalle - la dimentica. Con pura, semplice, incolpevole gioia si mette a ballare con i suoi compagni. Ballando l'antico ballo della gioventù. E se ne vanno, Coscienza rimane sola, angosciata

Fine primo episodio 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti


Secondo. 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni della rivoluzione francese. Musica francese fine Settecento con riecheggiamenti dei canti della rivoluzione francese. 
Prima parte analoga alla precedente con varianti dovute al mutamento dell'epoca. 
Coscienza sarà vestita da sanculotta e rappresenta la coscienza rivoluzionaria. 
Vivo può essere un artigiano cittadino, Si arriva fino quasi al bacio, ma Vivo sarà trascinato via da una giovinetta sua coetanea. 

Terzo. 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni del capitalismo fascista 
Musica distorta del jazz degli anni 30 possibilmente di origine tedesca. 
Coscienza questa volta è la coscienza della borghesia dominante. 
Vivo potrebbe essere un contadino trasferito in città. disoccupato, [panchina giardinetti pubblici. stazione ferroviaria ecc.), Scena ripetuta con varianti fino al bacia. 
Vivo è portato via dal richiamo della patria (balletto soldati) e parte per la guerra,

Quarto.

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni della resistenza. Musica totalmente di ispirazione con lievissima eco dei canti della resistenza. 
Coscienza è la coscienza democratica della resistenza. Vivo è un partigiano. Balletto della condanna a morte e della fucilazione. 
Adesso che è morto Coscienza spera di poterlo baciare. Finalmente di possederlo. 
Ma mentre si china sulle sue labbra, anche questa volta egli le viene portato via. 
Trascinati dal solito motivo popolare, questa volta sono i morti che vengono a portarglielo via, Tra cui egli. che fu un anonimo vivo. si perde. 
Coscienza per la quarta volta rimane sola e angosciata, ma nella sua angoscia c'è una luce di speranza. 
«Verrà un giorno - ella spera — in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita». 

Annotazione. 

Il motivo centrale spiegato nella prima parte al momento del bacio, lo si ritroverà sempre negli altri episodi allo stesso momento. 
Gli episodi si ridurranno probabilmente a tre, tagliando la Coscienza rivoluzionaria francese. 

P.P.Pasolini
(Oggi in "Pasolini, Teatro" a cura di Walter Siti)

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti


Nel 2015 Vivo e Coscienza viene portato in scena da Luca Veggetti.
Scrive Luca Veggetti che firma coreografia, regia e dispositivo scenico:

“Ripercorrendo lo schema formale di Pasolini, lo spettacolo si articola così in quattro scene e in quattro “danze” di lavoro – rivoluzione – guerra – morte, dove Vivo e Coscienza agiscono in contrappunto a un “coro” che assume in ogni quadro identità diverse.
Data la natura frammentaria del testo di Pasolini, così come il fatto che dei quattro quadri previsti ne completò come dialogo solo il primo, ci è sembrato più interessante lavorare sul materiale delle didascalie, proponendo un rapporto di diegesi tra testo e azione. Questo ha introdotto, grazie all’idea di Marinella Guatterini, un elemento di grande rilievo e interesse nella produzione: la voce di Francesco Leonetti, poeta e amico personale di Pasolini, nonché attore emblematico in alcuni suoi film.
La poetica voce di Leonetti, registrata per l’occasione con l’aiuto di Eleonora Fiorani, è uno straordinario contributo artistico, un documento di valore inestimabile che sembra riportare in vita Pasolini stesso attraverso la toccante presenza vocale del suo amico e collaboratore. Esso serve come tessuto connettivo al materiale musicale. Una partitura di grande spessore e interesse che il compositore Paolo Aralla costruisce in parte elaborando materiali musicali e sonori di epoche diverse, essa si aggancia alla struttura ciclica di Pasolini spaziando dalla ieratica musica del ‘600 sino a materiali popolari del dopoguerra. A questa si aggiunge inoltre un progetto sonoro che, esplorando le possibilità di captazione del movimento, ne sfrutta il loro trattamento in tempo reale. I danzatori grazie a un particolare dispositivo audio inserito nei tavoli scenografici trasformano il movimento in suono”.

Luca Veggetti




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Pier Paolo Pasolini: un cinema di poesia, Accattone - Serafino Murri

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"ERETICO e CORSARO"



Pier Paolo Pasolini: un cinema di poesia

Accattone 

di Serafino Murri

«Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, 
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, 
è un esperienza filosofica. »
(Pier Paolo Pasolini, Poeta delle ceneri)
Locandina Accattone
Quando nell’agosto 1961, alla ventiduesima Mostra del cinema di Venezia, viene presentato fuori concorso il film Accattone, opera prima di Pier Paolo Pasolini, il regista ha 39 anni, una ventina d’anni di attività letteraria alle spalle e oltre dieci anni di frequentazione dell’ambiente cinematografico romano. A Roma era approdato rocambolescamente nel dicembre del 1949, al termine di una vera e propria “fuga” da Casarsa in Friuli, il paesino della famiglia materna, dove Pasolini viveva e lavorava. La fuga, un trasloco organizzato in fretta e furia con la madre Susanna Colussi, seguiva di un paio di mesi la prima traversia giudiziaria subita dal poeta: un processo per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne, che gli aveva fruttato l’espulsione dal PCI per “indegnità morale e politica” e il licenziamento dalla scuola media di Valvasone dove Pasolini insegnava italiano, e dove pare fosse avvenuto il fatto.
In sostanza, nell’Italia moralistica e puritana dell’epoca, e ancor di più in quel microcosmo che Pasolini aveva amato ed eletto come suo mondo linguistico e poetico, il Friuli, questo “scandalo”, di natura non semplicemente sessuale, ma “omosessuale”, stava a significare l’esclusione, il totale isolamento sociale. Così, a ventisette anni, Pasolini si ritrovava a cominciare quasi da zero una nuova vita, espiantato dal suo ambiente culturale e trapiantato in una città estranea in cui era semplicemente uno sconosciuto dal passato scabroso. L’attività letteraria di critico e poeta, benché sotterraneamente febbrile, si era infatti fino ad allora limitata alla pubblicazione, nel 1942, a sue spese, di un libriccino di poesie in dialetto friulano, Poesie a Casarsa, che era stato salutato dal celebre critico letterario Gianfranco Contini con grande entusiasmo, e alla direzione di una esile rivista in dialetto friulano, «Stroligut di cà de l’aga», poi semplicemente «Stroligut».
P.P.Pasolini

L’omosessualità diventò così per Pasolini, all’improvviso, nell’inverno del ’49, un “fatto ufficiale” che avrebbe segnato per sempre la sua vita. Una omosessualità vissuta drammaticamente, senza concessioni al narcisismo di maniera, autentica e al contempo dilacerante, che il poeta così descriveva in una lettera del 1950: «Io ero nato per essere sereno, equilibrato, naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro». Quella di Pasolini, comunque, era stata fino ad allora una vita solo relativamente tranquilla, frequentemente scossa da eventi traumatici: nato il 5 marzo 1922 a Bologna, aveva vissuto un’infanzia senza troppi affetti al di là di quelli familiari, a causa del costante girovagare imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell’esercito. Alla fine degli anni ’30, stabilitosi a Bologna, termina gli studi liceali e si iscrive all’università, alla Facoltà di Lettere. Qui, oltre a una brillante attività studentesca, vive una vita piuttosto “normale”: è capitano della squadra di calcio della Facoltà, frequenta i raduni sportivi fascisti, scrive poesie, dà i suoi esami, progetta con i compagni di università (tra cui Roberto Roversi e Francesco Leonetti) riviste letterarie d’avanguardia, segue le lezioni di Storia dell’Arte di Roberto Longhi, così fondamentali nella successiva passione figurativa del Pasolini regista, dipinge acquerelli e va spesso al cinema. Ma l’apparente normalità della sua vita si spezza di colpo l’8 settembre del 1943, giorno della caduta delle illusioni fasciste dell’Italietta allo sbando: Pasolini, da qualche giorno militare a Pisa, diserta e fugge a Casarsa, dove, eccettuato il padre, prigioniero in Kenya, tutta la sua famiglia si è rifugiata. Lì prosegue come può la sua attività letteraria, finché un evento luttuoso non giunge a turbare ancora una volta lo stato di quiete apparente della sua vita: il fratello Guido Alberto, partigiano della brigata Osoppo (vicina al Partito d’Azione, verso il quale andavano allora anche le simpatie di Pier Paolo) viene trucidato a diciannove anni da partigiani friulani filo-titoisti. Questo secondo trauma, aggiunto a quello della “fuga dalle illusioni” giovanili, porterà di lì a poco il giovane Pasolini alla scelta dell’imprescindibilità dell’impegno politico e civile, da quel momento in poi vissuto con una passione attivistica per tutta la vita. Nello stesso anno fonda la “Academiuta di Lenga Furlana”, centro culturale che cura pubblicazioni letterarie dialettali, e si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli. Nel 1947 si iscrive al PCI, e diventa segretario della sezione di S. Giovanni di Casarsa, dove svolge una intensa battaglia per la difesa dell’identità etnico-linguistica del Friuli, e per vivere insegna italiano alle scuole medie. Questa era, nell’inverno del ‘49, al momento dello “scandalo”, la vita del ventisettenne Pier Paolo Pasolini.
P.P.Pasolini

Nella gelida capitale della neonata Repubblica Italiana, all’inizio degli anni ‘50, poverissimo, Pasolini deve guadagnarsi da vivere alla giornata con collaborazioni letterarie a fogli giornalistici di ogni tipo, e, tra le altre cose, fa la comparsa presso gli stabilimenti cinematografici di Cinecittà. Questo è il primo contatto ufficiale con il mondo del cinema del giovane poeta. Dal 1950 al 1954 Pasolini prosegue febbrilmente l’attività letteraria: pubblica tre raccolte di poesie (tra le quali la famosa La meglio gio­ventù, in lingua friulana), moltiplica i suoi interventi critici, alternando tutto questo all’insegnamento in una scuola media privata a Ciampino, nei pressi di Roma. L’occasione di un nuovo contatto con il cinema, come sceneggiatore, gliela fornisce l’amico Mario Soldati, che lo invita a collaborare alla sceneggiatura del suo film La donna del fiume (1954). Nel 1955 pubblica Ragazzi di vita. Il romanzo, una cruda descrizione dell’ambiente sottoproletario romano, gaddianamente intessuto di quell’ibrido dialettale che era il “romanesco” delle borgate degli anni ‘50, subisce ben presto un processo per “oscenità”, cosa che se da un lato contribuisce ad accrescere la fama del maledettismo dell’autore, dall’altro prosegue nei fatti la moralistica persecuzione perpetrata nei confronti del pasoliniano “dar voce” all’Italia della vergogna, quella cancellata perché brutta, squallida, volgare, specchio concavo del perbenismo della “ricostruzione” piccolo-borghese. Nel 1956 Federico Fellini lo invita a collaborare alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, come revisore della parte dialettale romanesca. Quella di sceneggiatore (soprattutto con Mauro Bolognini) diventa negli anni una vera e propria professione, tanto da consentirgli di abbandonare l’insegnamento e trasferirsi dalla periferia di Ponte Mammolo al quartiere di Monteverde vecchio. Nel 1957 pubblica il volume di poesie Le Ceneri di Gramsci, in cui la passione ideologica si esplica con singolare nettezza nel suo intreccio con la pietà nei confronti dei reietti, dei senza classe, dei senza storia. L’anno successivo pubblica la raccolta di poesie L’usignolo della chiesa cattolica, una sorta di summa del suo credo marxista profondamente intessuto di millenari motivi di pietas cristiana. Il 1959 è per Pasolini l’anno del successo internazionale come romanziere, con la pubblicazione di Una vita violenta, il cui protagonista, Tomasino, si riscatta dalla sua condizione di sottoproletario acquistando una coscienza politica. Questo romanzo è il culmine di una fede istintiva di Pasolini nel marxismo, inteso come forma di riscatto dall’angosciosa e razzista violenza perbene della società borghese, fede che cederà lentamente il passo alla disillusione, una volta constatato il genocidio culturale ormai avvenuto nell’intera società italiana. Una vita violenta sarà presto tradotto in undici lingue, e l’editore Garzanti curerà diverse ristampe già nel solo primo anno di pubblicazione. L’attività critica vede la sua sistemazione temporanea nella raccolta di saggi Passione e ideologia nel 1960, anno in cui Vittorio Gassmann mette in scena la sua versione dell’ Orestiade di Eschilo. Insomma, quando nel 1960 Pasolini decide con la sua solita caparbietà di intraprendere il difficile cammino della regia cinematografica ha 39 anni, e senza aver frequentato alcuna scuola di cinematografia, senza cognizioni tecniche di nessun tipo, e con una occasionale anche se appassionata frequentazione dei set, è già uno scrittore affermato, uno sceneggiatore, e un critico letterario militante.
P.P.Pasolini

La gran parte degli scritti sull’attività registica di Pier Paolo Pasolini si impernia inesorabilmente sul raffronto tra l’attività poetica, dello “scrittore” Pasolini, e quella del cineasta. Certo questo nesso non può essere negato, dal momento in cui si parla di un intellettuale estremamente lucido, coerente e dotato di uno stile dall’impronta molto forte, i cui argomenti di discussione non sono scelti per puro gusto estetico, ma in relazione a un preciso ragionamento politico, di cui il gusto diventa al contempo premessa e corollario, e che per di più, parlando di sè, si autodefinisce “scrittore”. Ma occorre non cadere nel cliché dei sostenitori del cinema con la “C” maiuscola, quello della grande industria culturale fatto innanzitutto di esercizi tecnici in autoindulgenza, secondo cui l’ispirazione pasoliniana è innanzitutto letteraria e solo in seguito, e subordinatamente a questa, cinematografica. Niente di più falso. Il cinema, nella formazione culturale di Pasolini ha svolto un ruolo determinante, influenzando semmai la sua immaginazione letteraria più di quanto non si dica a prima vista, guardando i suoi film. Certo, Pasolini non era quello che si dice un “uomo di cinema”. Le sue immagini non avevano la maniacalità tecnica come principio strutturante, erano spesso cinematograficamente “sgrammaticate”, e la logica della loro costruzione era di certo molto più poetica che non cinematografica in senso stretto: ma in un genere ancora da costruire quale il cinema, la ricerca della rottura formale e della contaminazione con altri luoghi creativi non è di certo un limite, se non per chi esegue con spirito da mestierante un copione di allestimento prestabilito.
«A dire il vero era molto che pensavo di fare un film. Idea con radici molto lontane (…) E devo dire, a distanza di anni, che i film di Charlot, di Dreyer, di Ejzenštejn hanno avuto in sostanza più influenza sul mio gusto e sul mio stile che non il contemporaneo apprendistato letterario». È facile comprendere il senso di queste parole: basta pensare alla tensione descrittiva altamente icastica dei racconti degli anni ’50 e dei romanzi di Pasolini, per sentire che l’immaginazione creativa del poeta è sempre stata molto lontana dall’affabulazione e molto piena dell’influenza del suo gusto visivo, dalla passione per la pittura rinascimentale, ereditata dalle lezioni universitarie di Longhi, a, per l’appunto l’epica dei sentimenti e delle immagini dei grandi autori cinematografici come Dreyer e Ejzenštejn. Quindi, quanto alla contiguità dei romanzi con i primi film, se questa è innegabile, è altrettanto innegabile che le immagini e le situazioni di questi romanzi sono fortissimamente influenzate dal “gusto” visivo e cinematografico del poeta, e soprattutto, non necessitano dell’analisi parallela dei testi letterari di Pasolini per essere comprese nella loro effettiva consistenza espressiva. L’ispirazione cinematografica di Pasolini si è costituita dunque anche attraverso un doppio passaggio, dal cinema alla letteratura, per poi ritornare al cinema.
P.P.Pasolini

La decisione di dedicarsi all’attività di regista cinematografico è maturata, secondo Pasolini, innanzitutto per esprimersi «in una tecnica diversa, di cui non sapevo nulla e che imparai in questo primo film». Certo l’inquietudine espressiva del poeta, che già si era manifestata nella sua multiforme attività intellettuale, ha svolto un ruolo fondamentale nella caparbia e tardiva decisione di intraprendere un mestiere cosi specifico come quello del regista cinematografico. Ma lo spirito con cui lo ha intrapreso non era solo quello della volontà di confronto con un ennesimo genere artistico da scoprire per sedare la propria inquietudine. L’esigenza di confrontarsi con un mondo che conosceva lateralmente e la cui logica gli era completamente estranea nasceva in realtà da una profonda riformulazione del proprio ruolo di intellettuale: confrontarsi con l’immediatezza di uno degli allora principali mezzi di comunicazione di massa, molto meno “aulico” e gravato dal cliché borghese della solipsistica inaccessibilità alle masse dell’espressione letteraria, significava, in qualche modo, “scendere in campo”. Utilizzare quello che negli anni Sessanta era il mezzo di comunicazione dell’etica borghese per eccellenza significava accettare la sfida aperta da quella cultura, falsamente permissiva (in realtà neppure semplicemente tollerante, nei suoi confronti), sfruttando i suoi mezzi di produzione di cultura di massa per cercare di mettere in contraddizione la logica falsamente democratica di quella che ne La ricotta definirà «la borghesia più ignorante d’Europa».
P.P.Pasolini

Ma il mondo della militanza politica e quello della produzione di cultura trovano da sempre molta difficoltà a saldarsi, e il tentativo di incunearsi “dall’esterno” nei ferrei meccanismi della logica produttiva borghese non poteva essere indolore, neppure se si trattava di incunearsi contando sugli amici “inseriti” all’interno di questo sistema di produzione di cultura. Pasolini si getta in questa impresa alla sua maniera, con grande entusiasmo, senza alcuna “preparazione” di tipo tecnico, con l’unico bagaglio della frequentazione del set come giovane comparsa e dell’attività di sceneggiatore, ma con lo spirito di un “ritorno” a un’antica passione giovanile e una ispirazione irrefrenabile. La vicenda del suo esordio comincia nei primi mesi del 1960, anno in cui Pasolini riesce ad ottenere un contratto con i produttori Cervi e Iacovoni per il soggetto di La commare secca (film che divenne poi l’esordio cinematografico del suo giovane aiuto regista, Bernardo Bertolucci). L’accordo sfumò nel nulla, proprio quando Pasolini suggerì ai produttori di girare un altro soggetto, Accattone. Pasolini si rivolse allora alla neonata casa di produzione Federiz, fondata proprio nell’estate del ‘60 da Federico Fellini (alla cui sceneggiatura di Le notti di Cabiria aveva collaborato nel 1956), insieme a Rizzoli e Clemente Fracassi. Una volta raggiunto l’accordo di massima sul soggetto, Pasolini fissò con Bertolucci in centinaia di fotografie i personaggi e i luoghi del film: il Pigneto, la Borgata Gordiani, le strade di Testaccio, e poi via via Franco Citti-Accattone con tutti i suoi amici di ogni giorno.
P.P.Pasolini
Fellini, dopo aver preso visione del copione corredato dal fittissimo materiale fotografico, all’inizio di ottobre ha invitato Pasolini a girare dei “provini”, che consistevano in due intere scene del film. Il risultato, almeno per quelle che erano le aspettative della produzione, fu giudicato disastroso. La “sgrammaticatura” (in buona parte volontaria) delle scene girate, in cui a immagini di personaggi in movimento si alternavano, seguendo un cliché da film muto ejzenstejniano, dei primi piani statici, fece inorridire i tecnici, ma innanzitutto preoccupò seriamente Fellini, Fracassi e i pochi supervisori delle scene (tra i quali anche Tullio Kezich) quanto alla reale affidabilità dell’aspirante regista. Fu così che, ad una settimana dall’inizio delle riprese, la produzione decise di interrompere definitivamente la lavorazione, e Pasolini si ritrovò all’improvviso solo, senza nessuna possibilità di appello, con un film già pronto sulla carta e “bocciato” da una grande casa di produzione, e con una mole enorme di materiale preparatorio inutilizzabile. Dopo un lungo e traumatico periodo di depressione, attraverso la mediazione di Mauro Bolognini, Pasolini riuscì a raggiungere in tutta fretta un accordo con Alfredo Bini, che aveva prodotto Il bell’Antonio di Bolognini alla cui sceneggiatura aveva partecipato anche Pasolini. Nell’accordo entrò fortunosamente anche il produttore Cino Del Duca, il vero e proprio finanziatore dell’operazione, e cosi il film poté essere incominciato l’anno successivo. Anche il modo di lavorare sul set di Pasolini ha contribuito molto ad alimentare il cliché del suo comportamento da “scrittore”: le lunghe pause di meditazione, i cambiamenti improvvisamente apportati alle scene già stabilite, il suo disinteresse per le decisioni tecniche in senso spicciolo, lasciate interamente ai tecnici quanto alla realizzazione pratica anche se puntigliosamente inseguite con spiegazioni verbali ipertrofiche da critico d’arte, il poco “distacco” del regista, qualità giudicata essenziale nell’ambiente del cinema, dai membri della troupe, con i quali “discuteva” del lavoro da farsi, l’abitudine di girare personalmente ogni scena del film, con la cinepresa a spalla (cosa che ha seguitato a fare per tutta la vita). Così, seguendo i consigli pratici dell’aiuto Bertolucci (che aveva frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia), inseguendo caparbiamente la sua anticinematografica idea di cinema, basata sulla grammatica “a salti” del cinema muto, al gusto dei contrasti cromatici e dell’immagine sgranata, Pasolini portò a termine la lavorazione del suo primo film a 39 anni, nel luglio del 1961.
Accattone
Riprese Accattone
Le traversie subite da Pasolini per giungere alla realizzazione del film si moltiplicarono enormemente al momento della sua distribuzione. L’ostra­cismo perpetrato da autorità e opinione pubblica nei confronti del regista rasentò il linciaggio, e il risultato finale fu che Accattone divenne il primo film nella storia della cinematografia italiana a essere vietato, con apposito decreto, ai minori di diciotto anni.
Il film, montato in fretta e furia per la presentazione a Venezia, non ottenne il visto di censura per le sale, ma fu comunque proiettato fuori concorso al Festival il 31 agosto del 1961. Alla sua proiezione seguirono violente polemiche, durate circa due mesi, che si conclusero solo con l’intervento dell’allora Ministro per il Turismo e lo Spettacolo Folchi il quale impose al film, prima ancora che vi fosse una normativa definitiva in materia, il divieto ai minori di diciotto anziché di sedici anni. La proiezione nelle sale romane, avvenuta il giorno stesso della concessione del visto ministeriale, fu coronata dal boicottaggio prima, dal linciaggio materiale di Pasolini poi, ad opera di un gruppo di giovani neofascisti. Le accuse generalmente e genericamente mosse al film, rivolte con un accanimento indecifrabile e ridicolo se viste con gli occhi delle presenti generazioni, erano in realtà tremendamente serie nel torbido clima da dittatura della mediocrità “perbene” dell’epoca, tanto da meritare di essere espresse dal pulpito delle aule parlamentari da indignatissimi “rappresentanti del popolo”, da orde di disgustati giornalisti e da una massa consensuale addestrata al rifiuto della diversità dall’ossessiva pressione esercitata dalle prime due categorie. Il punto di queste accuse, a parte una inconsistente patina moralistica di disprezzo nei confronti della crudezza,
Riprese Accattone
 considerata “pornografica”, del mondo della prostituzione e del suo sfruttamento che faceva da sfondo al film, era soprattutto l’incomprensibile solidarietà e la simpatia che Pasolini, un intellettuale borghese “libero di parlare”, dimostrava di provare nei confronti di quei miserabili piccoli delinquenti, i sottoproletari romani protagonisti del suo film. E, nonostante la risibile foga con cui tali accuse vennero espresse, esse coglievano in pieno l’aperta provocazione intentata dal regista: mettere in scena ciò che la sua società, quella che gli aveva consentito la posizione di privilegio di realizzare un film, aveva volutamente rimosso da secoli: la vita degli “scarti”, di quegli uomini latori di una preborghese miseria condannati a sopravvivere ai margini più remoti delle istituzioni vigenti nella società. In una società che ha strumenti di persuasione ricattatoria tutti “morali” come lo “scandalo”, l’isolamento sociale, fondata sulla necessità di dimostrazione rituale di potere, dover riconoscere l’esistenza di un mondo che vive al di fuori del potere dei codici morali, non importa se perché gettato fuori con violenza dal corpo sociale dalla classe dominante, significa dover contraddire l’inesorabilità di tali codici, mettere in discussione l’universalità dei propri assiomi di forzata convivenza “etica”. Ma l’etica borghese non ha dialettica, o si è colpevoli o non lo si è, e neppure la pietà religiosa sulla quale tale etica dichiara di essersi costituita può soppiantare il razzistico senso di lesione che proviene dal fatto di dover riconoscere l’esistenza di un mondo recluso nel suo male, un “male” di cui tale classe storicamente dedita all’accaparramento è la diretta responsabile.
Pasolini, dunque, nel girare Accattone, metteva le mani in una ferita aperta nella pseudo-coscienza borghese, quella dell’esistenza di due Italie, una ufficiale, l’Italia da esportazione, onesta, né povera né ricca ma allegra e sincera, quella oleografica dell’antica nobiltà e dei mangiatori di maccheroni, e un’Italia miserrima, in cui tutto, dalla lingua ai codici morali, era fermo ad un passato mai risolto di carognesca vitalità senza scampo, in cui neppure un debole riflesso della prima poteva filtrare attraverso il duro codice pre-borghese della sopravvivenza, della vita alla giornata.
Scene da Accattone
Ma chi erano queste pietre dello scandalo, questa umanità dotata di una purezza astorica, questi “estranei” nella propria terra per cui la storia che si svolge nella società “vera” è vista solo come costante minaccia poliziesca o irraggiungibile mito di benessere, quando non è addirittura ignorata, con un comprensibile meccanismo di compensazione, come inesistente?La loro storia si intreccia a quella degli interpreti, tutti attori rigorosamente non-professionisti, reclutati da Pasolini negli stessi luoghi in cui la vicenda del film si svolge, tanto che a tratti diventa quasi impossibile distinguere lo spirito della trasfigurazione poetica da quello dell’inchiesta sociologica. Vediamone la vicenda nel film.
Cataldi Vittorio, detto Accattone, (Franco Citti), è un “pappone”, lo sfruttatore di una prostituta di nome Maddalena, mestiere che ha “ereditato” da un delinquente napoletano, Ciccio, denunciandolo anonimamente e raccogliendone la piccola “industria”. Accattone vive in una borgata fatta di baracche senza tempo, ai margini della periferia romana, in una casa diroccata, presumibilmente anche questa di Ciccio, insieme alla sua donna-prostituta e alla moglie-chioccia di Ciccio, Nannina, una donna disoccupata con cinque bambini a carico, di quelle che nel Sud Italia dell’epoca si sposavano a quindici anni. La vita di Accattone si svolge per lo più fuori del “baretto” assieme a un gruppo di amici tra i quali vige il codice non scritto di un fraterno antagonismo, tutti stoicamente fieri del loro non lavorare: ladruncoli, ricettatori, 
Scene da Accattone
mantenuti dai genitori, adolescenti spiantati e violenti che dileggiano sarcasticamente chiunque lavori (come Sabino, il fratello di Accattone). Accattone ha una moglie, Ascenza, dalla quale è separato, che gli ha dato un figlio. Ascenza lavora l’intera giornata per un salario da miseria in una officina di riciclaggio di bottiglie usate. L’apparente staticità della sua vita si interrompe quando quattro mariuoli napoletani compiono una spedizione per conto di Ciccio, scopo della quale è accertare le responsabilità di Accattone nell’arresto di Ciccio, e, nel caso, farsi giustizia. Accattone capisce le loro intenzioni e scarica tutta la colpa su Maddalena, la quale, una notte, nella squallida penombra di una discarica, viene malmenata dai quattro vendicatori di Ciccio e lasciata malconcia sul terreno. Portata in questura, Maddalena non denuncia i veri assalitori ma alcuni ragazzi che l’avevano insultata qualche sera prima. Accertata però la falsa testimonianza della donna, la polizia ne stabilisce la reclusione. Così Accattone resta all’improvviso “senza lavoro”, ma rinuncia spavaldamente alle “offerte di lavoro” del ladro Balilla, il quale, con una serenità millenaria, cerca di convincerlo spiegandogli che da quando il mondo è mondo un ladro non è mai stato disoccupato. Depresso e digiuno da giorni, Accattone torna all’officina in cui lavora la moglie per chiederle un prestito. Qui incontra Stella, una ragazza mite e ingenua, poverissima, della quale si innamora. Stella 
Scene da Accattone
accetta l’amore di Accattone con una sorta di timida rassegnazione, vincendo un’inibizione nei confronti degli uomini derivata dal suo vissuto familiare: Stella è infatti figlia di una prostituta. L’espe­rienza dell’innamoramento provoca in Accattone una crisi di coscienza tutta istintiva, un’insoddisfazione di sé fino ad allora sconosciuta; ma i suoi propositi di cambiamento sono costantemente minati dalla spinta alla continuità proveniente dai suoi amici. Accattone porta Stella a vivere da Nannina, e, addirittura, decide, tramite una “raccomandazione” del fratello, di andare a lavorare da un fabbro. Lo spirito “malandrò” di Accattone riaffiora di continuo, come quando, per comprare delle scarpe a Stella deruba il figlioletto della catenina d’oro, con una rassegnazione amara che è tutto un presagio del futuro. Infatti, l’apparente rinascita di Accattone è di breve durata, appena un giorno: il tempo di scontrarsi con la durissima realtà del lavoro materiale, con la paura feroce del giudizio degli amici, con l’incapacità di tenere fermo un proposito positivo senza farsi toccare dalla disperazione della propria condizione, e Accattone crolla miseramente in una cupa e feroce depressione. Così, dilacerato, Accattone sogna il proprio funerale, la sua morte rituale di fronte agli amici di sempre, in un paradiso-cimitero pezzente e squinternato gestito da un imperturbabile becchino. Accattone rinuncia al lavoro con rabbia, e decide, non senza tormento, di sfruttare la prostituzione della rassegnata e benevola Stella. Ma il tentativo non riesce, Stella crolla di fronte al primo cliente e torna in lacrime da Accattone. Per
Scene da Accattone
 di più, Amore, una prostituta che ben conosce Accattone, viene arrestata in una retata e portata nella cella di Maddalena, dove fa la spia sui cambiamenti intercorsi nella vita del suo ex-protettore. Maddalena, ferita nell’orgoglio, decide di denunciare Accattone. La polizia comincia a controllarne i movimenti. Così, mentre Accattone, alla ricerca di cibo per sé e per Stella, accetta l’offerta di Balilla di partecipare a qualche furto, la polizia è pronta a intervenire. Durante il furto di alcuni salumi, infatti, Accattone, Balilla e il giovane Cartagine vengono colti in flagrante dalla polizia. Accattone però riesce a fuggire rubando una motocicletta: ma la fuga, come ogni altro tentativo di riscatto di Accattone, è di breve durata. Fuori campo sentiamo i rumori di un incidente stradale. La polizia e gli amici accorrono, mentre con la testa sanguinante sul selciato scuro, poco prima di morire, Accattone dichiara la sua avvenuta liberazione, il compimento del suo tragico destino, dicendo semplicemente: «Ah, mo’ sto bbene». Il film si chiude sul segno della croce fatto meccanicamente e senza emozione dal ladro Balilla in manette, sulle note della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach.
Riprese Accattone
Il “mondo a parte” descritto da Pasolini nel film era come l’ultima scia di qualcosa di davvero preistorico, nel senso di precedente alla condizione borghese dell’essere-nella-Storia: un mondo assoluto, sciolto dai legac­ci della Ragione Dominante, in cui si sopravvive solo attraverso una ferina ingenuità senza spazio per i sensi di colpa, un mondo in cui aleggiava un polveroso senso di morte in vita, un’allucinata serenità non senza allegria, simile all’ultima sigaretta del condannato a morte. Pasolini, in strabiliante sintonia con i filosofi della scuola di Francoforte e in particolar modo con Theodor W. Adorno, dichiarava preistorica anche la società borghese a quel mondo contemporanea, ma preistorica in un senso del tutto differente: preistorica perché viaggiante verso la Nuova Barbarie capitalistica, quella tecnocratica, basata sul depauperamento della coscienza e sull’assimilazione e la digestione di ogni diversità, attraverso un’irresistibile estetizzazione della merce. Una società violentemente razzista, la cui apparente tolleranza viene in realtà usata come arma di ricatto per imporre la giustificazione delle tendenze più regressive e violente mente antidemocratiche, per lasciare spazio illimitato all’ottusa colonizzazione della cultura attraverso la sua illimitata mercificazione. E la vaga somiglianza percepibile all’epoca tra queste due preistorie parallele era, secondo Pasolini, “del tutto casuale”. La storia “astorica” del sottoproletariato è da sempre ferma alla rivolta individuale contro uno strapotere sovrastante quanto distante e sconosciuto: ma la rivolta non può trasformarsi in rivoluzione poiché il sottoproletariato non è mai stato una classe omogenea con una coscienza di sé, ma un gruppo eterogeneo la cui unica caratteristica comune è imposta dall’esterno, ed è l’indegnità sociale. Un gruppo in cui per di più vige la legge del più forte, e dove esiste a stento una solidarietà che confina con la pietà di sé e degli altri. Il dolore feroce del sottoproletariato per la propria condizione è infatti pieno di risentimento, ma del tutto estraneo alla sana rabbia della “coscienza” proletaria, perché senza speranza di riscatto: una condizione tragica, vitalisticamente disperata, per molti aspetti simile a quella dell’intellettuale borghese anti-borghese Pasolini. Per
Scene da Accattone
 Pasolini infatti quelle stesse leggi che un sottoproletario ignorava per furbizia, in base alle leggi della pigra sopravvivenza del succubo, o per semplice, terrorizzata incoscienza, sono ignorate per rifiuto, attraverso una precisa presa di coscienza contro il modello di sviluppo che da esse è sotteso. E la disperazione, che nell’animo sottoproletario nasce dall’impotenza, nella lucida analisi pasoliniana è la conseguenza di un’impotenza di secondo grado: quella di chi può parlare solo a patto di confondersi con l’altra merce, di diventare voce del coro e così scomparire. Ulteriore tratto in comune è, come conseguenza della disperazione, il non potersi rassegnare, il dovere scommettere su se stessi con il disincanto di chi sa che tutto probabilmente sarà vano. Per questo ogni tentativo come quello di Accattone, di opporre una caparbia disobbedienza al tragico destino della propria condizione, somiglia a quello di Pasolini. E come per il destino che di lì a quattordici anni attendeva Pasolini, anche quello di Accattone non poteva che concludersi con la morte, unica vera libertà concessa dalla società eugenista agli uomini “senza dignità” che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della Ragione Dominante.
La sconfitta di Pasolini nella sfida aperta con la società benpensante era dunque già scritta fin dall’inizio. Infatti, quando Pasolini si accinse a descrivere questa “cultura altra” in seno a quella ufficiale, in Italia già serpeggiava il cambiamento da quella società politica della “ricostruzione” del dopoguerra, che lo scrittore definiva «in perfetta continuità col regime fascista», alla nuova barbarie del boom economico, quella dell’industria culturale di massa, che attraverso il miraggio dell’integrazione economica e sociale, avrebbe ottenuto di 11 a poco la sua vittoria: l’omologazione a sé di tutte le “diversità” residue.
Quando il film fu trasmesso per la prima volta in TV, nel 1975, Pasolini scrisse in un celebre corsivo sul «Corriere della Sera» che ai suoi occhi Accattone non era più altro che un “prelievo di laboratorio” effettuato su una società che stava scomparendo, tanto nella sua classe dominante quanto nel suo sottoproletariato, oltre che nella lingua, nelle abitudini, nel modello di vita: l’Italia dell’estate del ‘60, come tiene a specificare Pasolini, quella del governo Tambroni formato con l’ausilio di missini e monarchici, era in realtà il complesso residuo di un tempo che si stava autofagocitando definitivamente. Così il regista descrive questo processo: «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la “grandiosa metropoli plebea”, avrei avuto l’impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani – svuotati dei loro valori e dei loro modelli come del loro sangue – e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere: quello piccolo-borghese».
Pasolini aveva dunque immortalato nel suo film gli ultimi latori di una “atroce condizione umana”, dialetticamente contrapposti, nella “purezza” della loro ignoranza della storia borghese, alla società dell’apparenza, altrettanto caduca e transitoria, di quegli anni. Allora dunque era ancora possibile tentare di descrivere una vita intatta dalla morale borghese, anche se non in grado di contrapporle alcuna morale: uno di questi sottoproletari aveva infatti molto di più in comune con un uomo della sua condizione vivente nel medioevo che non con un suo contemporaneo appartenente alla classe ideologicamente dominante. L’ideologia del miserrimo Cataldi Vittorio detto Accattone è infatti un’ideologia negativa, religiosa alla rovescia, religata al destino e ai suoi pagani, millenari valori assoluti, quelli del cieco accaparramento della propria sopravvivenza. Tutto ciò che oltrepassa la vita alla giornata, persino l’esperienza rinnovatrice dell’amore, non gli è concessa. Tutto può entusiasmarlo appena per un breve istante, ma quando esce dalla condizione di sogno irraggiungibile per diventare realtà, subito si confonde allo squallore della vita, si sporca, è troppo bello per durare. Per questo Accattone non vive che la morte dell’esperienza, e non può essere liberato che dall’esperienza della morte.
Scene da Accattone
Ciò che all’epoca spingeva Pasolini a dipingere l’epos del sottoproletariato romano era l’utopia, di origine marxiana, del supporre in chi fosse intatto dalla logica dominante il germe di una storia futura, di là da venire, basata sui valori di una spontaneità anche vicina a quella predicata da Cristo nel Vangelo, ma soprattutto intesa come rottura di quella “seconda natura” sociale che è il modello comportamentale imposto dalla classe dirigente: se un proletario infatti corre sempre il rischio della corruzione proveniente dal miraggio del passaggio alla classe piccolo-borghese a contatto con la quale egli vive, il distacco definitivo del sottoproletario lo pone al di fuori di questo rischio (ma anche al di fuori di qualsiasi altra forma di evoluzione). L’assoluta potenzialità rinnovatrice dell’essere completamente al di fuori del vincolo sociale si trasforma così nell’esserne completamente all’interno non appena la colonizzazione culturale da parte di chi possiede i mezzi di persuasione ha inizio. Il “genocidio” lamentato da Pasolini, dunque, per paradosso, non era che lo sviluppo di quell’etica senza morale sospesa nel tempo, di quell’estraneità incosciente che poteva essere l’unico punto di forza palingenetico di questo mondo.
Riprese Accattone
La narrazione di Accattone è affidata ad uno stile del tutto simile a quello “bocciato” da Fellini: una fotografia nitida e contrastatissima che affida la sua forza espressiva ad un’alternanza poeticamente scomposta di primissimi piani statici, dettagli, controcampi panoramici e campi lunghi con un ritmo interno concitatissimo; i movimenti di macchina ridotti all’essenzia­le, anche quando, come nei due celebri carrelli su Accattone che cammina in strada, si tratta di sequenze molto lunghe. Un discorso a parte merita l’uso del suono nel film. L’aperta provocazione di utilizzare uno dei capisaldi della tradizione musicale religiosa, La passione secondo San Matteo di Bach, come leitmotiv per le gesta disperate dell’Accattone senza Dio, a enfatizzarne la condizione di povero Cristo che porta su di sé i peccati di tutto un mondo senza neppure il beneficio religioso della redenzione, si alterna alle stornellate romanesche cantate con sarcasmo cattivo dai ragazzi della borgata e alle canzoni popolari con le parole storpiate in un’acre parodia del mondo. Ma fra tutte vi è una scena che merita senz’altro di essere ricordata per la sconvolgente efficacia della sua essenzialità: quella del sogno di Accattone. La scena sovraesposta e polverosa in cui si aggirano, tra detriti e calcinacci, vestiti a lutto e preceduti da angeli-chierichetti in processione, gli amici di Accattone che vanno al suo funerale, il senso di morte emanato dai corpi esanimi ricoperti di pietre dei mariuoli napoletani, l’angoscia di vedersi scavare la propria fossa all’ombra anziché al sole, sono sottolineati in maniera superlativa da un silenzio sordo, dall’assenza di qualsiasi rumore, un silenzio senza ampiezza, senza respiro, senza spazio. Solo, di tanto in tanto, qualche breve ed ellittico scambio di parole, e il respiro affannato di Accattone che sogna, fanno baluginare qualche germe di realtà in questo definitivo omaggio alla forza espressiva dell’immagine “muta”, a questo silenzio vuoto che fa da contrappunto ai numerosi momenti di silenzio pieno di latrati, di motori, di urla e di vento in cui i passi sconsolati di Accattone si aggirano per tutto il corso del film.
Scene da Accattone
In Accattone si addensa dunque già tutto il cinema futuro di Pasolini, per il quale non conoscere una tecnica “da specialista” ha comportato la possibilità di usarne i mezzi espressivi come se fossero sostanzialmente nuovi. Alla provocazione politica si univa dunque una vera e propria provocazione visiva, simile nello spirito a quella dell’eterno non-professionista Duchamp: riuscire a guardare da una vista nuova la stessa, squallida realtà dell’osservazione quotidiana, in modo da rivelarne, pur senza cambiarne gli attributi, quell’intima drammaticità che fa corpo con una irraggiungibile, amara ironia.­
Fonte: 
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini
L’Unità / Il Castoro, 1995; pp. 13-29






Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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